In Italia si è venuta a creare una frattura tra l’andamento dei salari e quello dei costi abitativi. I salari reali sono diminuiti dal 1990 a oggi mentre i prezzi delle case sono esplosi, innescati da un processo di finanziarizzazione del mercato immobiliare partito negli anni ‘90. Sarah Gainsforth in L’Italia senza casa. Politiche abitative per non morire di rendita sostiene che la casa ha progressivamente smarrito la sua funzione di bene d’uso per diventare un bene di scambio e uno strumento di investimento finanziario, slegato dall’economia reale e dal bisogno abitativo concreto. Questo spostamento è alla base del paradosso per cui, nonostante un calo demografico e un alto numero di case vuote (quasi 10 milioni, il 27,2% del patrimonio, secondo l’Istat), l’accesso alla casa sia diventato proibitivo. Il mercato è sempre più dominato da logiche speculative, dove circa il 60% delle compravendite avviene senza mutuo, spesso per l’acquisto di seconde case o come investimento, concentrando il valore immobiliare in mani sempre più ristrette. Parallelamente è radicalmente mutato il ruolo delle politiche pubbliche. Si è passati da una fase di intervento diretto keynesiano, simboleggiato dalle case Fanfani, cioè case popolari costruite per i meno abbienti in un’epoca in cui essere poveri non era una colpa, a un progressivo abbandono di qualsiasi politica abitativa che non fosse un sussidio all’affitto nel mercato privato ormai liberalizzato. Questo abbandono risponde ad una precisa strategia politica per sostenere la finanziarizzazione dell’economia attraverso la crescita artificiale dei valori immobiliari. Lo Stato ha smesso di costruire e ha iniziato a vendere il proprio patrimonio residenziale e i suoli pubblici, privandosi così dell’unico strumento per calmierare il mercato e, anzi, contribuendo attivamente a processi di gentrificazione. Politiche urbane basate sul marketing territoriale e sull’attrazione di turisti e capitali privati hanno completato l’opera, trasformando centri storici in “ghetti turistici” in mano ad Airbnb, spogliati del loro tessuto sociale originario. Le conseguenze di questa doppia dinamica sono devastanti e si ripercuotono su tutta la società. Il 67,4% dei giovani tra i 18 e i 34 anni vive con i genitori mentre gli studenti fuorisede sono costretti a destinare gran parte del loro budget a stanze inadeguate sul mercato privato a causa di una carenza cronica di alloggi pubblici (solo il 5% del fabbisogno contro una media Ue del 17%), minando il diritto allo studio. Anche i giovani lavoratori, spesso precari, si stima il 41% degli under 35, e con salari bassi non riescono ad accedere a un’abitazione autonoma, ritardando o rinunciando a formare una famiglia. La questione abitativa, inoltre, non è più un problema confinato alle fasce più povere della popolazione essendo un freno allo sviluppo che riguarda l’intera economia nazionale e la forma stessa delle nostre città. L’inaccessibilità degli alloggi centrali limita la mobilità per studio e lavoro, costringe a lunghi e stressanti spostamenti pendolari, aumenta l’inquinamento e il consumo di suolo e dissipa le chances di sviluppo territoriale perché gli eventuali aumenti salariali vengono assorbiti dai costi abitativi, finendo nelle tasche dei proprietari. Le città non sono più in grado di trattenere i giovani e i lavoratori, come dimostra l’emigrazione all’estero, triplicata in dieci anni e ora partente anche dal Nord Italia. In assenza di politiche redistributive la casa è diventata un potente strumento di accumulazione di vantaggi per pochi e di svantaggi per molti, erodendo quel patto sociale che garantiva, attraverso il lavoro, la possibilità di una vita dignitosa e di progettare un futuro.
1. Come siamo diventati proprietari
La gestione della povertà e della questione abitativa a partire dall’età moderna si è strutturata attorno a un criterio fondamentale: il nesso inscindibile con il lavoro, dove l’abilità o l’inabilità al lavoro fungeva da discrimine per distinguere i poveri “veri”, meritevoli di assistenza, dai “falsi”. Nell’Ottocento questa gestione assunse una connotazione urbana e di ordine pubblico, percependo la miseria come un problema di decoro da affrontare attraverso politiche di segregazione, isolamento, internamenti, espulsioni e un ferreo controllo poliziesco sulla mobilità. Con il volgere del secolo i processi di industrializzazione introdussero un elemento nuovo, al tradizionale strato di poveri si aggiunse e si sovrappose gradualmente un nuovo proletariato urbano, impiegato inizialmente in maniera stagionale nelle fabbriche. Questa massa di indigenti, funzionale come “serbatoio di manodopera flessibile” allo sviluppo del mercato capitalistico, finì però per generare effetti collaterali insostenibili per le città, come la diffusione di epidemie di colera e tifo e un pesante inquinamento ambientale, spingendo così i primi e necessari interventi in campo sanitario e urbanistico. È in questa fase che nasce l’esigenza di un apparato sociale in grado di correggere gli effetti più destabilizzanti del nascente sistema industriale.
Le risposte alla miseria urbana continuarono, come in passato, a includere sventramenti e demolizioni dei quartieri più insalubri ma si affiancarono anche le prime opere di urbanizzazione e la realizzazione di servizi igienici collettivi fondamentali, come acquedotti e fognature. Questa urbanizzazione legata all’industrializzazione pose con forza una nuova “questione sociale” che avrebbe motivato le riforme culminate nella nascita del moderno Stato sociale. In Italia, significativamente, questo processo avvenne con i primi provvedimenti di regolamentazione del lavoro. Il nuovo apparato assistenziale si organizzò ancora una volta intorno al lavoro, assumendo un carattere accentrato e differenziato per categorie professionali, un tratto distintivo del welfare italiano, corporativistico, frammentato e familistico. Il lavoro divenne così il principale strumento per selezionare i destinatari delle misure sociali, necessarie sia per mitigare gli effetti del capitalismo industriale sia per controllare le masse popolari. Inizialmente l’assistenza riguardò solo i lavoratori stabili delle grandi concentrazioni industriali, emarginando quelli occasionali e stagionali, una distinzione che si rifletté anche sulla geografia urbana, con quartieri che ospitavano diverse categorie sociali. Nella seconda metà dell’Ottocento, nell’Italia settentrionale, l’assistenza privata rispose alle nuove povertà “industriali” principalmente attraverso due modelli: il paternalismo aziendale e il mutualismo. Il primo vide gli imprenditori farsi carico della costruzione di interi villaggi operai e di infrastrutture come scuole e abitazioni, esercitando un controllo sociale che si estendeva anche al tempo libero dei lavoratori. In contemporanea si svilupparono le organizzazioni mutualistiche, le società di mutuo soccorso che offrivano assicurazioni, sussidi e costruivano case operaie per i propri iscritti, appartenenti a precisi settori produttivi. Anche le cooperative edilizie, assumendo un carattere più marcatamente operaio, svolsero un ruolo rilevante nel risanamento urbano, collaborando con le amministrazioni municipali per dare risposte abitative ai ceti subalterni. Il loro intervento rimase marginale nel panorama edilizio nazionale e finì, come il mercato immobiliare privato che si rivolgeva al ceto medio-alto, per favorire principalmente le aristocrazie operaie e la piccola borghesia impiegatizia, relegando i ceti popolari nelle aree più degradate e sovraffollate delle città.
Tra la fine dell’Ottocento e l’inizio del Novecento l’Italia conobbe un miglioramento delle condizioni di vita e una riduzione della povertà assoluta, anche grazie al superamento dei più urgenti problemi igienico-sanitari. Nel 1903 fu approvata la prima legge organica sulla casa, la legge Luzzatti, pensata per agevolare specificamente la classe operaia attraverso la costruzione di alloggi da parte di comuni e cooperative, finanziati a condizioni agevolate da banche e società di mutuo soccorso. Il tema della casa veniva così affrontato esplicitamente in relazione al lavoro e alla produttività, con l’obiettivo di sostenere un sistema industriale che necessitava di una forza lavoro stabile. Entro il 1908 molte città si dotarono di un Istituto autonomo per le case popolari (Iacp) e, con i successivi codici del 1908 e del 1919, ai comuni fu assegnato il compito di costruire le infrastrutture per le nuove abitazioni, introducendo anche sgravi fiscali per alcune categorie di lavoratori disagiati. Il regime fascista ereditò e consolidò questo nascente Stato sociale, trasformandolo in uno strumento di consenso e di controllo e accentuandone i caratteri corporativi, frammentari e clientelari. Il paternalismo aziendale conobbe una rinnovata espansione con la costruzione di case e quartieri per operai. Il regime istituì un sistema di protezione per i dipendenti pubblici, mantenne in parte quello per i lavoratori dell’industria ma abbandonò sostanzialmente i lavoratori agricoli. La contemporanea promozione della “ruralità” servì più che altro a contrastare, per motivi politici ed economici legati all’autarchia, l’espansione urbana e della cultura industriale. L’obiettivo era di allontanare poveri e disoccupati dalle città, come avvenne a Roma con gli sventramenti del centro storico e la costruzione di borgate periferiche, preferendo investire in opere monumentali e nel dopolavoro per controllare i lavoratori piuttosto che in servizi e infrastrutture. Nonostante le misure punitive, come la legge contro l’urbanesimo, il regime fallì nell’arrestare il processo di urbanizzazione che proseguì anche attraverso l’edilizia abusiva e baraccata ai margini delle città. Il vero spartiacque nella storia delle politiche abitative italiane fu il secondo dopoguerra. Il regime fascista aveva rimosso il problema della povertà e solo nel 1951 una commissione parlamentare d’inchiesta sulla miseria ne rivelò le dimensioni drammatiche. I dati, pubblicati nel 1953 e integrati dal censimento del 1951, dipingevano un quadro allarmante: 47 milioni di persone in poco più di 11 milioni di abitazioni, 220.000 famiglie che vivevano in baracche, grotte o locali di fortuna, il 60% della popolazione in case sovraffollate (con il 20% del Mezzogiorno che viveva con sei persone per stanza) e solo il 7% delle abitazioni dotato di acqua potabile e bagno. Il fabbisogno di abitazioni era stimato in circa dieci milioni di stanze. In risposta a questa emergenza, e sull’onda della strategia già applicata con successo nella riforma agraria (che aveva espropriato 700.000 ettari e creato 100.000 piccoli proprietari), fu varato il Piano Ina-Casa nel 1949. Ideato dal ministro democristiano Amintore Fanfani, il Piano aveva come obiettivi rilanciare l’occupazione nel settore edile come alternativa ai sussidi di disoccupazione e soddisfare i bisogni abitativi della popolazione immigrata nelle città. Il Piano fu finanziato principalmente attraverso prelievi obbligatori sulle retribuzioni di tutti i lavoratori dipendenti non agricoli e dei datori di lavoro, integrati da un contributo statale. Tra il 1949 e il 1963, nel corso dei due settennati di attività, il Piano realizzò 355.000 alloggi, diede occupazione stabile a oltre 40.000 operai edili l’anno e coinvolse circa un terzo dei 17.000 architetti e ingegneri italiani allora attivi. La sua incidenza sul totale nazionale delle abitazioni costruite fu del 10%, con punte del 18,5% in Calabria. Nonostante limiti come la localizzazione periferica e isolata di molti quartieri e la mancata attivazione di servizi previsti, il Piano Ina-Casa rappresentò il primo esperimento di welfare urbano su vasta scala in Italia, mostrando un’attenzione inedita alla dimensione sociale dell’abitare. I risultati quantitativi furono notevoli visto che a pieno regime si realizzavano 2.800 alloggi a settimana, assegnandoli a famiglie di cui il 37,8% proveniva da condizioni estreme come cantine e grotte. L’aspetto più duraturo e caratterizzante del Piano, e delle successive politiche abitative italiane, emerse nel dibattito parlamentare che ne accompagnò l’approvazione: la scelta di promuovere sistematicamente la proprietà della casa. Il disegno di legge originale prevedeva l’assegnazione in proprietà per tutti gli alloggi, attraverso un sorteggio che la stampa ribattezzò “totocasa”. Questo orientamento affondava le radici nella cultura della Democrazia cristiana, sintetizzata nello slogan “non tutti proletari ma tutti proprietari”, e trovò un riscontro formale nell’articolo 47 della Costituzione che non sancisce un diritto alla casa ma impegna la Repubblica a “favorire l’accesso del risparmio popolare alla proprietà dell’abitazione”. Il dibattito in Parlamento, analizzato dallo storico Bruno Bonomo, modificò parzialmente la proposta iniziale, stabilendo che solo metà degli alloggi sarebbe stata assegnata in proprietà e l’altra metà in locazione, sostituendo il sorteggio con una graduatoria. In quell’occasione voci critiche, come i senatori comunisti Paolo Fortunati e Carlo Cerruti e il deputato socialista Fernando Santi, sollevarono obiezioni fondamentali. Santi definì la “proprietà forzata” un “pietra al collo” per il lavoratore che lo indebitava per venticinque anni e ne limitava la libertà. Fortunati e Cerruti misero in guardia dai rischi di equità: una politica che cede la proprietà, finanziata dalla collettività, cristallizza il vantaggio in modo perpetuo, togliendo l’alloggio dal patrimonio sociale e impedendo di riallocarlo in base al bisogno futuro, a beneficio non dei più miseri ma di chi già possiede una certa stabilità economica. Nonostante queste lucide critiche la spinta verso la proprietà prevalse e si radicò. Nei fatti quasi il 70% delle case Ina-Casa fu concesso a riscatto. Questo approccio fu rafforzato da altre leggi degli anni ‘50, come la Tupini e la Aldisio, che estesero generose agevolazioni fiscali e mutui agevolati non solo all’edilizia popolare pubblica ma anche a cooperative e società private senza scopo di lucro, di fatto orientando i contributi pubblici verso i ceti medi, il nerbo del consenso democristiano. Si avviò così un processo di progressiva erosione del patrimonio pubblico. Già a partire dal 1950, con proposte di vendita degli alloggi degli enti pubblici come l’Incis, il numero di case che usciva dal patrimonio pubblico superò quello che vi entrava con le nuove costruzioni. Si stima che tra il 1951 e il 1970 siano stati privatizzati circa 850.000 alloggi di edilizia sociale, più dei 355.000 costruiti dal Piano Ina-Casa. Questa scelta di fondo trasformò la politica edilizia in uno strumento di “mobilitazione individualistica”, come rilevato dall’urbanista Bernardo Secchi riprendendo il sociologo Alessandro Pizzorno, ovvero una strategia che utilizzava le disuguaglianze stesse come incentivo all’adesione al sistema, promettendo a ciascuno la possibilità di diventare proprietario e di beneficiare della valorizzazione del proprio immobile. Gli anni ‘50 si chiusero con un mutamento di prospettiva: l’attenzione si spostò dalla povertà alla condizione operaia e i poveri stessi cessarono di essere visti come un gruppo il cui consenso valesse la pena conquistare. Le politiche abitative continuarono a essere rivolte a chi era già in condizione di accedere alla proprietà, sostenendo i consumi domestici e contribuendo al miracolo economico. Ci si affidò, anche nelle intenzioni delle sinistre, alla teoria quantitativa e del filtering, secondo cui costruire case per i ceti medi avrebbe innescato una catena di mobilità abitativa che, per tracimazione, avrebbe risolto indirettamente anche i problemi dei ceti più bassi. In realtà questa teoria si rivelò fallace, generando invece eccedenze in alcuni segmenti di mercato e acuendo il problema per i più poveri, oltre a gettare le basi per lo “spreco edilizio” e l’eccessivo consumo di suolo. Il risultato finale di questa lunga e coerente traiettoria storica è un paese con una quota di proprietari divenuta maggioritaria grazie agli incentivi pubblici ma dove, una volta venute meno quelle politiche, è cresciuta una vasta platea di esclusi che non può accedere alla proprietà e non dispone di un parco abitativo pubblico in locazione sufficiente e accessibile.
