I predatori della scuola sperduta

di Marco Guastavigna

A essere ottimisti oltre che precisi, qualcuno che ha messo sotto accusa l’espediente c’è: succede ripetutamente che una piattaforma di “intelligenza artificiale” – l’aggettivo “generativa” è andato disperso nella ricorsiva trivializzazione concettuale a cui abbiamo tristemente assistito in questi ultimi due anni – di supporto all’attività didattica ti dia un accesso free e che tu lavori (gratis) a rendere più chiare le esigenze e mirate le soluzioni proposte dall’azienda di turno. Del resto, questa è la condizione che da sempre caratterizza i test delle versioni beta di un software: non siamo di fronte a una vera e propria novità, insomma, perché reclutare collaudatori tra i lavoratori entusiasti è sempre stato facile e, almeno apparentemente, indolore.

E così sono una quantità considerevole gli insegnanti che si allenano a usare dispositivi generatori potenziali – appunto! – di slide, lezioni, mappe mentali (confuse come da tradizione pluridecennale con le concept map), unità di apprendimento, sintesi, quiz, cruciverba, testi a vario titolo adattati, prove d’esame, pianificazioni temporali, immagini, oggetti da colorare, flashcard, guide per scrivere saggi e chi più ne ha ne metta, fino a canzoni e barzellette, in una sorta di albero della cuccagna pedagogica. In questo contesto sono in vigore tre indiscussi assiomi: è garantito l’approccio innovativo, inteso ovviamente come scopo e non come dispositivo di mediazione, si risparmia tempo, si va al passo con il progresso.

Il marketing è martellante: brandelli avanguardisti di istituzioni, cultori di sloganistici anglismi, lobby di dirigenti carrieristi, le suddette piattaforme, molte case editrici – in particolare quelle simbiotiche con le pratiche scolastiche di basso profilo, che hanno la banalizzazione come asset strategico –, formatori più o meno improvvisati. Galvanizzati dagli investimenti nell’ambito del PNRR, rivolti a plasmare un’istruzione subalterna al capitalismo cibernetico, promettono tutti la medesima cosa: una guida pratica al futuro, inteso come totemizzazione delle tecnologie digitali. Ovviamente a distanza, 365, 24/24, 7/7: bonus docenti non olet!

Oltre a interviste spesso imbarazzanti e qualche volta addirittura condotte sotto l’ombrellone estivo, sulla rete del social business è possibile imbattersi in varie forme di propaganda delle iniziative di formazione e di fornitura di servizi dei grandi player internazionali e di sub-servizi delle aziende di scopo nate in scia. Tra di essi spiccano i surreali annunci di attestazioni della partecipazione a corsi di ben 2 (sic!) ore sull’AI a scuola, verificate da domande a matrice pubblicitaria, il cui obiettivo è l’addestramento a un ambiente freemium in cerca di clienti. Gli acquari professionali di questo tipo sono in genere completati da una “comunità” (abuso linguistico impunito, tipico dell’epoca attuale) dedita tra varie amenità allo scambio chiavi-in-mano delle UDA, ovvero a celebrarne la riproduzione tecnica caratterizzata da costi marginali azzerati e da serietà professionale destituita. Senza comprendere che questa modalità va nella direzione della standardizzazione alienante delle prestazioni professionali, perché riduce il contesto a ordine e tipo di scuola e l’interattività a quella con il dispositivo scelto per l’occasione. E non assegna alcun valore vero alla soggettività degli insegnanti e degli studenti e al loro insieme di relazioni, riducendo la mediazione didattica a proprietà tecnica dei materiali di apprendimento, posizione che neanche il più retrivo degli editori di libri di testo tradizionali aveva mai sostenuto.