2. La lotta alla rendita fondiaria
La portata della trasformazione del territorio italiano nel corso del Novecento è sconvolgente. Fino all’epoca fascista era stato costruito meno di un decimo del volume edilizio esistente oggi. Questo dato quantifica lo stravolgimento di un assetto secolare, innescato dall’affermazione del capitalismo industriale e dal concomitante processo di inurbamento che ha determinato la crescita tumultuosa di alcune città e lo spopolamento di intere aree rurali. Per Sarah Gainsforth le fasi di questa metamorfosi sono distinte. Fino al 1960 le trasformazioni riguardarono principalmente l’espansione delle aree agricole a scapito di quelle naturali mentre le città mantenevano una struttura compatta, con un tasso di consumo di suolo in linea con l’aumento della popolazione, preservando una relazione diretta tra numero di abitanti e spazio edificato. È a partire dal secondo dopoguerra, e ancor più dalla fine degli anni ‘70 quando le superfici urbanizzate triplicano, che il Paese conosce un vorticoso processo di edificazione, alimentato dall’incremento demografico, dalle migrazioni interne verso il triangolo industriale del Nord-Ovest, dalla crescita dei redditi e da una massiccia campagna di infrastrutturazione. L’urbanizzazione della campagna nel dopoguerra è l’esito diretto dei movimenti migratori verso i centri urbani. L’aumento della domanda di abitazioni, non soddisfatta dal mercato immobiliare dei centri storici, si riversò sulle aree limitrofe, innescando l’espansione delle periferie. In queste zone sorsero i grandi quartieri di edilizia pubblica sovvenzionata ma si sviluppò anche un fenomeno di auto-costruzione da parte dei ceti popolari che edificavano case in lotti agricoli al di fuori dei piani ufficiali, dando vita a insediamenti a bassa densità. Le città, spesso sprovviste di adeguati strumenti di pianificazione, videro persino l’intervento pubblico facilitare, in molti casi, la speculazione fondiaria e la valorizzazione immobiliare, alimentando un’espansione disordinata e avida di suolo. Alla base di questa diffusione abitativa extraurbana contribuirono anche altri fattori come il miglioramento del reddito delle famiglie contadine, i cui figli trovavano occupazione nell’industria, e l’aspirazione a condizioni abitative migliori da parte di famiglie urbane con un potere d’acquisto troppo limitato per il mercato della città compatta. Come sintetizza Francesco Indovina, il circuito virtuoso e al tempo stesso distorto dello sviluppo industriale, dell’immigrazione dalle campagne, della crescita della densità, dell’aumento dei valori immobiliari e della “disponibilità della campagna a farsi urbanizzare” costituirono gli ingredienti di una trasformazione che non si è più arrestata. Questa disponibilità era la diretta conseguenza dell’abbandono di quote rilevanti di attività agricole, a sua volta guidato dalla maggiore remuneratività assicurata dal suolo cambiandone irregolarmente la destinazione d’uso da agricola a edificabile, un meccanismo osservabile sia intorno alle città che nelle aree a forte attrattiva turistica lungo le coste. Cuore pulsante di queste dinamiche di trasformazione è il meccanismo della rendita fondiaria, divenuta assolutamente centrale a partire dal secondo dopoguerra nel dettare le scelte insediative di famiglie e imprese. La rendita, una delle tre forme di reddito insieme ai salari (lavoro) e agli utili (impresa), è un guadagno derivato dal possesso di beni e, a differenza del salario, non generato da lavoro produttivo, tanto da essere stata a lungo considerata una componente parassitaria del reddito. Il suo ruolo è cruciale nel determinare il costo della casa, un costo influenzato da due fattori: il costo di costruzione e il valore del suolo. Il valore del suolo dipende dalla posizione, dalla centralità o perifericità dell’oggetto edilizio e per questo la rendita è definita un valore posizionale. Essa cresce grazie alla domanda di città, attratte dai vantaggi delle economie di agglomerazione, la concentrazione di popolazione e capitali che garantisce accessibilità infrastrutturale, attira imprese efficienti, capitale umano, favorisce l’innovazione e presenta livelli di produttività maggiori. Se, come ricorda Indovina, l’agglomerazione è stata anche un processo forzato di immigrazione di massa spinta dalla miseria, è pur vero che la forza di attrazione della città capitalistica disegna una geografia dei valori dei suoli che decresce all’aumentare della distanza dal centro. In una prima fase di espansione l’aumento della rendita (detta marginale) era generato dall’edificazione di terreni agricoli che aumentava il valore anche delle terre confinanti. In una seconda fase l’aumento si realizza attraverso la riqualificazione del patrimonio esistente, soprattutto nei centri storici, incidendo sulla cosiddetta rendita differenziale.
La rendita è dunque un fatto sociale, l’esito della concentrazione delle attività umane nello spazio. In un sistema capitalistico il valore del suolo è plasmato anche dai diritti d’uso stabiliti dai piani regolatori che decidono dove collocare abitazioni, servizi o aree produttive. La scelta pubblica di urbanizzare un’area agricola ne accresce enormemente il valore, creando un potenziale profitto speculativo. Gli stessi vantaggi posizionali che aumentano il valore delle case sono spesso creati da investimenti pubblici in infrastrutture e servizi. Per questo l’urbanista Roberto Camagni definisce la rendita fondiaria “un reddito non guadagnato” che scaturisce da decisioni sia pubbliche che private, rendendo logico che le città cerchino di tassare questi plusvalori per finanziare beni pubblici e redistribuire la ricchezza generata socialmente. Nel capitalismo l’incremento della rendita diventa però uno scopo a sé stante, di tipo speculativo, slegato dall’uso effettivo del suolo. La casa, allora, si trasforma da bene d’uso in strumento di accumulazione, divenendo un moltiplicatore di disuguaglianze: la rendita attrae chi può investire per trarre profitto dall’aumento di valore e respinge chi non può sostenere i costi crescenti che essa impone. Gli impatti di queste dinamiche sono devastanti e generano profondi divari territoriali e sociali. Abbiamo i processi di gentrificazione nei centri urbani, dove la popolazione più povera viene sostituita da una più abbiente oppure i processi di sprawl (diffusione insediativa a bassa densità) con l’esodo di popolazione giovane e meno facoltosa verso le periferie e i centri minori. Anche la localizzazione dei nuovi quartieri di edilizia pubblica, come quelli dell’Ina-Casa, fuori dai tessuti urbani consolidati, fu spesso dettata dal minore costo dei terreni. L’ironia è che l’urbanizzazione e la creazione di servizi in queste aree periferiche finivano per far lievitare i valori dei terreni circostanti, innescando meccanismi speculativi a vantaggio dei proprietari privati. Proprio per governare questa rendita l’Italia si era dotata, ancora in piena guerra nel 1942, di una legge urbanistica moderna e all’avanguardia, una sorprendente eredità positiva del regime fascista. La legge n. 1150 prevedeva piani regolatori generali obbligatori e, soprattutto, all’articolo 18, dava ai comuni la facoltà di espropriare i terreni destinati all’espansione urbana. L’indennizzo, regolato dall’articolo 38, non avrebbe dovuto risentire degli aumenti di valore derivanti dal piano, permettendo così al comune di riappropriarsi della plusvalenza una volta urbanizzata l’area e rivenduta ai costruttori. Un altro articolo, il 23, istituiva i comparti edificatori per uniformare i vantaggi tra i proprietari. Questa legge fu applicata in maniera parziale e inefficace fin dall’immediato dopoguerra, con piani di ricostruzione in deroga che consolidarono gli interessi privati. Il trasferimento della materia urbanistica alle Regioni, previsto dalla Costituzione del 1948 ma attuato solo nel 1970, creò un ulteriore vuoto normativo in cui a dettare legge fu l’incremento speculativo del valore del suolo. È in questo clima, con l’Italia in balia di una speculazione senza freni (simbolizzata dal film Le mani sulla città di Rosi), che il ministro dei Lavori pubblici Fiorentino Sullo elaborò all’inizio degli anni ‘60 una proposta di riforma radicale. La novità cruciale della sua proposta era l’esproprio “preventivo e generalizzato” di tutte le aree inedificate prima che il piano regolatore ne stabilisse la destinazione. In questo modo l’indennizzo ai proprietari sarebbe stato calcolato sul valore agricolo del terreno e non sul suo potenziale valore edificatorio, eliminando alla radice l’interesse privato dalle scelte di pianificazione. Il comune, dopo aver urbanizzato le aree, ne avrebbe ceduto ai privati non la proprietà ma il diritto di superficie per la costruzione di case, epurando così completamente il costo della rendita dal prezzo finale dell’abitazione. Questo meccanismo, già delineato in nuce nell’articolo 18 della legge del ’42 e praticato in alcune operazioni del regime, non era una novità assoluta ma Sullo ne faceva la regola generale. Come spiega Walter Tocci, questo protagonismo pubblico avrebbe avuto effetti positivi anche sul mercato: togliendo il monopolio del suolo a un singolo operatore il comune avrebbe potuto favorire una concorrenza tra imprese basata sulla qualità della trasformazione e non sul possesso speculativo del terreno. Questa proposta razionale e lungimirante scatenò una reazione feroce da parte del “blocco edilizio”, una coalizione eterogenea ma potentissima che univa, come scrisse Valentino Parlato, “residui di nobiltà fondiaria e gruppi finanziari, imprenditori spericolati e colonnelli in pensione proprietari di qualche appartamento, grandi professionisti e impiegati statali”. Questo blocco, tenuto insieme dall’ideologia della proprietà della casa, scatenò una campagna di disinformazione che accusava Sullo di voler abolire il diritto di proprietà. La campagna, basata sulla “mobilitazione individualista” di un ceto medio che, pur faticando ad accedere alla casa, aspirava alla soluzione proprietaria, ebbe un successo tale che lo stesso partito di Sullo, la Democrazia Cristiana, ritirò l’appoggio alla riforma nell’aprile del 1963, affondandola prima che potesse arrivare in Parlamento.
Il fallimento della riforma Sullo segnò una svolta storica. Il dibattito urbanistico successivo, pur animato dalle dichiarazioni del primo governo Moro che insisteva sulla necessità di una legge per avocare alla collettività le plusvalenze, compì notevoli passi indietro. Il clima politico era così torbido che, secondo alcune ricostruzioni, il terrore delle riforme, in particolare di quella urbanistica, alimentò persino il tentativo di golpe del generale De Lorenzo. Le proposte successive, come quella del ministro Mancini, svuotarono il principio dell’esproprio generalizzato, trasformandolo in un “esonero generalizzato”. Un colpo mortale giunse nel 1965 dalla Corte Costituzionale che con una sentenza impose che l’indennità di esproprio costituisse un “serio ristoro al danno patrimoniale”, orientando le compensazioni a favore dei privati. Anche la legge n. 167 del 1962, sempre ideata da Sullo per l’edilizia economica e popolare (Piani Peep), che obbligava i comuni a espropriare aree da cedere in diritto di superficie fu nel tempo snaturata da modifiche successive che consentirono di trasformare il diritto di superficie in piena proprietà, facendo così rientrare il suolo pubblico nel mercato speculativo. Paradossalmente la legge 167, che nell’immaginario collettivo è associata ai grandi e spesso problematici quartieri popolari come il Corviale a Roma o le Vele a Napoli, ebbe anche un impatto ambiguo e poco studiato sui ceti medi. La vaghezza della definizione di “edilizia economica” permise a comuni come Bologna di utilizzare lo strumento in modo strategico, localizzando i Peep in aree centrali e di pregio e coinvolgendo cooperative e privati per competere direttamente con il mercato. Questa strategia, encomiabile per la sua capacità di elevare la qualità generale dello sviluppo urbano e di controllare la rendita, ebbe però l’effetto collaterale di rispondere principalmente alla domanda del ceto medio, come notò l’urbanista Pier Luigi Cervellati, osservando che con i Peep era avvenuta una redistribuzione del reddito all’interno della stessa classe sociale mentre la popolazione più povera rimaneva spesso esclusa. Questo esempio conclude emblematicamente la narrazione di come in Italia, nonostante la consapevolezza del problema e la disponibilità di strumenti tecnici e giuridici sofisticati, la riforma urbanistica sia stata sistematicamente sconfitta da un blocco sociale e politico trasversale, lasciando che la rendita fondiaria continuasse a essere la forza motrice, e spesso distorta, della trasformazione del territorio.
3. Il problema dell’abusivismo
L’accesso alla proprietà della casa in Italia è stato storicamente caratterizzato da un canale parallelo e pervasivo: l’abusivismo edilizio. La reale portata di questo fenomeno sfugge a una quantificazione precisa ma la sua entità è sicuramente impressionante. L’urbanista Francesco Chiodelli fornisce una stima che da sola illumina la vastità del problema. In occasione dei tre condoni edilizi approvati nel 1985, 1994 e 2003 sono state presentate ben 15 milioni di domande di regolarizzazione. Questa cifra, già di per sé enorme, rappresenta molto probabilmente solo una parte degli illeciti commessi, in un fenomeno che, nonostante i tentativi di regolarizzazione, non accenna a fermarsi. Per comprendere le radici di una tale diffusione è necessario inquadrare la tolleranza verso la speculazione immobiliare e l’abusivismo all’interno del più ampio contesto della “mobilitazione individualista”, un moto di iniziativa privata che ha cercato di colmare le lacune dello Stato, specialmente nel periodo compreso tra gli anni ‘60 e la metà degli ‘80. In questa fase, come sottolineano i ricercatori Federico Zanfi, Francesco Curci ed Enrico Formato, l’abusivismo fu una vera e propria strategia implicita per rispondere a esigenze abitative, lavorative e ricreative che i meccanismi istituzionali e le politiche pubbliche dell’epoca non riuscivano a soddisfare. Nel Mezzogiorno questa spinta si tradusse in un’ondata massiccia di edilizia residenziale non autorizzata che segnò in modo indelebile il paesaggio costiero e interno a partire già dagli anni ‘60. Il percorso che ha portato a questa situazione fu segnato da una battaglia politica persa in partenza, ovvero il già citato fallimento della proposta di riforma di Fiorentino Sullo che mirava a portare le trasformazioni urbane sotto un saldo controllo pubblico e nell’interesse generale. Con l’affossamento di questa visione la speculazione edilizia divenne praticamente inarrestabile, procedendo lungo un binario che alimentava interessi trasversali, in cui non di rado erano coinvolte le stesse amministrazioni comunali. Mentre negli anni ‘50 la speculazione era ancora condannata in modo trasversale come un’attività immorale e improduttiva, nel decennio successivo, soprattutto dopo la campagna stampa contro Sullo, queste voci critiche si affievolirono. Il territorio italiano fu così sottoposto a una lottizzazione incessante, con la sistematica conversione di terreni agricoli in aree edificabili. Questo avvenne nonostante la legge urbanistica del 1942 prescrivesse l’approvazione di piani particolareggiati comunali prima di qualsiasi lottizzazione, imponendo dunque una pianificazione territoriale che, nei fatti, fu sistematicamente disattesa. Nei maggiori centri urbani l’espansione assunse forme particolarmente dense e aggressive, talvolta attraverso la falsificazione di piani regolatori preesistenti, come nel caso di Napoli, o grazie all’uso spregiudicato di strumenti come i Piani di ricostruzione e le Lottizzazioni convenzionate, come ad Agrigento. Le modalità della speculazione furono dunque varie e profondamente intrecciate con le stesse forme di pianificazione, in un contesto in cui l’autonomia comunale era spesso sacrificata a interessi privati, con casi di esplicita connivenza tra amministratori e speculatori. Le conseguenze di questa cementificazione selvaggia e senza regole non tardarono a manifestarsi in tutta la loro drammaticità. Nel 1966 la frana di Agrigento, che causò il crollo di una parte della città per fortuna senza vittime ma con migliaia di sfollati, mostrò gli effetti catastrofici del sovraccarico edilizio. Nello stesso anno le alluvioni di Firenze e Venezia contribuirono a creare una maggiore consapevolezza della necessità di una gestione del territorio più oculata. Questi eventi portarono all’istituzione della Commissione De Marchi e, nel 1967, all’approvazione della cosiddetta legge Ponte. Questa legge rappresentò un primo tentativo di porre un argine al caos, obbligando i comuni ad approvare piani regolatori e vietando le lottizzazioni in quelli che ne erano sprovvisti. Inoltre impose ai proprietari privati di farsi carico delle spese per l’urbanizzazione primaria (strade, fognature…) e di parte di quelle per l’urbanizzazione secondaria (scuole, parchi). Poco dopo uno studio promosso dal ministero dei Lavori pubblici rivelò che “le lottizzazioni edilizie in deroga alla pianificazione comunale non sono state l’eccezione, ma la regola”, un fenomeno che interessava un’area di comuni la cui estensione rappresentava addirittura un terzo del territorio nazionale. Uno degli aspetti più innovativi della legge Ponte fu l’introduzione, con un ritardo di decenni rispetto ad altri paesi europei, degli standard urbanistici. Attraverso un decreto attuativo del 1968 fu stabilito per la prima volta che a ogni cittadino spettava il diritto a 18 metri quadrati di spazi pubblici destinati a servizi e attrezzature collettive: verde pubblico, scuole, impianti sportivi, presidi sanitari e culturali. Questo non era un mero tecnicismo ma un principio profondamente rivoluzionario che stabiliva una relazione diretta tra territorio e diritti di cittadinanza. La qualità dell’abitare, si affermava, non dipende solo dalla casa in sé ma dal contesto urbano in cui essa è inserita. Questo riconoscimento del carattere sociale dell’abitare, il quale supera la visione puramente privatistica della casa, deve molto anche al contributo delle donne riunite nell’Unione donne italiane (Udi) che rivendicarono con forza la programmazione di servizi collettivi di pubblica utilità, come gli asili nido. Gli standard urbanistici divennero così il baluardo del diritto alla città, garantendo l’accesso a quella dimensione collettiva e a quei servizi essenziali che trasformano un agglomerato di case in una comunità vivibile. Nonostante queste importanti innovazioni legislative la loro efficacia nel contrastare l’abusivismo fu limitata. L’approvazione della legge Ponte fu accompagnata da un anno di moratoria del divieto di edificazione, con l’intento di non scoraggiare l’attività edilizia. Il risultato fu l’esatto opposto: in quell’anno furono rilasciate licenze per otto milioni di vani residenziali, quasi il triplo della media annuale, scatenando un effetto-annuncio che avrebbe caratterizzato anche i futuri condoni, alimentando il fenomeno che si intendeva regolare. A peggiorare le cose intervenne una sentenza della Corte Costituzionale (n. 55 del 1968) di gravità fondamentale che dichiarò illegittimo il vincolo di aree private a fini pubblici senza un congruo indennizzo. La Corte stabilì di fatto che il diritto di edificare è connaturato al diritto di proprietà del suolo, capovolgendo la logica della pianificazione pubblica. Da quel momento se un piano regolatore impediva a un privato di costruire su un’area il pubblico avrebbe dovuto risarcirlo. Questa sentenza fece lievitare i costi degli espropri e rese ingestibili i contenziosi, segnando una sconfitta per il principio, sostenuto da Sullo, della separazione tra diritto di proprietà e diritto di costruire, un principio che in Inghilterra era legge dal 1947. Un’altra sentenza (n. 56 del 1968) ammise invece i vincoli a tempo indeterminato per la tutela dei beni paesaggistici, un concetto che la legge Ponte aveva introdotto per la prima volta nei piani regolatori, recependo le indicazioni della Carta di Gubbio. Bisognerà attendere la Legge Galasso del 1985 per una tutela organica di questi beni ma intanto si affermava l’idea che il paesaggio non fosse un insieme di singoli beni ma un “contesto” territoriale esteso e coerente, una “cultura del contesto” che, come si vedrà, il capitalismo finanziario avrebbe successivamente cancellato.
La produzione legislativa degli anni ‘60 non riuscì quindi ad arginare l’abusivismo che nel Mezzogiorno mutò forma diventando diffuso e a bassa densità, favorito involontariamente dalle nuove infrastrutture. Negli anni ‘70 la posta in gioco divenne influenzare i piani regolatori per valorizzare specifiche aree di espansione, una partita “grossa” in cui comandavano i detentori di capitali e un cartello tra politica e proprietari fondiari, utile anche per riciclare denaro sporco, affiancata da tante “piccole” partite lasciate giocare a una moltitudine di elettori in nome della “casa di necessità”. Proprio qui si delinea l’evoluzione del fenomeno, tradizionalmente distinto in due fasi: un primo abusivismo di necessità, legato all’auto-costruzione di baracche e case da parte di immigrati che non trovavano alloggio (a Roma si stima che il 37% della città sia di origine abusiva) e un successivo abusivismo di convenienza o speculativo. Come sottolinea Chiodelli, il primo si è esaurito in pochi decenni mentre il secondo, che mira a eludere oneri e imposte o ad aumentare i margini di profitto delle imprese (ad esempio costruendo abusivamente qualche piano in più), è oggi la forma più diffusa. Persiste una pericolosa tendenza a un “riduzionismo” che appiattisce tutta la complessità del fenomeno sull’abusivismo di necessità, spesso per ignoranza o, deliberatamente, per estrarre consenso politico dal vasto bacino elettorale degli abitanti dell’Italia abusiva. Nel Mezzogiorno l’abusivismo di convenienza ha modificato interi tratti di paesaggio costiero con la costruzione di seconde case per i ceti medi, dando vita a città balneari “intermittenti”, popolose d’estate e deserte d’inverno, aggravando la situazione delle casse dei comuni per il mancato gettito degli oneri e per l’aumentato carico urbanistico. La lottizzazione come strumento per estrarre valore dalla terra non fu appannaggio solo della piccola borghesia ma fu ampiamente utilizzata anche dai ceti benestanti. L’esempio delle ville progettate da archistar come Luigi Moretti a Santa Marinella per clienti facoltosi o di Dante Bini in Sardegna illustra un “abusivismo elitario”.
4. Gli affitti
Già all’inizio degli anni ‘60 l’aumento del costo della vita nelle città, trainato dall’incremento della rendita dovuto alla densificazione e a meccanismi speculativi, si traduce in un’impennata dei prezzi delle case. Nel 1963 gli affitti aumentano del 25%, rendendo gli alloggi inaccessibili per la maggior parte delle famiglie. Bernardo Secchi notava come la domanda di case fosse forte da parte dei risparmiatori-investitori ma debole da parte degli utilizzatori finali, con molti alloggi acquistati che restavano sfitti. Questo clima diede immediatamente vita a proteste e mobilitazioni dei lavoratori, con scioperi unitari a Milano e mobilitazioni delle Consulte popolari a Roma. I movimenti per il diritto alla casa organizzarono occupazioni di interi edifici e azioni di autoriduzione dei canoni, opponendosi allo sblocco dei fitti annunciato dal governo e chiedendo una norma permanente come l’equo canone. L’Unità, in un articolo del 1° ottobre 1963, riporta di un grido di protesta “Fermate i fitti, case per tutti” che risuonava per le strade in un dibattito sulla riforma urbanistica che era ancora materia viva e discussa dalla gente comune. Il quadro normativo dell’epoca era caratterizzato da un susseguirsi di provvedimenti di blocco degli affitti, parziali liberalizzazioni e proroghe, tra il 1945 e il 1978 si contano ben quarantaquattro proroghe che avevano creato una stratificazione di canoni fissati in epoche diverse, con aumenti che avvenivano a scatti in occasione del cambio inquilino. Alla fine degli anni ‘60 le proteste per la casa si saldarono con quelle per il lavoro, come nel caso dello sciopero generale alla Fiat contro la proposta di costruire baracche per i nuovi assunti meridionali. Il culmine della mobilitazione fu lo sciopero nazionale per la casa del 19 novembre 1969, indetto da Cgil, Cisl e Uil, una delle più riuscite manifestazioni popolari dell’Italia contemporanea. Grazie a questa forte conflittualità sociale nel 1971 il governo Colombo approvò la Riforma per la casa (legge n. 865), uno snodo cruciale che delegava le competenze alle regioni e, soprattutto, sanciva la separazione tra proprietà fondiaria e attività immobiliare, assegnando al piano regolatore il primato sui diritti dei proprietari. La legge prevedeva l’esproprio di aree per i piani di zona e stabiliva indennizzi basati sul prezzo agricolo del terreno, epurando così la rendita e realizzando l’obiettivo dell’esproprio generalizzato. Questo impianto riformista fu di breve durata. Già un anno dopo un nuovo governo di centro-destra annunciò la necessità di riformare la legge e in uno scenario di crisi economica e austerità il conflitto sociale riesplose tragicamente, come nell’episodio dell’uccisione del militante Fabrizio Ceruso a San Basilio nel 1974. Negli anni seguenti furono approvate altre due leggi fondamentali: la legge Bucalossi (n. 10 del 1977), che istituiva la concessione edilizia onerosa affermando il principio che il diritto di edificare fosse una prerogativa pubblica, e la legge sull’equo canone (1978) che fissava i canoni di locazione. La legge Bucalossi fu sostanzialmente ribaltata dalla Corte Costituzionale nel 1980 che sancì la coincidenza del diritto di costruzione con il diritto di proprietà. Anche l’equo canone, criticato per aver ridotto l’offerta di case in affitto, fallì i suoi obiettivi, principalmente a causa dell’assenza di una politica edilizia pubblica complessiva che potenziasse l’offerta e gestisse il disagio abitativo. A questo doveva sopperire la legge n. 457 del 1978, il piano decennale, ma ritardi, inadempienze e l’aumento dei costi ne vanificarono le intenzioni. Venne così a mancare un assetto unitario per le politiche della casa, proprio mentre il clima politico volgeva verso il neoliberismo.
In questo arco di tempo il valore del suolo divenne il vero motore della crescita dei prezzi delle case che tra il 1970 e il 2007 quasi triplicarono, un aumento per lo più dovuto al raddoppio del costo dei terreni tra il 1970 e il 1980 e a un’ulteriore impennata di 2,5 volte tra il 1980 e il 2007. Parallelamente si assistette a un progressivo scollamento tra produzione edilizia e esigenze abitative, testimoniato dal numero crescente di case vuote: dal 12% del totale (2 milioni) nel 1971 si passò al 27,2% (9,6 milioni) nel 2021. Secondo l’Agenzia delle Entrate in Italia le case a disposizione (non utilizzate come abitazione principale) sono il 18% del totale, superando quelle in locazione (11%), un dato che segnala l’inefficienza strutturale del mercato. Contestualmente la crescita delle città per inurbamento si arrestò, lasciando il posto a un nuovo modello di città diffusa e metropolizzazione caratterizzato dalla dispersione urbana e da una mobilità crescente. Le città centrali iniziarono a perdere popolazione a favore dei comuni minori dell’hinterland. Questo nuovo assetto insediativo, reso possibile da nuove infrastrutture, innescò un processo di polarizzazione sociale ed economica all’interno delle città consolidate, dove rimasero i due estremi: i ricchi che potevano sopportare l’alta rendita e i poveri mentre i ceti medi furono progressivamente espulsi. Le città stesse avviarono un processo di ricentralizzazione per attrarre attività ad alto valore e lavoratori altamente qualificati. Oggi la valorizzazione immobiliare e il peso della rendita hanno raggiunto livelli tali da ostacolare l’attrazione stessa di quella forza lavoro qualificata e degli studenti necessari a sostenere l’economia delle città, come nel caso paradigmatico di Milano, dove i costi delle case assorbono gran parte dei salari. La questione abitativa è così riemersa con forza nel dibattito pubblico, grazie alle proteste degli studenti. Tuttavia le soluzioni proposte sono spesso settoriali e corporative, rivolte solo a specifiche categorie di lavoratori necessari all’economia urbana, tralasciando i poveri, i lavoratori essenziali e ampi strati dei ceti medi. Soprattutto, queste proposte non affrontano il cuore del problema: la formazione e la cattura della rendita che dagli anni ‘80 ha conosciuto una nuova e intensa fase di valorizzazione con l’avvento delle politiche neoliberiste e la finanziarizzazione della casa.