Va detto anche che le resistenze a qualsivoglia cambiamento per amore dell’inerzia restano così diffuse – e spesso pretestuose – che non è strano che vi sia chi pensa che certe forme di “innovazione” siano virtuose. Va ricordato anche che il brodo di coltura di questi esiti sono i processi di gerarchizzazione funzionale cominciati con l’istituzione della figura del dirigente scolastico e quelli di dequalificazione del profilo professionale messi in atto in piena continuità dalla governance degli ultimi decenni, che nel caso delle tecnologie digitali si incontrano nella spudorata (oltre che sessista) graduatoria Novizio (…) Pioniere, pienamente esemplificativa di una visione assolutizzata e tecno-normativa, fondata sull’imposizione e sul controllo e ostile a qualsiasi autentica emancipazione.

Insomma, dobbiamo ammetterlo, se vogliamo combatterlo: siamo di fronte a un vero e proprio smottamento professionale. Da una parte erogatori di saperi tendenzialmente tossici, dall’altra impiegati esecutivi dell’istruzione, ai quali non interessa ideare, ma pianificare, non appartiene elaborare, ma riprodurre. Avendo per contro l’ardire di usare compiaciuti per operazioni meccaniche e ripetitive il verbo “creare” e tutte le sue possibili derivazioni. Del resto, uno dei più grotteschi corollari dei postulati efficientisti dell’uso dell’IA (generativa) nella didattica è l’hype dell’incremento della creatività, che funziona come straordinario alibi cognitivo e culturale.

A determinare la nocività di queste (presunte) competenze professionali, per altro, non è soltanto il presupposto iniziale, ovvero l’idea che il modello tecno-liberista fondato su oligopoli energivori sia l’unico possibile e auspicabile. A dequalificare le modalità di formazione e di autorialità didattica in atto non sono solo la superficialità e l’insipienza con cui sono definiti i quadri concettuali. Vi sono anche motivazioni più specifiche.

Sono appena state rilasciate le “Linee guida per l’introduzione dell’intelligenza artificiale nelle istituzioni scolastiche” del MIM, che puntano a rafforzare la competitività del sistema di istruzione nazionale mediante il suo adattamento alla realtà che cambia e a rendere gli studenti leader capaci di definire il rapporto dell’IA con la società. Per raggiungere questi obiettivi, dichiaratamente subalterni a un modello di società e di cultura che esaltano l’utilitarismo individualista, il documento presenta un florilegio di esemplificazioni generiche e banali. Lo stesso approccio, per altro, caratterizza anche la sempre più diffusa manualistica.

Nulla di strano, considerato che uno dei peggiori retaggi della fase esplorativa delle prime chatbot, oltre alla persistente riduzione di tutti i dispositivi di intelligenza artificiale generativa alle diverse versioni di ChatGPT free, è la presunta centralità del prompt engineering, a suo tempo rinforzata dalla risibile idea della didattica conversazionale, cavallo di Troia con cui alcuni accademici hanno colonizzato e accentrato il dibattito epistemologico pubblico, con l’immediata adesione di reti di scuole e istanze affini, che si sono opportunisticamente allineate. Questi rigurgiti epistemologici continuano a presentarsi e hanno dato e tuttora danno origine a pubblicazioni – le più sfacciate addirittura su carta stampata – che vengono pubblicizzate come imperdibili collezioni di “imbeccate” straordinarie, in grado di coprire l’intero spettro delle necessità e delle opportunità della didattica quotidiana.

Si tratta in realtà di veri e propri monumenti alla creduloneria: il loro target non sono solo dirigenti e docenti, ma pure i genitori, con cui si sostiene la possibilità di tracciare già in questo momento un bilancio compiuto delle esperienze, definire di conseguenza un syllabus significativo e completo e convergere su indicazioni-panacea stabilizzate. L’abilità di questi soggetti sta nello spacciare il proprio sapere e il proprio saper fare come una sorta di scaffalatura culturale e operativa completa, conoscere la quale è necessario e sufficiente.