Nell’autunno del 1972 Gianni Agnelli, in un’intervista all’Espresso, individuava nel patologico aumento dell’area della rendita in Italia il male dell’economia, un fenomeno che, a suo avviso, soffocava il profitto d’impresa poiché i salari non erano comprimibili in una società democratica. Agnelli prospettava la necessità di una svolta netta, evitando lo scontro frontale sui salari e agendo invece contro sprechi e inefficienze. Questa presa di posizione, come ricostruito da Salzano, creò scompiglio in Confindustria ma fu sostenuta dagli Agnelli in un’azione che preludeva alla leadership di Gianni Agnelli nell’organizzazione nel 1974. Un giornale vicino agli industriali commentò che per salvare il profitto occorreva “gettare in mare” le rendite parassitarie, citando uno studio del professor Bastianini che, rivalutato al 1972, calcolava il costo della rendita urbana in 800 miliardi di lire contro un valore aggiunto del settore abitazioni di 3.000 miliardi. Il testo affronta così il classico tema della ripartizione del reddito tra salario, profitto e rendita, dove l’aumento di quest’ultima comprime le altre due componenti, un meccanismo ben compreso, scrive Salzano, non solo dai lavoratori ma anche dai protagonisti del capitalismo avanzato degli anni ‘60 e ‘70 che scesero in campo a favore di una riforma urbanistica per ridurre il peso della rendita immobiliare. Queste “iniziative coraggiose” non ci furono e, anzi, di lì a pochi anni il mondo imprenditoriale cambiò radicalmente rotta, abbandonando la produzione industriale per utilizzare la proprietà immobiliare e il territorio stesso come strumento di arricchimento, facendo scomparire l’atteggiamento critico verso la rendita urbana. La valorizzazione immobiliare divenne il perno della svolta economica successiva alla crisi del modello fordista. La riorganizzazione globale della produzione minò il regime di accumulazione fordista, con alcune aree, come i distretti della Terza Italia, che resistettero grazie alla specializzazione flessibile mentre altre si convertirono a economie basate sui servizi. La trasformazione dello spazio urbano fu sia conseguenza di questa ristrutturazione globale che risultato delle scelte politiche nazionali e locali di risposta alla crisi. In Italia, a differenza di alcune aree del Nord Europa, la gestione della crisi produttiva portò all’arretramento della regolazione pubblica del territorio, sostituita dalla forza irregolare della rendita, che, come scrive Tocci, acquisì un “enorme potere regolativo”. La deregolamentazione urbanistica fu così intenzionalmente pianificata, caratterizzando la modernizzazione italiana come ambigua e bloccata dal primato della rendita. Questo primato soffocò il notevole sviluppo tecnologico e il primato produttivo internazionale che l’Italia aveva raggiunto nel secondo dopoguerra in settori come l’informatica e la chimica, un’epoca di rivoluzione intellettuale spenta già entro il 1964, quando, come scrive Tocci, “il ricatto del golpe mise fine anche alle discussioni sulla riforma urbanistica”. Molti protagonisti di quell’epoca, come Adriano Olivetti e Enrico Mattei, scomparvero, le grandi aziende statali furono smantellate e si salvò solo il design, rifugiandosi nei distretti. La speculazione immobiliare vinse sulla ricerca e sullo sviluppo, portando l’Italia in uno stato di paleocapitalismo senza modernizzazione, dice Sarah Gainsforth. I dati mostrano chiaramente questa redistribuzione. La quota delle rendite del settore abitativo sul Pil passò da meno del 20% nel 1975 al 37% nel 2014 mentre i salari declinarono e i profitti, dopo una ripresa, diminuirono costantemente, rivelando un processo di “ampia redistribuzione del reddito da capitale dai profitti alle rendite da abitazioni”. Le imprese abbandonarono così l’interesse per i profitti industriali per inseguire rendite immobiliari e finanziarie. Questo cambiamento fu sancito da una svolta neoliberale nelle politiche abitative che a livello italiano ed europeo passarono da una regolazione fordista (casa come diritto) a un assetto neoliberale (casa come merce e patrimonio), dominato dalla logica dei mercati finanziari. Il neoliberismo non rifiuta lo Stato ma ne cambia la natura dell’intervento: da scopo sociale e redistributivo a sostegno economico del profitto e della rendita. Nel campo abitativo questo si tradusse nel passaggio da interventi sull’offerta (edilizia residenziale pubblica) a interventi sulla domanda (sussidi per l’affitto). Il modo di produzione del valore mutò radicalmente visto che il capitale iniziò ad essere impiegato per estrarre valore in un’ottica di breve periodo, come spiega il sociologo Luciano Gallino distinguendo tra la produzione di valore (costruire una casa, creare un posto di lavoro) e l’estrazione di valore (aumentare artificialmente il prezzo delle case). La finanziarizzazione coinvolse anche i servizi fondamentali come la casa che perse il suo valore d’uso per diventare un asset finanziario. In Italia il terreno per la svolta neoliberale venne preparato dalla deregolamentazione del regime dei suoli, in particolare con la sentenza della Corte Costituzionale n. 5 del 1980, che, come spiega Vezio De Lucia, dichiarò illegittimo espropriare i terreni al valore agricolo, stabilendo che gli indennizzi dovessero tener conto della capacità edificatoria, ribaltando il principio della separazione tra proprietà e diritto di edificare. Questo bloccò l’iniziativa pubblica e favorì quella privata che però, a differenza del passato, non rispose più al fabbisogno abitativo generale, rendendo la casa inaccessibile ai più. Il modello di riferimento per questa svolta furono le politiche di Stati Uniti e Inghilterra. Negli USA, l’Housing and Community Act del 1974 pose fine ai finanziamenti per gli alloggi pubblici e introdusse sussidi per l’affitto privato (Section 8), giustificandoli con la “mixité sociale” e la libertà di scelta ma nella pratica riproducendo la concentrazione della povertà e fallendo, come a Roma con il ‘buono casa’, nell’aiutare i ceti più poveri. In Inghilterra, dove il sistema dell’edilizia pubblica era stato universale, l’elezione di Margaret Thatcher nel 1979 portò a una drastica inversione con il programma “Right to Buy” che promosse la vendita massiccia degli alloggi pubblici. L’analisi dei dati, però, mostra che la spesa pubblica non diminuì ma fu semplicemente dirottata dai sussidi per la costruzione pubblica a quelli per l’affitto privato, alimentando la rendita immobiliare. L’obiettivo ultimo, come si evince, era la rottura della lotta di classe e dell’identificazione dei lavoratori con il sistema pubblico, promuovendo una “mobilitazione proprietaria” individualista. Garantire l’accesso alla proprietà servì a rendere accettabile per milioni di persone la svolta neoliberista che li stava impoverendo. In Italia, sebbene la proprietà della casa fosse già storicamente diffusa, cambiò la mentalità: la casa divenne un investimento, la competizione spazzò via la solidarietà e la speculazione fu interiorizzata come pratica normale.
La svolta neoliberista in Italia, giunta con un ritardo di circa vent’anni rispetto all’esperienza tracciata in Stati Uniti e Gran Bretagna, si è manifestata in modo meno plateale ma profondamente incisivo attraverso una progressiva e sistematica privatizzazione di beni e servizi fondamentali. Un momento simbolo di questa transizione fu il 1998, un anno cruciale che segnò da un lato la fine dell’intervento diretto dello Stato nella produzione di edilizia residenziale pubblica e dall’altro la piena liberalizzazione del mercato privato degli affitti con l’approvazione della legge n. 431, la quale abolì definitivamente l’equo canone. Questa normativa, che ancora oggi regola il settore, introdusse due principali tipologie contrattuali: il canone libero e il canone concordato, quest’ultimo inferiore a quello di mercato in cambio di agevolazioni fiscali per i proprietari. A distanza di trent’anni questa legge è considerata drammaticamente obsoleta e inadeguata a regolare uno scenario abitativo radicalmente mutato, caratterizzato dal fenomeno degli affitti brevi. La leva fiscale si è rivelata del tutto insufficiente a stimolare un aumento dell’offerta di case in affitto e la tipologia contrattuale che sta conoscendo la maggiore diffusione è proprio quella che la legge introduceva come eccezione: quella transitoria. Lo strumento concepito per compensare la fine dell’equo canone, il contributo per l’affitto, ha fallito i suoi obiettivi e attualmente non è neanche finanziato. L’erogazione di questo sussidio, vincolata a stanziamenti statali che si sono progressivamente ridotti fino ad azzerarsi proprio durante le crisi economiche più acute, non copre mai il reale fabbisogno. I tempi di erogazione sono lunghissimi a causa di procedure burocratiche farraginose che coinvolgono i comuni, con il risultato paradossale che una misura urgente, destinata a prevenire la morosità, viene erogata con oltre un anno di ritardo, a differenza di quanto avviene in paesi come Germania e Francia, dove il contributo copre tutte le richieste e viene corrisposto rapidamente per via telematica. Le conseguenze di questa riforma sono state un sensibile incremento dei canoni, particolarmente marcato nelle grandi città, e una drastica riduzione dell’offerta di case in affitto a prezzi accessibili sul mercato privato.
Contestualmente anche l’offerta pubblica di case subì un colpo mortale. Sempre nel 1998 l’abolizione del fondo Gescal sancì la fine del ruolo dello Stato come produttore diretto di edilizia residenziale. Il settore dell’edilizia residenziale pubblica (Erp) è stato di fatto abbandonato a se stesso, con un trasferimento delle competenze alle Regioni e una trasformazione degli enti gestori in aziende pubbliche economiche, soggette alla logica del pareggio di bilancio pur conservando una finalità sociale. È proprio da questa contraddizione fondamentale, cioè la gestione di un bene sociale con criteri di mercato, che scaturiscono la maggior parte delle difficoltà attuali. Questa “doppia natura” genera una gestione schizofrenica con gli enti che sono spinti all’efficientismo mentre non operano in un vero mercato, poiché canoni sociali (estremamente bassi e insufficienti a coprire i costi, rappresentando oggi meno della metà dei ricavi medi) e criteri di assegnazione sono decisi da politiche regionali e comunali. Gli squilibri economici degli enti sono quindi strutturali, aggravati per anni da un trattamento fiscale che drenava gli eventuali utili e da situazioni paradossali, come quella dell’Ater del Lazio, finita in disavanzo per centinaia di milioni di euro per mancati pagamenti di imposte comunali. Per far fronte a questi squilibri gli enti gestori hanno spesso distorto la loro missione sociale, privilegiando la riduzione del disavanzo. Consentono, ad esempio, la permanenza a famiglie che hanno superato la soglia di reddito le quali pagano un canone “sanzionatorio” pur sempre inferiore a quello di mercato, oppure applicano indennità di occupazione per gli abusivi in attesa dello sgombero. Queste due categorie, sebbene rappresentino una minoranza degli inquilini, in alcuni casi contribuiscono in modo sproporzionato agli introiti dell’ente, rallentando però il ricambio degli alloggi e sottraendoli a chi è in lista d’attesa.
Il problema delle occupazioni abusive è una diretta conseguenza di questa cattiva gestione e del progressivo smantellamento del settore. Un sintomo evidente della crisi è l’alto numero di alloggi pubblici vuoti che in Italia oscillano tra il 7% e il 12% del patrimonio, con picchi del 33% in Campania. Questi alloggi non sono assegnati principalmente per l’assenza di fondi per la ristrutturazione o per lentezze burocratiche estreme, come a Napoli dove le graduatorie non sono state aggiornate per vent’anni. L’occupazione, spesso rappresentata dai media in modo semplicistico, è in molti casi un atto di necessità da parte di famiglie già assegnatarie che si “allargano” in un alloggio confinante vuoto o è facilitata da pratiche informali come il “subentro”, una sorta di trasmissione ereditaria del diritto all’alloggio che bypassa le graduatorie ufficiali, nata proprio per sopperire alla loro lentezza. Un altro grave problema è la morosità, fenomeno diffuso ma territorialmente differenziato che va dal 5% in alcune città del nord al 95% a Catania. Questa morosità è largamente figlia della povertà degli assegnatari. In grandi quartieri periferici come Tor Bella Monaca a Roma si registrano tassi di povertà assoluta e famiglie a “reddito zero” che, evidentemente, non possono pagare alcun canone. A differenza di altri paesi europei, dove lo Stato integra il canone per le famiglie più povere, separando la gestione della povertà da quella immobiliare, in Italia il peso della povertà viene scaricato interamente sulla gestione degli enti locali, rendendo il sistema economicamente insostenibile. Le frequenti sanatorie se da un lato forniscono una soluzione a situazioni di grave disagio, dall’altro vanificano il meccanismo del sistema, incentivano l’illegalità e creano un ingiusto svantaggio per chi attende pazientemente in graduatoria. Il risultato è che l’Erp, che dovrebbe essere un tramite temporaneo, è diventato un diritto abitativo permanente, anche per chi non ne avrebbe più i requisiti, un blocco sistemico aggravato dall’assenza di un’offerta abitativa privata o di housing sociale a prezzi accessibili verso cui fuoriuscire.
A fotografare la fragilità del sistema contribuisce anche l’assenza strutturale di dati aggiornati. La legge del 1998 prevedeva un Osservatorio sulla condizione abitativa che non è mai stato istituito. I dati più utilizzati risalgono al 2015 e la stima spesso citata di 650.000 famiglie in graduatoria è una fotografia di un decennio fa. Stime più recenti parlano di circa 700.000 famiglie in attesa. Intanto il patrimonio pubblico continua a diminuire a causa dei piani di vendita avviati nel 1993 e mai cessati. La legge permette l’alienazione di fino al 75% del patrimonio agli assegnatari a prezzi bassissimi (25.000-35.000 euro ad appartamento nel 2016), con l’obiettivo dichiarato di rifinanziare l’Erp. Tuttavia i prezzi di vendita sono così bassi da essere inferiori ai costi di costruzione di nuovi alloggi, rendendo “sostanzialmente irrealizzabile” questo obiettivo, come ha rilevato la Corte dei Conti. Questa svendita ha conseguenze nefaste nel lungo periodo: riduce i flussi di cassa degli enti, crea condomini misti di difficile gestione, alimenta disuguaglianze tra inquilini e, quando avviene in quartieri centrali, contribuisce potentemente ai processi di gentrificazione, privando la città della sua funzione sociale. A questa si è aggiunta la massiccia dismissione, a partire dal 1996, del patrimonio degli enti previdenziali (come Enpam e Enasarco), che fino ad allora, con i loro alloggi spesso affittati a equo canone, calmieravano il mercato e garantivano un’offerta per quelle fasce “scoperte” troppo ricche per la casa popolare ma troppo povere per il mercato libero. Solo a Roma si stima siano stati venduti oltre 80.000 di questi alloggi, facendo crollare di un quarto l’intera offerta di affitto. Tra il 2001 e il 2004 grandi operazioni di cartolarizzazione (Scip 1 e 2) hanno coinvolto 90.000 unità immobiliari pubbliche, spesso attuate in emergenza e senza un’adeguata valutazione costi-benefici, con incassi per lo Stato inferiori al valore di cartolarizzazione. La Corte dei Conti ha duramente criticato questa deriva osservando che il dogma per cui “ciò che è pubblico è improduttivo” è infondato e che, invece di alienare il patrimonio, si sarebbe dovuto e potuto renderlo efficiente. Nonostante ciò, l’Italia ha perseguito con ossessione ideologica le privatizzazioni, senza considerazione per l’equità sociale. L’effetto combinato della soppressione dell’equo canone e della svendita del patrimonio pubblico ha compresso al lumicino l’offerta di alloggi a canone sociale, imponendo di fatto la scelta della proprietà anche a chi, in un mercato degli affitti sano, sarebbe rimasto in locazione, cristallizzando un modello abitativo fragile e iniquo.
La ristrutturazione del sistema abitativo italiano è stata un pilastro fondamentale per realizzare un salto di scala nel processo di valorizzazione della rendita immobiliare che a sua volta costituiva la base di una precisa strategia di accumulazione finanziaria. Questa trasformazione ha avuto anche una funzione macroeconomica cruciale, quella di “procrastinare una crisi economica conclamata”. Il contesto era quello degli anni ‘90, quando il modello manifatturiero della Terza Italia, caratterizzato da gestione familiare, basso livello di istruzione e scarsi investimenti in ricerca, mostrava tutti i suoi limiti con un marcato calo di competitività. Per rimandare gli effetti di questa bassa crescita strutturale, il paese ha scelto di puntare in modo sistematico sul “mattone”, rianimando il settore immobiliare, delle costruzioni e dei mutui ad ogni segnale di crisi produttiva, con provvedimenti che però, spostando risorse verso la rendita, hanno finito per deprimere ulteriormente l’economia reale.
Il percorso è iniziato con i condoni edilizi, il primo dei quali nel 1985, seguito da altri nel 1994 e nel 2003. Questi provvedimenti hanno affrontato il nodo critico dell’edilizia abusiva regolarizzando quote importanti di patrimonio ‘sommerso’, tuttavia lo strumento del condono è ben presto degenerato in un mero modo per ‘fare cassa’ sul suolo, finendo paradossalmente per incentivare nuovo abusivismo nella previsione di future sanatorie. Questo fenomeno si è inserito in un quadro più ampio di ipertrofia edilizia. All’inizio degli anni ‘90, mentre la crescita della popolazione rallentava (le famiglie aumentarono del 7% tra il 1981 e il 1991, meno della metà del decennio precedente), il numero di abitazioni cresceva del doppio (14%). In un arco di vent’anni, dal 1971 al 1991, l’incremento delle abitazioni vuote ha corrisposto a circa la metà dell’intero incremento del patrimonio abitativo, segno di un’espansione completamente scollegata dai bisogni reali.
Nonostante questo surplus alla fine degli anni ‘90 si è acceso un nuovo e imponente ciclo di valorizzazione immobiliare, con una ripresa delle compravendite dal 1996 e una decisa crescita a partire dal 1999 che avrebbe toccato il picco nel 2003. Questa fase espansiva è stata paragonabile, per lunghezza e intensità, a quella del boom economico del dopoguerra. La strategia per intensificare i processi di rendita si è concentrata sul sostegno all’acquisto di case come bene di investimento. L’aumento della domanda di acquisto è stato spesso presentato come una scelta individuale ma in realtà è stato guidato da precise politiche abitative che hanno reso deliberatamente sconveniente l’affitto, promuovendo parallelamente l’acquisto attraverso un ampliamento senza precedenti dell’accesso al credito. La disponibilità di finanziamenti a condizioni favorevoli è stato il fattore più rilevante nell’incentivare una domanda di case artificiale, superiore ai bisogni reali. La finanza ha così creato una domanda aggiuntiva. Tra la fine del 2001 e il 2009 i prestiti connessi al mercato immobiliare sono cresciuti di 400 miliardi di euro mentre il volume dei prestiti alle imprese edili è esploso. Contemporaneamente il costo dei mutui è crollato dal 14% al 5% fra il 1996 e il 1998 e le compravendite sono aumentate in modo continuo da 600.000 nel 1997 a un milione nel 2006. Questa espansione del credito è stata resa possibile da una profonda modifica del sistema bancario italiano, iniziata alla fine degli anni ‘70 e culminata con il Testo unico bancario del 1983 che autorizzava le banche a operare come intermediari finanziari universali. L’ingresso di banche straniere ha aumentato la competizione e abbassato i tassi. L’esito è stato un incremento radicale del credito al consumo e dei mutui ipotecari, alimentato anche dalla nuova capacità delle banche di cartolarizzare i mutui. In questo meccanismo le banche fanno da intermediario tra la famiglia e il mercato finanziario, vendendo il credito a società veicolo che lo pagano emettendo obbligazioni. In questo modo il valore della casa si “stacca da terra” per produrre valore nei circuiti finanziari. Questa finanziarizzazione della casa ha reso la sicurezza a lungo termine delle famiglie dipendente dai mercati finanziari, mescolando i rischi abitativi con i rischi finanziari. Il sostegno alla domanda di case come investimento ha prodotto l’effetto desiderato: un marcato aumento dei valori immobiliari. L’anno dopo l’abolizione dell’equo canone, nel 1999, è iniziato il ciclo di forte crescita delle transazioni. I prezzi delle abitazioni sono cresciuti del 40% in sette anni, con picchi del 70% a Milano e del 56% a Roma nelle aree centrali tra il 2001 e il 2021. Attraverso la promozione della proprietà le politiche per la casa hanno apparentemente democratizzato la finanziarizzazione, permettendo anche ai ceti popolari di parteciparvi attraverso l’indebitamento. Le conseguenze redistributive, però, sono state profondamente inique: un aumento dei prezzi delle case determina una redistribuzione di benessere dagli agenti poveri che vivono in affitto (la cui spesa aumenta) ai soggetti più ricchi proprietari di abitazioni (che realizzano guadagni in conto capitale). La quota di affittuari si è ridotta drasticamente, passando dal 40% circa nel 1971 al 16% circa nel 2001, e oggi l’affitto è un fenomeno principalmente povero, pagato da quasi la metà delle famiglie nel quintile di reddito più basso. La proprietà, al contrario, è diminuita tra i più poveri ed è aumentata tra i più ricchi, con il credito concentrato presso questi ultimi.
A guadagnare dalla crescita dei prezzi sono state soprattutto le imprese (Fiat, Pirelli, Falck, Zanussi, Benetton) e gli attori finanziari che hanno iniziato a massimizzare il capitale finanziario attraverso operazioni immobiliari, creando società veicolo per valorizzare i propri patrimoni. Anche la privatizzazione degli alloggi pubblici ha partecipato a questa strategia. Si è innescato un trasferimento del debito dalle imprese alle famiglie, con enorme vantaggio per il sistema creditizio. Questa morsa sui bilanci familiari, tra rendita e salari insufficienti, ha causato il collasso del sistema per insolvenza, come dimostrato dalla crisi dei mutui subprime del 2007-2008. La democratizzazione proprietaria ha prodotto risultati diseguali. Nel 2020, mentre il 5% più ricco ha visto crescere la propria ricchezza del 20% trainata dalle attività finanziarie, la ricchezza media dei ceti medi è diminuita per effetto del calo dei prezzi delle case che costituiscono il loro patrimonio principale. L’aumento del peso della rendita ha contribuito ai bassi tassi di crescita, sottraendo risorse agli impieghi produttivi. Il dibattito sulla rendita è scomparso dall’agenda politica dopo la sentenza della Corte Costituzionale del 1980 e la sua accumulazione è stata progressivamente “naturalizzata”.
Il protagonista del nuovo ciclo è stato il fondo immobiliare che gode di un regime fiscale agevolato. Con il fondo gli edifici diventano oggetto di accumulazione prettamente finanziaria, poiché il loro valore si scollega dalla domanda e offerta di abitazioni per connettersi agli andamenti dei mercati finanziari. Si assiste al paradosso per cui la produzione di valore finanziario si genera a prescindere da qualsiasi utilizzo effettivo del bene. La valorizzazione è così passata dal gergo finanziario al lessico comune ma indica in realtà un processo di estrazione di valore dal suolo, cioè di speculazione. La connotazione positiva del termine testimonia la capacità dei processi speculativi di rendersi accettabili. Sono stati proprio i soggetti pubblici, come l’Agenzia del Demanio, a promuovere questa retorica, vendendo quote del patrimonio pubblico con la logica della valorizzazione. Il risultato è che le città sono piene di caserme, ospedali e altri edifici pubblici vuoti, in attesa di una valorizzazione che soddisfi le attese di redditività finanziaria, spesso in contrasto con le necessità di riuso per i cittadini.
Poiché la dinamica di accumulazione finanziaria mantiene pur sempre un legame con l’estrazione di rendita dallo spazio urbano, gli attori finanziari intervengono sempre più direttamente nella produzione dello spazio, in un contesto di progressiva deregolamentazione urbanistica. L’assegnazione delle competenze urbanistiche alle regioni ha privato l’Italia di una programmazione complessiva. La parola urbanistica è scomparsa dal vocabolario normativo, sostituita da governo del territorio. La retorica della “semplificazione” serve a giustificare un ribaltamento dell’equilibrio tra interessi pubblici (garanzie sul futuro del territorio) e privati (aspettative economiche di breve periodo). Per favorire gli investimenti si è ribaltata la priorità tra piani regolatori generali e singoli programmi di intervento calibrati sulle opportunità di mercato.
I comuni, alle prese con tagli dei trasferimenti statali, hanno reagito in due modi: trasformando le città per attirare capitali e turismo e usando il suolo come moneta di scambio per introitare oneri urbanistici. Le amministrazioni trattano il riconoscimento dei diritti edificatori (la rendita) come una merce. Non più una pianificazione pubblica ma un’urbanistica “contrattata” o “negoziale”, dove si decide per “la pressione diretta di chi detiene il possesso di consistenti beni immobiliari”. Strumenti come i Programmi integrati di intervento (1992) permettono ai privati di proporre direttamente operazioni di riconversione urbana. Le risorse per l’edilizia pubblica sono state dirottate verso interventi di riqualificazione che, in assenza di meccanismi redistributivi, innescano processi di gentrificazione. Nella prassi l’iniziativa privata assume una posizione di forza, anche a causa di scelte statali come la determinazione degli indennizzi per espropri al valore venale (comprensivo di rendita). I comuni diventano dipendenti dagli investimenti privati per le infrastrutture e le spese correnti. Il meccanismo delle compensazioni urbanistiche, usato estensivamente a Roma, ha reso l’amministrazione comunale ostaggio di diritti edificatori privati, trattando il suolo come se fosse tutto naturalmente edificabile e generando nuovo consumo di suolo in periferia. Spesso i privati non completano le opere pubbliche promesse, lasciando quartieri privi di servizi. L’affidamento al mercato non ha garantito servizi adeguati e ha prodotto nuovi costi per la collettività, in un circolo vizioso simile a quello della dipendenza dal turismo.
Il “modello Milano” è il laboratorio principale di questa logica. Milano è riuscita ad attrarre capitali perché è stata la pioniera dell’urbanistica contrattata, cedendo gratuitamente aree e adottando per prima, già negli anni ’80, documenti che prefiguravano la possibilità di approvare progetti privati in variante al piano regolatore. I pilastri di questo modello sono: l’iniziativa privata a guidare le trasformazioni, procedure negoziali opache e sbilanciate, una comunicazione di marketing, una esplicita delegittimazione della pianificazione. Se le radici della prosperità milanese affondano nella riconversione al terziario, la città si è però sottomessa al capitale finanziario-immobiliare. Operazioni come Porta Nuova, con capitali qatarioti, hanno segnato il passaggio dal vecchio modello del “palazzinario” a un modello finanziario puro, dove i prezzi sono guidati dalla domanda e offerta di prodotti finanziari. Milano ha abbandonato il piano regolatore per il Piano di governo del territorio, demandando di fatto il controllo delle trasformazioni al mercato.
Tuttavia il modello mostra oggi i suoi altissimi costi sociali. La ripartizione dei plusvalori è fortemente sbilanciata: a Milano il pubblico ottiene solo il 5-7% del plusvalore, contro il 30% di Monaco di Baviera. In Italia la tassazione delle trasformazioni urbane vale dal 2 al 6% del valore del costruito, contro il 30% della Germania. Un dato su tutti fotografa gli effetti escludenti: a Milano solo il 60% delle compravendite è assistito da un mutuo, il che significa che quasi metà avviene con ingenti risorse proprie, ereditate o frutto della vendita di un’altra abitazione. Milano non è più una città per chi vive di un normale salario e il problema della casa si è esteso alla classe media. Le città, sempre più “a uso investimento”, stanno diventando inaccessibili per le persone, rivelando l’esito socialmente insostenibile di decenni di politiche fondate sulla rendita e sulla speculazione finanziaria.
La casa, e nello specifico il settore dell’edilizia sociale, è stata progressivamente integrata nel sistema dell’urbanistica contrattata, un processo che ha subito un’accelerazione decisiva a livello nazionale con l’introduzione formale nel 2008 del nuovo e generico concetto di Edilizia Residenziale Sociale (Ers) che ha soppiantato la precedente dicitura di Edilizia Residenziale Pubblica (Erp). Questa ridefinizione inquadra l’Ers come un insieme pluralistico di soluzioni abitative che spaziano dalla gestione pubblica tradizionale a forme di edilizia sovvenzionata e affitto calmierato, tutte accomunate dalla possibilità di essere fornite da una gamma di attori che include soggetti pubblici, privati e non profit, i quali a loro volta possono beneficiare di incentivi statali e cofinanziamento pubblico. Oltre alla vaghezza intrinseca della definizione di “alloggio sociale”, le due vere novità sono state, in primo luogo, l’ingresso ufficiale dei privati nella realizzazione del social housing, visto che il decreto riconosce l’edilizia agevolata da loro prodotta come un “servizio di interesse generale”, e in secondo luogo un radicale slittamento dei destinatari che non sono più le famiglie maggiormente svantaggiate ma quella “fascia grigia” di popolazione con un reddito troppo alto per accedere all’Erp ma troppo basso per sostenere i prezzi di mercato.
Questo crescente coinvolgimento di nuovi attori privati e non profit viene facilitato attraverso incentivi pubblici, spesso consistenti nella cessione di aree edificabili, o attraverso la remunerazione garantita da canoni di locazione “moderati”, di quasi-mercato, più elevati di quelli del patrimonio pubblico. Un aspetto cruciale e spesso trascurato è la temporalità limitata del vincolo sociale: le case in Ers sono infatti destinate alla locazione per un periodo di soli otto anni, al termine dei quali possono essere vendute, spesso attraverso patti di futura vendita agli inquilini. Questo significa che non si tratta di un’offerta stabile di case in affitto ma di un meccanismo che porta prevalentemente alla vendita agevolata di alloggi il cui carattere “sociale” è per definizione transitorio e, una volta estinto, immette le case sul mercato libero. A partire dal 2014 questo sistema è stato esteso anche all’edilizia universitaria, seppur con un vincolo di destinazione d’uso sociale più lungo, di 15 anni. La regolamentazione di accesso, permanenza, canoni e agevolazioni per l’acquisto è demandata alle regioni, sebbene il prezzo di vendita venga stabilito nelle convenzioni con i comuni. In pratica l’edilizia sociale è diventata la merce di scambio all’interno del sistema dell’urbanistica contrattata, attraverso cui le amministrazioni, in assenza di investimenti diretti in Erp, tentano di ottenere quote di alloggi “sociali” in cambio di condizioni vantaggiose per i costruttori, come la concessione di volumetrie aggiuntive. Questo processo trasforma il diritto alla casa in una moneta di scambio che i comuni utilizzano per ottenere possibilità edificatorie, innescando così un circolo vizioso di maggior cemento e consumo di suolo in cambio di un numero esiguo di alloggi sociali, stravolgendo le previsioni della pianificazione ordinaria. Nonostante questo baratto, le quote di Ers realizzate si sono rivelate ampiamente insufficienti a rispondere alla domanda di case a prezzi accessibili, una domanda che cresce in un mercato immobiliare surriscaldato anche dalla costruzione di residenze di lusso che, paradossalmente, includono al loro interno proprio quelle quote di Ers.