Niente di più falso di questo vergognoso corto circuito formativo e professionale, che per altro viene incontro alla necessità e alla voglia di molti di illudersi che per recuperare il controllo della situazione bastino conoscenze e pratiche limitate. I dispositivi di intelligenza artificiale generativa si stanno infatti sempre più configurando come apparati logistici della conoscenza, ovvero come infrastruttura trasversale destinata a permeare l’insieme della comunicazione digitale in modo dinamico. E quindi le aziende sono costantemente impegnate in monitoraggio, feedback, adattamenti, assestamenti, perfezionamenti, estensioni, nuove proposte e così via, che rendono velleitario, fallace, dannoso e quindi disonesto proporre ora canoni, curricula e ogni altra sfaccettatura in termini definitivi. Chi lo fa è in cerca di lucro e di visibilità o di entrambi e sta contrabbandando per “futuro” il “passato” del “presente”.

Basta pensare alla deep research: qualcuno la vede come un potenziamento intellettuale, qualcun altro come un tradimento intellettivo. O al coding supportato dai dispositivi in modo dialogico: c’è chi lo vede come un’estensione delle opportunità di riflessione e chi come una distruzione di profili professionali. Prima di avere l’arroganza e l’ingenuità di definire e imporre framework di riferimento è necessario a mio giudizio utilizzare in prima persona i dispositivi che via via si affacciano sul mercato della conoscenza nelle proprie attività culturali, confrontando in gruppi di lavoro intellettuale sperimentale le esperienze, gli esiti, le difficoltà e così via. Solo una massiccia campagna pubblica di esplorazione dei dispositivi e di decostruzione di processi, meccanismi e background renderebbe credibili le decisioni a proposito di se e come impiegare queste risorse nella didattica. Senza dimenticare la questione dei costi delle licenze, al momento bellamente ignorato dai più.

E qui è d’obbligo coinvolgere nuovamente i tecno-feudatari dell’accademia. Avendo occupato, come già accennato, lo spazio del dibattito pubblico con iniziative di auto-investitura immediatamente tradotte in pubblicazioni, in scambio di inviti e in citazioni reciproche, hanno soffocato nella culla ciò che strumentalmente dichiarano come finalità generale, ovvero un approccio critico ai dispositivi. La caratteristica principale dei tentativi di sistematizzazione precoce attualmente sul mercato (non è una metafora, NdR) è infatti la presentazione dei punti di partenza come punti di arrivo. Il problema dell’uso etico dei dispositivi, per esempio, è considerato a carico degli utenti e viene pertanto individuato come tema per insegnamento e apprendimento, da perseguire nella nuova dimensione della media education o come pilastro delle new literacies, le forme assunte dalla scaffalatura nel contesto universitario. Del resto, nessun accademico che si rispetti potrà mai determinare attriti con le corporation digitali affermando che questioni come questa vanno risolte in modo preliminare, in termini politici, e quindi in sede di progettazione, e che quest’ultima deve essere aperta e trasparente, così come il vaglio della sostenibilità energetica e ambientale.

Non è facile indicare almeno qualche sentiero con cui tentare di uscire da questa situazione. Quello che è certo è che l’illusione di una didattica neutra, progressiva o intrinsecamente emancipatoria deve essere consapevolmente accantonata.

Questa visione non è nichilista: è necessario infatti saper e voler riconoscere la funzione adattiva e di riproduzione delle disuguaglianze e delle logiche del capitale assunta dalla forma attuale dell’istruzione sempre più a egemonia neoliberale, di cui la “questione digitale” è probabilmente – e da decenni – il fulcro.

Mi rivolgo quindi in primo luogo a coloro che impiegano le proprie energie a una discussione tutta interna all’istruzione: dobbiamo abbandonare la tentazione di conquistare uno spazio nella governance e invece riaprire il dibattito pubblico, per imporre – e imporci! – una discussione politica sulla logistica della conoscenza come risorsa dell’economia di mercato e della competizione individualistica e andare invece nella direzione del sapere come bene comune e dei dispositivi digitali come servizi universali sostenibili, aperti e mutualistici.

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