La Lombardia si è distinta come regione precorritrice di questa trasformazione, avendo già nel 2005 elevato l’Edilizia Residenziale Sociale a “standard urbanistico”. Gli standard urbanistici tradizionali garantiscono i servizi collettivi necessari all’abitare (verde, scuole…) ma se la casa stessa diventa uno standard, si elimina l’obbligo di realizzare servizi aggiuntivi e si permette di costruire case in aree originariamente destinate a usi collettivi. Questo stravolgimento degli equilibri urbanistici ha consentito al Comune di Milano, a metà degli anni Duemila, di sbloccare ben quarantasei lotti di terreno pubblico, destinati a servizi, per orientarli all’edilizia sociale privata, a volte cedendoli gratuitamente. Il piano locale è così diventato, come osservano i ricercatori Emanuele Belotti e Sonia Arbaci, una leva pubblica per mobilitare attori non profit, sperimentare partnership pubblico-privato e promuovere nuove soluzioni finanziarie per il settore. I privati accedono a queste aree a condizioni vantaggiose mentre i canoni d’affitto “sociali” sono calibrati per coprire i costi di costruzione, la gestione e garantire un certo profitto a proprietari e investitori. Per assicurare questa remunerazione, i limiti di reddito per l’accesso all’Ers, stabiliti dalle regioni o nei bandi, possono essere fissati a livelli molto alti, selezionando così inquilini solvibili. Nonostante questa architettura di incentivi pubblici generosi, la crescita dell’offerta di case accessibili non si è materializzata. Un rapporto Nomisma del 2021 sulla città metropolitana di Milano ha evidenziato come, nell’ultimo decennio, la produzione di nuova offerta in locazione per la fascia grigia sia stata insignificante. Considerando che un alloggio è accessibile se il suo costo non supera il 30% del reddito familiare, lo studio ha stimato una domanda potenziale insoddisfatta di 146.500 nuclei familiari, quasi il 20% del totale milanese. Quantitativamente, tra il 2010 e il 2019, a Milano sono stati creati solo 2.000 nuovi alloggi in locazione su un totale di 6.200 alloggi Ers realizzati, e di questi, solo 207 erano a canone sociale. Il dato conferma che l’Ers è in larga parte una soluzione proprietaria per ceti medio-alti e poiché la maggior parte degli alloggi è finalizzata alla vendita, si configura come un’ulteriore misura che produce un’appropriazione privata di rendita a partire dalla concessione di suolo pubblico a condizioni agevolate. Se né i più poveri né la fascia grigia ne hanno tratto vantaggio, i veri beneficiari sono stati i fondi immobiliari. Gli incentivi pubblici, cioè aree edificabili a condizioni vantaggiose, riduzione di tasse e oneri, affidamento della gestione, hanno reso il mercato della locazione sociale estremamente attraente per gli investitori privati e per i capitali finanziari. Milano ha anche in questo caso anticipato i tempi, siglando nel 2005 un protocollo con la Fondazione Housing Sociale (creatura della Fondazione Cariplo) per sviluppare nuovo patrimonio attraverso un “fondo immobiliare etico”. Questa sperimentazione ha ispirato il governo nazionale a creare, nel 2009, un “fondo dei fondi” dedicato, il Fondo Investimenti per l’Abitare (Fia), gestito da Cassa Depositi e Prestiti per attrarre capitali finanziari per l’Ers in tutta Italia. Belotti e Arbaci spiegano che questo Sistema Integrato dei Fondi (Sif), con un capitale iniziale di un miliardo di euro da Cdp, ha mobilitato complessivamente tre miliardi, destinati a creare appena 20.000 alloggi sociali su tutto il territorio nazionale. Un risultato quantitativamente insignificante, se non avesse avuto l’effetto di finanziarizzare l’edilizia “sociale”, trasformandola in una nuova asset class liquida dove gli investimenti non sono finalizzati a uno sviluppo locale concreto poiché diventano una fonte astratta e despazializzata di rendimenti finanziari a medio-lungo termine, con rendimenti attesi del 3%. Il federalismo demaniale, trasferendo agli enti locali aree come caserme e scali ferroviari, ha fornito ulteriore patrimonio pubblico da “mobilitare” per attrarre questi investimenti, con interventi che si concentrano prevalentemente al Nord e in Lombardia che da sola conta quasi il 30% delle iniziative. La giustificazione ideologica spesso avanzata per queste politiche è la promozione del “mix sociale”, presentato come un rimedio alla segregazione socio-spaziale. In realtà, come dimostrano i casi di riqualificazione di quartieri popolari milanesi come Gorla e Corvetto, l’obiettivo è attirare investimenti privati per il recupero del patrimonio pubblico, il che richiede a sua volta di attrarre inquilini più solvibili. Il risultato è che la cosiddetta “mescolanza” sociale si traduce invariabilmente nello spostamento della classe media nei quartieri della classe operaia, gentrificandoli, e non viceversa, lasciando la popolazione meno abbiente senza soluzioni abitative. L’urbanista Massimo Bricocoli, insieme a Sabatinelli, mette in luce un’ulteriore contraddizione: l’idea dell’Ers come soluzione temporanea, presentata come un servizio transitorio in opposizione all’assegnazione a tempo indeterminato dell’Erp, cozza con la realtà di un mercato del lavoro precario, con redditi bassi e discontinui. In uno scenario del genere l’enfasi sulla temporaneità e sull'”attivazione” del beneficiario ignora la natura strutturale della vulnerabilità sociale. Inoltre i meccanismi di accesso all’Ers sono in piena contraddizione con l’idea di transitorietà visto che l’assegnazione è spesso subordinata a lunghe e laboriose procedure di selezione che valutano la disponibilità dei futuri inquilini a aderire a un modello abitativo comunitario e collaborativo, implicando un investimento emozionale e ideologico. Si crea così uno scarto tra la retorica della casa come servizio transitorio e una pratica che richiede radicamento e sviluppo di comunità, in una logica quasi “proprietaria”. Al di là delle retoriche collaborative, gran parte della selezione mira in ultima analisi a garantire la collaborazione degli inquilini alla sostenibilità economico-finanziaria dell’operazione. La possibilità che accordi pubblico-privati funzionino presuppone l’esistenza di un “pubblico” forte, con interessi distinti e capacità di negoziazione. In Italia questo “pubblico” di fatto non esiste più, soffocato da un intreccio opaco con il privato che ha portato a una resa totale della sfera pubblica all’agenda di quella privata. Il confronto con la Francia, condotto dai ricercatori Félix Adisson e Francesca Artioli su nove casi studio, delinea due traiettorie diametralmente opposte. In Francia le politiche di privatizzazione dei suoli pubblici sono state attuate con procedure standardizzate e una regia pubblica forte che ha imposto quote minime di almeno il 20% di alloggi sociali e ha venduto i terreni a prezzi calmierati. Il ministero del Tesoro supervisionava le vendite e gli enti locali, dotati di risorse ed esperienza, investivano direttamente nella bonifica e riqualificazione dei terreni prima di venderli ai costruttori, mantenendo il controllo del processo. In Italia, al contrario, l’intervento statale redistributivo è assente, le vendite dei terreni demaniali (ferrovie, ministero della Difesa) avvengono in modo autonomo e slegato dai governi locali mentre manca un dipartimento statale dedicato alla riqualificazione. Gli enti locali italiani, con minori risorse finanziarie e una cronica contrazione degli investimenti, dipendono totalmente dagli attori di mercato, ai quali chiedono di farsi carico non solo della costruzione ma anche della realizzazione di opere pubbliche attraverso gli oneri di urbanizzazione. Questa dipendenza, unita alla crisi del mercato immobiliare italiano, ha reso i processi lenti, irregolari, conflittuali e poco redistributivi, con la parte pubblica dei progetti che tende a scomparire. In Francia l’opposizione alle privatizzazioni è stata praticamente inesistente perché percepite come legittime e finalizzate a un compromesso tra riduzione del debito e garanzia dei diritti sociali viceversa in Italia le contestazioni sono state frequenti.
5. La città moderna
La narrazione della trasformazione urbana contemporanea affonda le sue radici nel secondo dopoguerra, quando già negli Stati Uniti gli interventi di urban renewal fungevano da pretesto per la demolizione di interi quartieri popolari centrali, sostituiti da centri commerciali e direzionali. Un processo analogo di gentrificazione, ovvero la sostituzione di residenti di ceto basso con una classe più abbiente, ha caratterizzato l’Italia negli anni ‘60. È però a partire dagli anni ‘90 che la gentrificazione si consolida come una vera e propria politica pubblica finalizzata a forgiare l’immagine della città attrattiva, in perenne competizione per accaparrarsi capitali privati. In questa nuova fase la città cessa di essere un luogo di produzione di beni per trasformarsi in uno strumento di estrazione di valore, diventando essa stessa oggetto di consumo attraverso sofisticati meccanismi finanziari di captazione della rendita immobiliare. Questo modello si è affermato nel contesto della crisi del fordismo e della riorganizzazione produttiva globale che ha eletto poche città globali a nodi di comando dell’economia mondiale, lasciando molte altre, tra cui gran parte delle città italiane con la parziale eccezione di Milano, in una condizione di declino e alla ricerca di nuove strategie dopo la deindustrializzazione. Intere zone urbane hanno perso la loro funzione produttiva, generando vasti vuoti in attesa di essere valorizzati. È proprio dalle aree portuali, da Genova a Baltimora, che ha preso il via la nuova stagione post-fordista, caratterizzata da politiche neoliberiste che puntano sulla riqualificazione fisica per attrarre nuovi flussi. La ricetta per il rilancio nel capitalismo globalizzato, contestato nel suo picco al G8 di Genova del 2001, è stata la produzione e il consumo della città stessa, attraverso operazioni di rigenerazione e grandi eventi, ciò che Walter Tocci definisce “effimero strutturale”, ovvero l’uso di eventi e legislazioni d’emergenza per dare una scadenza certa a progetti immobiliari altrimenti farraginosi. In questo processo la cultura gioca un ruolo fondamentale per la finanziarizzazione, servendo a capitalizzare ex fabbriche o scali ferroviari attraverso complesse operazioni di rigenerazione. La produzione culturale immateriale e simbolica fornisce visibilità ai luoghi e, al contempo, crea l’illusione di una redistribuzione di benefici attraverso iniziative come aperitivi e mostre, rendendo così socialmente più digeribile la speculazione. Come raccontato da Lucia Tozzi ne L’invenzione di Milano, l’arruolamento del mondo culturale e architettonico è servito a comunicare come green e smart processi di privatizzazione e consumo di suolo, legittimando la spirale speculativa che ha investito la città, dove la conversione di parchi ed ex aree industriali in complessi residenziali di lusso viene narrata come vantaggiosa per tutti, nonostante avvenga nell’area più inquinata d’Europa. Al di là delle narrazioni e dei rendering, la città-merce che ne risulta è grigia, mediocre e noiosa, una somma di oggetti privati e edifici autoreferenziali, avulsi dal contesto. La metropoli neoliberale è una composizione aperta di pezzi isolati che si escludono a vicenda, uno spazio continuo e astratto di scambio finanziario dove tutta la vita è stata privatizzata. Dal concetto di rigenerazione urbana è stata completamente eliminata la componente sociale, relativa al miglioramento delle condizioni di vita degli abitanti attraverso servizi pubblici, ed è rimasta solo la parte edilizia, che, basandosi sull’estrazione di rendita, finisce per peggiorare la situazione degli esclusi. L’aumento del valore di suoli e case innescato dalla riqualificazione produce l’espulsione della popolazione più povera poiché gli attori del mercato colmano il rent-gap, il differenziale tra il valore potenziale di un’area e quello effettivamente capitalizzato. Questa dinamica cancella la vitalità culturale che nasce in spazi accessibili e protetti dal mercato, quei luoghi, dalle strade del Bronx alle cantine di Trastevere, che in passato hanno incubato nuove espressioni artistiche poi assorbite e mercificate dal capitale una volta divenute mature. Il geografo David Harvey spiega che il capitale permette l’esistenza di spazi di differenziazione e controculture che possono rivelarsi antagonistiche per poi cooptarle e trasformarle in rendita di monopolio. Con l’espulsione dei poveri i quartieri popolari diventano oggetto di desiderio per una nuova classe media e per i city-users turistici. Sandra Annunziata interpreta questo desiderio come “un impulso verso qualcosa che non si ha (o non si ha più)”, una nostalgia per il quartiere popolare tradizionale e per l’urbanità che esso rappresentava. Si tratta di un paradosso poiché si desidera qualcosa che non c’è più, una mancanza colmata da nuove immagini che attingono al repertorio del passato. È la stessa logica del turismo di massa, un’industria fondata sulla nostalgia per un mondo che essa stessa contribuisce a distruggere, dove quanto più una pratica tende a scomparire, tanto più viene patrimonializzata, perdendo la sua autentica dimensione d’uso. Il fenomeno che più ha trasformato l’abitare in Italia nell’ultimo decennio è la diffusione degli affitti brevi turistici, intermediati da piattaforme digitali come Airbnb. Se all’origine venne presentata come espressione della sharing economy, l’attività si è rapidamente professionalizzata, con una concentrazione dei ricavi in mano a una minoranza di host che gestiscono numerosi appartamenti, rivelando una retorica della condivisione che si scontra con una distribuzione estremamente diseguale degli annunci, concentrati nelle aree centrali dove i prezzi sono più alti. Il meccanismo di base rimane l’estrazione di rendita immobiliare ma il processo ha subito un’accelerazione e un’intensificazione inedite perché avviene attraverso un semplice cambio d’uso, senza necessità di investimenti fisici o di ristrutturazione. In Italia sono sufficienti in media solo 150 giorni di affitto breve per eguagliare la redditività di un affitto residenziale annuale. Questo differenziale di redditività, dato dalla combinazione di localizzazione e temporaneità d’uso, ha prodotto un massiccio spostamento dell’offerta dal già esiguo mercato delle locazioni ordinarie a quello turistico, due segmenti in diretta competizione per le stesse aree centrali.
Nonostante l’impatto dirompente, in Italia non è stato fatto quasi nulla per limitare il fenomeno. Le uniche misure hanno riguardato aspetti fiscali, come l’introduzione di una cedolare secca (prima al 21%, poi al 26%) e l’obbligo di esercizio in forma imprenditoriale per chi gestisce più di quattro appartamenti, creando però incoerenze fiscali a favore della rendita. Uno studio sulle locazioni brevi a Roma ha stimato un fatturato medio annuo di 21.538 euro per appartamento che moltiplicato per tre unità porta a un guadagno di 64.614 euro l’anno, tassato con un’aliquota inferiore a quella IRPEF. Dal punto di vista gestionale l’affitto breve non è un’attività professionale che crea posti di lavoro o indotto significativo, eppure assorbe un terzo dell’intera spesa turistica in Italia, trasformandola in rendita per i proprietari senza restituire quasi nulla alla collettività. Al contrario, il suo impatto in termini di costi è notevole: ha contribuito alla scomparsa degli alberghi di fascia bassa, ha generato un impressionante sommerso ricettivo (stimato in quasi 100 milioni di pernottamenti “non osservati” nei primi 500 comuni turistici, pari al 23,6% del totale) con minori entrate dalla tassa di soggiorno per i comuni e ha innescato costi sociali enormi. Lo spostamento dell’offerta verso il mercato turistico sta portando alla sparizione delle locazioni ordinarie, in calo da trent’anni nonostante la domanda crescente, e allo spopolamento dei centri storici. Roma ha perso il 38% della popolazione nel suo centro, con picchi del 45% in rioni come Trastevere. Questo svuotamento determina una trasformazione del tessuto commerciale: secondo Confcommercio, tra il 2012 e il 2020 in Italia sono scomparsi 77.000 negozi (-15% nei centri storici), mentre ristorazione e ricettività sono cresciute del 14%. Le aree centrali subiscono così una specializzazione e omologazione commerciale, indotta dal prevalere di una popolazione temporanea con bisogni diversi da quelli dei residenti. Le famiglie giovani e con bambini si spostano in periferia, contribuendo all’invecchiamento dei centri storici e alla chiusura di servizi essenziali come le scuole d’infanzia, tanto che questi somigliano sempre più alle aree interne del paese. L’espansione degli affitti brevi ha un impatto diretto sul mercato immobiliare nel suo complesso. Studi citati dalla Banca d’Italia mostrano che i prezzi medi delle case crescono al crescere degli annunci Airbnb, con un impatto significativamente più alto nelle periferie, riducendo il gradiente di prezzo tra centro e periferia attraverso un livellamento verso l’alto. A Milano, come ha affermato Elena Molignoni di Nomisma, “i prezzi della fascia alta del mercato hanno trascinato in alto anche i prezzi dei mercati di fascia medio-bassa e bassa”. L’offerta ordinaria a lungo termine sta sostanzialmente scomparendo, sostituita da una nuova offerta di affitti di medio periodo (mesi o annuali) gestita da piattaforme come DoveVivo e Roomless che offrono rendite fisse ai proprietari e sono rivolte a un target selezionato di abitanti temporanei (lavoratori da remoto, studenti internazionali). Questo segmento, in cui convergono anche gli operatori del settore studentesco (come The Student Hotel, rinominato Social Hub), sottrae ulteriori case al mercato residenziale ordinario. I dati dell’Agenzia delle Entrate riflettono questa tendenza: dal 2016 al 2022 i contratti di durata inferiore a un anno sono cresciuti del 26% mentre i contratti ordinari a lungo termine sono calati del 12%.
Di fronte a questa trasformazione in molte città europee, come Amsterdam, Barcellona, Parigi, Berlino, le amministrazioni hanno introdotto da tempo regolamentazioni efficaci per tutelare la residenzialità. L’obiettivo principale è temporale: si distingue tra attività occasionale (ad esempio, fino a 30 notti/anno ad Amsterdam, 120 a Parigi) e imprenditoriale, imponendo limiti al numero di notti e di alloggi, obbligo di residenza dell’host e sistemi di licenza. A Parigi, per affittare brevemente un immobile non residenziale, il proprietario deve addirittura garantire o compensare un alloggio di pari dimensioni per l’affitto a lungo termine. Queste norme hanno funzionato, infatti ad Amsterdam gli alloggi su Airbnb sono calati da oltre 20.000 a 6.000, a Parigi da 70.000 a 60.000. In Italia, invece, manca una norma nazionale. Una proposta di legge-quadro, elaborata dalla campagna Alta tensione abitativa e ispiratrice della legge toscana sul turismo, è stata ignorata a livello nazionale, lasciando ai comuni il solo strumento della destinazione d’uso urbanistica.
Parallelamente le politiche pubbliche per la casa si sono rivelate inefficaci o controproducenti. I programmi di rigenerazione urbana (Piano Città, Bando Periferie) sono frammentati e privi di monitoraggio. Il Fondo morosità incolpevole, istituito nel 2013, ha speso solo la metà dei 184,3 milioni di euro stanziati a causa di modalità di erogazione farraginose e di una visione astratta della povertà. Il picco di 40.000 sentenze di sfratto emesse nel 2022 (l’80% per morosità) testimonia un’emergenza abitativa strutturale. Allo stesso tempo gli incentivi all’edilizia, presentati come volano per l’economia, hanno alimentato la rendita immobiliare senza risolvere il problema. Il Piano Casa del 2009 consentì ampliamenti volumetrici fino al 35%, alterando i tessuti urbani consolidati. L’apoteosi di questo approccio sono stati i bonus edilizi post-pandemici, con 170 miliardi di euro in crediti d’imposta per il Superbonus 110% e il Bonus facciate. Sebbene abbiano stimolato il settore delle costruzioni (+55% di spesa per investimenti in abitazioni nel 2022 rispetto al 2019), studi della Banca d’Italia confermano che si sono trattati di sussidi regressivi, i cui benefici hanno favorito i redditi più alti, producendo una “redistribuzione verso l’alto” e un ulteriore accumulo di debito pubblico, senza ripagarsi da soli attraverso le entrate generate. Contestualmente si è assistito a una progressiva criminalizzazione della povertà. L’articolo 5 del Piano casa Renzi-Lupi (2014) ha negato residenza e servizi essenziali agli occupanti abusivi mentre i vari “pacchetti sicurezza” (nel 2007 e 2009) hanno introdotto la nozione di sicurezza urbana e hanno reso la residenza sempre più selettiva, colpendo immigrati e poveri attraverso verifiche sull’abitabilità e requisiti stringenti, alimentando di fatto l’informalità e la segregazione. Questo approccio securitario è proseguito con il decreto Salvini del 2018 e, recentemente, con il modello Caivano e la direttiva del ministro Piantedosi sulle zone rosse, erodendo diritti fondamentali. Anche il Pnrr, nonostante la sua imponente dotazione, non delinea una strategia nazionale sulla casa. Il tema è frammentato in diverse missioni, con 8,3 miliardi iniziali per la Rigenerazione urbana e housing sociale. Simili investimenti (Piani urbani integrati, Progetti per la qualità dell’abitare – PINQUA) privilegiano ancora interventi fisici edilizi, spesso trascurando la gestione futura e le persone, mentre mostrano forti ritardi nella spesa (dal 13% allo 0% a fine 2024). Manca un investimento per incrementare lo stock abitativo pubblico e, in alcuni casi, come a Brescia, il PINQUA finanzia la sostituzione di edilizia residenziale pubblica con housing sociale gestito da privati per il ceto medio. L’ultimo tassello di questa deriva è la continua deregolamentazione urbanistica. Il cosiddetto decreto Salva Casa (2024) di fatto costituisce un nuovo condono edilizio, autorizzando l’abitabilità di spazi più piccoli e sanando abusi in aree vincolate. Proposte di legge come il Salva Milano e quella sulla rigenerazione urbana mirano a permettere demolizioni e ricostruzioni, anche di grattacieli, senza piani attuativi e con una semplice Segnalazione Certificata di Inizio Attività (SCIA), di fatto cancellando la pianificazione pubblica.
La protesta delle tende del maggio 2023 ha riportato alla ribalta l’emergenza abitativa in Italia, un dibattito riaperto non a caso dagli studenti fuorisede, tra i soggetti più esposti all’esclusione abitativa a causa della competizione sempre più agguerrita nel mercato privato degli affitti. Proprio questa carenza strutturale di offerta, unita alla disponibilità delle famiglie a investire sul futuro dei figli, ha reso gli studenti, insieme agli affitti brevi turistici, il target privilegiato del segmento più redditizio del mercato immobiliare: lo student housing. È in questo settore strategicamente cruciale che lo Stato ha scelto di investire 1,2 miliardi di euro del Piano Nazionale di Ripresa e Resilienza (Pnrr), destinandoli però in massima parte a gestori privati. Questa scelta segna l’abbandono definitivo di una concezione delle politiche pubbliche come strumento per creare un’offerta alternativa a quella del libero mercato e sancisce una patologica dipendenza ideologica del pubblico italiano dal privato. Il privato per sua natura non ha interesse a creare un’offerta di alloggi a prezzi accessibili visto che funziona in modo ottimale quando si rivolge a un target minoritario con un’offerta di lusso, un modello che ritroviamo identico nel cosiddetto high senior housing, le residenze private per anziani dove le rette mensili a carico delle famiglie possono arrivare a cinquemila euro. Gli studentati privati garantiscono redditività anche grazie a una doppia rendita: una parte delle stanze viene infatti locata a turisti, sfruttando la normativa che, in nome dell’attrazione di capitali, ha profondamente deregolamentato il settore. La riforma della legge 338 del 2000, che regola le residenze universitarie, ha infatti innalzato la quota di cofinanziamento pubblico dal 50% al 75% e, aspetto cruciale, ha introdotto il principio dell’uso flessibile degli alloggi, permettendo esplicitamente la locazione a turisti “quando non sono necessari per l’ospitalità studentesca”. Nei primi due bandi attuativi del Pnrr è addirittura scomparso il vincolo che imponeva ai soggetti privati di destinare una quota fissa del 20% dei posti a studenti “capaci e meritevoli, seppur privi di mezzi”, sostituito da una generica e inefficace destinazione “prioritaria”, senza peraltro imporre alcun vincolo sui canoni finali. Questo processo di deregolamentazione è particolarmente evidente nel campo dell’abitare studentesco, dove l’avanzamento della semplificazione urbanistica in nome dell’attrazione di capitali privati sta mostrando conseguenze disastrose. Il cerchio si chiude con l’inserimento dei valori di mercato tra i criteri di definizione dei canoni di locazione per i posti letto cofinanziati con fondi pubblici, sebbene con la previsione di un piccolo sconto finale, abbandonando definitivamente l’idea di un’offerta alternativa.
Partiamo dal contesto: l’offerta pubblica di posti per studenti fuorisede copre circa il 5% del fabbisogno, un dato che colloca l’Italia tra gli ultimi paesi in Europa. Con il Pnrr l’obiettivo dichiarato della Riforma 1.7 era “triplicare i posti per gli studenti fuorisede, portandoli da 40.000 a oltre 100.000 entro il 2026”, con uno stanziamento iniziale di 960 milioni di euro. La strategia è fallita platealmente già sul primo target intermedio di 7.500 posti entro il 2022. Il governo, attraverso il Ministero dell’Università e della Ricerca (Mur), ha assegnato 278 milioni di euro per 9.179 posti ma, come denunciato dall’Unione degli Universitari (Udu) e poi confermato dalle richieste di chiarimento della Commissione Europea, la stragrande maggioranza di questi non erano nuovi. Secondo le stime dell’Udu su 9.179 posti finanziati solo 3.429 erano effettivamente nuovi. Il resto erano posti già esistenti, a volte gestiti dagli stessi operatori negli stessi edifici da oltre dieci anni, che sono stati semplicemente “ricatalogati” come nuovi perché non censiti nella banca-dati del Ministero. In alcuni casi emblematici, come il Camplus Darsena di Ferrara, i posti erano già convenzionati con gli enti per il diritto allo studio mentre a Milano la società Hines ha ottenuto fondi del Pnrr per un edificio già in costruzione e previsto senza il contributo pubblico, poi locato all’Università Statale per nove anni con 11 milioni di euro di fondi pubblici. Questo “trucco” contabile ha avuto conseguenze dirette: la Commissione Europea, dopo le proteste, ha bloccato per mesi l’erogazione della terza rata da 19 miliardi, ha annullato il traguardo intermedio e ha decurtato 279 milioni dalla terza rata del Pnrr. Il governo ha quindi rimodulato l’obiettivo, stanziando 1,2 miliardi per 60.000 posti letto entro il 30 giugno 2026 (equivalente a un contributo di 20.000 euro a posto letto) ma senza cambiare strategia. Anzi, in un comportamento paradossale, ha coperto i contributi già erogati ai privati per i posti “non nuovi” con il bilancio statale ordinario, in un danno erariale quantificato dall’Udu in 262 milioni di euro. L’assurdità, dice l’Udu, sta nell’allocare ingenti somme di denaro pubblico per “vincolare delle residenze studentesche a mantenere una funzione che già esercitavano efficacemente e in maniera lucrativa” senza aumentare la disponibilità di alloggi. L’analisi dei risultati dei bandi rivela una chiara scelta di campo a favore dei privati. Dei 278 milioni iniziali, due terzi delle risorse sono andati a gestori privati, con i due colossi del settore, Camplus e Campus X, che hanno ottenuto rispettivamente 106 milioni di euro per 23 residenze e 79 milioni per 7 residenze, mentre tutti gli enti pubblici hanno beneficiato di soli 77 milioni. I canoni praticati da questi operatori sono spesso ben al di sopra del mercato. Al Campus X di Milano Bicocca, destinatario di 18 milioni di euro del Pnrr, uno studio prime duplex costa 1.700 euro al mese per 12 mesi. Anche i posti teoricamente destinati al diritto allo studio hanno canoni proibitivi: le tariffe agevolate per gli studenti meritevoli erano di 767 euro al mese per una singola e 455 per una doppia, cifre in linea o superiori a quelle di mercato. L’Udu, tramite accessi civici, ha anche scoperto che lo Stato paga due volte per lo stesso posto: una prima volta con i fondi Pnrr per la “realizzazione” (fino a 40.000 euro a posto, anche per alloggi preesistenti) e una seconda volta tramite i fondi regionali che coprono i costi di locazione per gli studenti meritevoli, a canoni che arrivano fino a 380 euro al mese. Un esempio è la residenza CX Turin Belfiore che ha ricevuto quasi 10 milioni di euro dal Pnrr per 247 posti, di cui solo 49 riservati al diritto allo studio e locati all’ente competente a 245 euro al mese. Il nuovo bando del 2024, pur avendo ripristinato una quota del 30% di posti da destinare al diritto allo studio, non risolve il nodo cruciale dei canoni. Il decreto istitutivo del Fondo housing universitario prevede infatti che i canoni vengano calcolati anche in base ai “valori di mercato di riferimento”, ai costi di realizzazione (che al Nord possono arrivare a 80.000 euro a posto) e al livello dei servizi offerti. A questo canone di base i gestori dovrebbero applicare una riduzione del 15% per i posti destinati al diritto allo studio, uno sconto che, considerati i criteri di partenza, risulterebbe quasi ininfluente. Inoltre il contributo di 20.000 euro a posto si è rivelato troppo basso per garantire la redditività ai privati, tanto che il Mur ha dovuto ammettere il fallimento del bando, incolpando paradossalmente gli enti pubblici per la scarsa adesione, nonostante il bando fosse stato intenzionalmente rivolto ai privati.
Questa deriva è stata alimentata da un cavillo normativo di grande portata: l’inserimento delle residenze universitarie nella categoria dell’Edilizia Residenziale Sociale (ERS). Questo status, come dimostra il caso di Milano, garantisce agli operatori privati esenzioni dal pagamento del contributo sul costo di costruzione, premi volumetrici, riduzione degli oneri di urbanizzazione e agevolazioni fiscali. In pratica, per un operatore privato coinvolto in un grande progetto urbano che prevede una quota obbligatoria di ERS, è molto più redditizio costruire uno studentato di lusso, su cui nessuno controlla i canoni, piuttosto che alloggi sociali a prezzi accessibili. Il costo finale per lo studente è così composto da due voci: un canone di locazione, a volte anche convenzionato, e un costo di gestione per servizi aggiuntivi e amenities di tipo alberghiero (palestre, piscine, cambio lenzuola, tutor privati) che finisce per superare di gran lunga la voce affitto. Il caso dello studentato in via Frigia a Milano è emblematico. L’affitto convenzionato è di 268,07 euro ma, con l’aggiunta di 600 euro per i servizi, il totale mensile diventa di 868,07 euro. A Porta Romana, sempre a Milano, si arriva a quasi mille euro al mese per 12 metri quadri. Come hanno denunciato consiglieri comunali dopo aver esaminato convenzioni non pubbliche, questo sistema si è rivelato “un sostanziale fallimento per il pubblico e un buon affare per il privato”. Questa situazione riflette due processi più ampi. Il primo è l’altissimo livello di penetrazione e colonizzazione della sfera pubblica da parte di interessi privati, per cui le norme dello Stato diventano espressione di questi interessi. Il secondo è la finanziarizzazione della casa che passa per una sistematica depoliticizzazione della questione abitativa, presentata come un problema tecnico, i cui “tecnicismi” nascondono in realtà la sostanza delle trasformazioni in atto. A questo si lega il ricorso crescente al welfare fiscale, ovvero a agevolazioni, detrazioni ed esenzioni fiscali che nel campo abitativo hanno effetti fortemente regressivi. L’Italia rinuncia a circa 70 miliardi di euro l’anno in agevolazioni fiscali, di cui 27 miliardi solo per le voci famiglia e casa. Queste agevolazioni, a differenza di quelle per figli a carico che sono progressive, favoriscono in modo sproporzionato i redditi medio-alti: valgono in media 450 euro per le famiglie con reddito mediano ma 2.000 euro per il 10% più ricco. Il sistema fiscale italiano sulla casa è infatti tra i più generosi e incoerenti dell’area OCSE ed è molto lontano da una concezione di equità e di diritto alla casa. I valori catastali, base dell’imposizione, sono fermi al 1989, creando enormi disparità: a Milano il canone medio è 17 volte la rendita catastale mentre in alcune aree del Mezzogiorno i valori catastali superano quelli di mercato. L'”affitto imputato”, il beneficio economico che un proprietario trae abitando la propria casa che costituisce circa il 20% del reddito familiare netto delle famiglie proprietarie, non è tassato. Questa esenzione distorce gli investimenti, incentivando il sovrainvestimento in immobili rispetto ad altre attività più produttive, e alimenta le disuguaglianze poiché la casa finisce per compensare o ampliare le disparità derivanti dal mercato del lavoro. Il trattamento fiscale favorisce inoltre le case vuote (“a disposizione”) rispetto a quelle locate perché le prime, non producendo un reddito monetario, sono tassate solo con l’Imu sulla base dei valori catastali (bassissimi) mentre le seconde sono soggette sia all’Imu che all’Irpef. Questa incoerenza è un potente incentivo a tenere le case vuote o a locare in nero. Le imposte di successione e donazione in Italia, pari allo 0,02% del Pil, sono assai inferiori alla media OCSE (0,12%), contribuendo all’aumento della concentrazione della ricchezza ereditata.
Per Sarah Gainsforth la radice della soluzione alla crisi abitativa affonda nella proposta di riforma urbanistica di Fiorentino Sullo del 1962, incentrata sul diritto di superficie, un meccanismo che, come spiegato con l’ausilio di Roberto Camagni, assegnava al settore pubblico la titolarità dell’incremento di valore dei suoli attraverso la costituzione di un demanio comunale. Sebbene oggi non ci si trovi più in una fase di espansione urbana, la via d’uscita dalla crisi rimane un forte ruolo del pubblico, finalizzato a demercificare la casa, sottraendola alla speculazione finanziaria e restituendole la sua funzione primaria di abitare. Per comprendere gli strumenti percorribili è essenziale guardare all’Europa, dove Barcellona si è posta all’avanguardia nell’invertire le politiche neoliberali. Il direttore del dipartimento Casa, Javier Burón, ha sintetizzato il principio guida: “la città di Barcellona è una città che non vende. Non vende né suolo, né edifici, né case. Ma compra suolo, edifici e case”. Questo approccio rappresenta una rottura radicale con il passato, sia spagnolo che italiano, caratterizzato da politiche che hanno promosso la proprietà e alienato la maggior parte del patrimonio residenziale pubblico. La Spagna, ad esempio, ha perso quasi tutti i 6 milioni di alloggi sociali costruiti nel secolo scorso perché erano destinati alla vendita. Oggi, con tempistiche diverse come i vent’anni dei Paesi Baschi o i cinque di Barcellona, gli alloggi sociali sono protetti “per sempre”. L’azione di Barcellona si articola in una molteplicità di misure integrate. Una di queste, promossa dall’amministrazione Colau, imponeva che nei nuovi progetti immobiliari e ristrutturazioni superiori a 600 metri quadri il 30% della superficie fosse destinato ad alloggi sociali, acquisiti dal comune anche attraverso il diritto di prelazione, una misura proposta dai movimenti sociali e analoga a quelle in vigore a Londra e Parigi. A Vienna per trasformazioni oltre i 5.000 metri quadri la quota di alloggi sociali in affitto sale addirittura al 70% mentre ad Amsterdam in nuovi sviluppi con oltre 800 alloggi solo il 20% può essere a canone libero. Purtroppo nel 2024 il nuovo sindaco socialista Jaume Collboni ha annunciato lo stop di questo obbligo, scatenando nuove proteste. A fronte di tutto ciò l’aumento del parco pubblico di alloggi sociali in affitto a Barcellona viene perseguito attraverso l’acquisizione diretta di case ed edifici privati a prezzi di mercato, una strategia costosa che ha già portato all’acquisto di 1.700 alloggi e cinque edifici. Parallelamente si è ricominciato a costruire in modo massiccio: da un patrimonio di appena 7.500 alloggi nel 2015 si è passati a 6.600 cantieri aperti a fine 2023, portando lo stock totale a circa 11.600 alloggi, con cui si copre il 17,3% degli inquilini. Un altro pilastro strategico è il ricorso al diritto di superficie. Il comune ha stabilito alleanze con cooperative senza scopo di lucro, concedendo gratuitamente il suolo pubblico per 99 anni e sovvenzionando fino al 16% dei costi di costruzione. In questo modello il costruttore guadagna dall’attività edilizia e non dalla speculazione sul suolo che rimane pubblico. Nel 2023 erano attivi 29 progetti di questo tipo per 1.050 abitazioni gestiti da cooperative “zero equity” dove nessuno è proprietario di una singola casa ma di una percentuale degli alloggi. Si sta inoltre lavorando a un Community Land Trust, un ente senza scopo di lucro che separa la proprietà del suolo da quella delle unità abitative, garantendo prezzi accessibili in perpetuo. Un modello simile in Italia, quello delle cooperative a proprietà indivisa, sta purtroppo subendo una progressiva “proprietarizzazione”. Barcellona ha anche creato un’azienda pubblico-privata per la costruzione di case, con la proprietà del suolo sempre pubblica e “non negoziabile”, e eroga sussidi per l’affitto e programmi per prevenire gli sfratti. L’intero piano decennale, costato 1,5 miliardi di euro finanziati per il 90% dal comune, dimostra un impegno strutturale. Un aspetto fondamentale dell’approccio barcellonese è il “data mastering”, ovvero la padronanza dei dati per modellare il mercato. Burón ha spiegato che chi detiene le informazioni ha il potere di dare forma al mercato. Per questo sono stati creati due osservatori, uno metropolitano e una cattedra universitaria, finanziati con 150.000 euro l’anno che hanno rivelato uno scenario di crescente concentrazione della proprietà: il 35% delle case in locazione è di proprietà di soggetti con almeno dieci immobili. Sulla base di queste evidenze il comune ha introdotto una regolamentazione degli affitti, stabilendo che i nuovi contratti non potessero superare un indicatore dei prezzi di mercato. Contro il parere del “101% degli esperti” che prevedevano un crollo dell’offerta, nelle 40 città che hanno adottato il controllo si è registrata una riduzione del 7% dei canoni, a fronte di un aumento del 4,1% dove il mercato era libero. Sebbene questa norma sia stata poi dichiarata incostituzionale e sostituita da una legge più blanda nel 2023 che consente aumenti fino al 3% e lascia scappatoie per le ristrutturazioni e gli affitti turistici, dimostra che la regolamentazione non è un tabù in Europa, come confermano il Mietpreisbremse tedesco che limita gli aumenti al 10% sopra la media o il sistema francese dei canoni di riferimento stabiliti dai prefetti. In netto contrasto, la situazione italiana, esemplificata da Milano, è di sostanziale impotenza. L’urbanista Alessandro Coppola sottolinea che l’obbligo di quote di Edilizia Residenziale Sociale scatta solo per trasformazioni oltre i 10.000 metri quadri e, soprattutto, che il 67% degli alloggi sociali realizzati tra il 2010 e il 2023 è stato venduto. Il collettivo Abitare in via Padova chiede invano di abbassare questa soglia e di seguire l’esempio di Vienna, dove la politica del “rinnovamento urbano dolce” eroga incentivi alle ristrutturazioni solo a condizione che i proprietari non alzino il canone né vendano per 15 anni, una misura che ha coinvolto 350.000 alloggi, il 40% del patrimonio totale, redistribuendo virtuosamente il valore prodotto dai bonus. Altri strumenti europei, come il diritto di prelazione e l’esproprio per immobili sfitti, sono utilizzati con successo a Parigi e nella stessa Catalogna, dove la Generalitat ha espropriato appartamenti sfitti da oltre due anni di proprietà di grandi holder. Le Agenzie per la casa, che in Italia sono state spesso dismesse, funzionano bene solo se integrate in un piano complessivo. Burón, nei suoi commenti conclusivi, ha toccato questioni di principio cruciali: le amministrazioni pubbliche hanno l’obbligo di intervenire per cambiare la struttura dell’offerta abitativa, combinando l’aumento del parco pubblico, il sostegno all’affitto e la regolamentazione del mercato privato, per evitare di usare i soldi dei contribuenti per alimentare la speculazione. Questo percorso è lungo e complesso e il rischio generazionale è che le soluzioni arrivino troppo tardi. Emergono quindi due principi cardine, l’impegno del pubblico come soggetto guida e la necessità di una varietà di misure integrate, proprio come nel piano decennale di Barcellona che prevede un terzo degli interventi a carico del pubblico, un terzo dei privati e un terzo di partenariati. In Italia, invece, i due principali ostacoli sono la privatizzazione incessante del patrimonio pubblico e la promozione ossessiva della proprietà. Mentre l’Europa smette di vendere e costruisce edilizia sociale, in Italia si continua a vendere e a cedere gratuitamente il suolo. L’assessore alla Casa di Milano, Guido Bardelli, parla di vendere l’area di San Siro e di “riequilibrare” l’edilizia residenziale pubblica anche con “parziali alienazioni”, una contraddizione in termini. La giustificazione per queste vendite è sempre il debito dei comuni. Tuttavia i dati smentiscono questa narrazione perché il debito dei comuni rappresenta solo l’1,5% del debito pubblico complessivo ed è in costante diminuzione. Il paradosso è che questo debito è in gran parte generato da mutui con Cassa Depositi e Prestiti (Cdp), un soggetto nato come pubblico ma trasformato in società per azioni che oggi applica tassi di interesse più alti di quelli di mercato, comportandosi peggio di una banca privata. L’Anci ha invano richiesto la ristrutturazione di questi debiti che costano ai comuni 900 milioni di euro l’anno solo di interessi ma lo Stato, che paga tassi all’1%, ha preferito abolire la norma per l’accollo piuttosto che sostenere gli enti locali. Il caso di Napoli è emblematico di questa trappola. Il comune possiede 24.000 alloggi, di cui 22.600 sono case popolari in condizioni pessime, con un 50% di morosità e un complesso di crediti inesatti di 254 milioni di euro. L’unica soluzione prospettata è la regolarizzazione attraverso il recupero delle morosità che spesso cela l’intenzione di vendere le case, come previsto dal Patto per Napoli che finanzia la città con 1,2 miliardi di euro in cambio di alienazioni. Una Consulta sul debito cittadina ha denunciato che il debito è amplificato proprio dai tassi di Cdp, contro i quali il comune ha fatto ricorso. Intanto lo Stato, attraverso Invimit, spinge per la “valorizzazione” (ovvero la vendita) del patrimonio pubblico, comprese le case popolari, come nel caso del fondo con 25 immobili Ater nel Lazio. Il Comune di Napoli ha già assegnato i primi 300 immobili al Fondo Napoli di Invimit e il Comune di Milano ha annunciato un accordo simile, poi annullato dopo le proteste.
Questa ossessione per la proprietà e la vendita del pubblico ha creato un’economia povera e coloniale, dove la casa è diventata un bene di lusso e la rendita immobilizza le risorse. I bonus edilizi, come il Superbonus, hanno acuito i divari senza risolvere il problema mentre il mercato immobiliare funziona ormai solo per pochi segmenti redditizi. Attendere che il mercato risolva la crisi abitativa è una scelta puramente ideologica, smentita dalle evidenze. La soluzione, invece, passa per il ritorno a politiche pubbliche che promuovano l’affitto sociale, regolino il mercato (in particolare gli affitti brevi), pongano un tetto agli aumenti, riequilibrino la fiscalità a svantaggio della rendita e interrompano la vendita del patrimonio. Pagare un affitto sociale non è “buttare soldi” ma è la chiave per la libertà e la mobilità individuale, nonché per la coesione sociale e la ripresa economica. In un paese che ha speso 170 miliardi in bonus per il privato il problema non è la mancanza di fondi ma la loro destinazione. Esistono già proposte concrete, come quelle del Social Forum per l’Abitare, per uscire dalla crisi. Tutto si può fare, a partire da pochi semplici principi: interrompere l’alienazione del patrimonio e del suolo pubblico, meno proprietà, più affitto sociale per smettere di estrarre valore dalla terra e tornare finalmente ad abitare le case.