La scomparsa di internet e la possibilità di un futuro post-capitalista secondo Tiziana Terranova

  1. La cornice teorica

La genesi di internet non è stata analizzata così spesso con le lenti marxiste e per questo Tiziana Terranova in Dopo internet. Le reti digitali tra capitale e comune finisce per colmare un vuoto molto importante. Nell’introduzione al libro propone al lettore una breve storia delle reti che inizia con una riflessione sulla teoria dei grafi a cui appartiene la rete. Parlare di rete significa parlare di una formalizzazione geometrica dello spazio chiamata grafo.

“I grafi di rete implicano la proprietà fondamentale della connessione o continuità, che a sua volta diventa calcolabile o computabile”1.

La storia della rete segue quella della comunicazione umana. Dalle reti stradali giungiamo nel XIX secolo alle reti di comunicazione che operano per mezzo di segnali elettrici e/o elettromagnetici trasmessi attraverso cavi o l’aria. Nel XX secolo abbiamo il salto di qualità delle reti digitali dipendenti dall’elettricità ma fatte da “macchine logiche che usano micro-transistor per calcolare qualsiasi funzione o attività che possa essere codificata, attraverso linguaggi di programmazione, in una serie di istruzioni eseguibili o algoritmi”2.

Queste reti sono le prime ad essere strutturate come nodi ed assistiamo, grazie a nuove modalità d’uso dei computer, all’integrazione tra comunicazione e computazione. A partire dagli anni ’60 nascono il time-sharing e ARPANET ma è solo negli anni ’70 che nasce Internet che, diversamente da ARPANET, non è una rete di computer ma una rete di reti di computer. La differenza è molto importante perché non si tratta di una rete che permette ai computer di comunicare localmente ma la possibilità per diverse reti di computer di collegarsi tra di loro. Queste diverse reti di comunicazione, sostiene Terranova, tra gli anni ’80 e ’90 ospitavano diverse controculture egemonizzate dai classici maschi bianchi denominati nerd che negli USA erano guidati da una cultura liberal derivante dalla controcultura degli anni ’60 mentre in Europa erano maggiormente legati all’etica anarchica DIY e ai movimenti punk e squatter. Quest’ultimi pensavano di poter utilizzare le reti di computer per sperimentare nuove forme di autorganizzazione politica.

Tiziana Terranova

Internet inizia a morire negli anni ’90 quando viene revocato il bando al suo commerciale e il World Wide Web divenne di pubblico dominio. Questo è il periodo in cui emergono le dot.com, le prime imprese che operano su internet dotate di una nuova cultura aziendale che attingeva direttamente dalla controcultura degli anni ’60 e da alcune idee provenienti dalle università americane della Ivy League. In poche parole: “la predominanza di gerarchie informali, una cultura ludica del lavoro e un’intensa personalizzazione dei rapporti erano aspetti di queste nuove industrie che avrebbero avuto un impatto durevole sul complesso delle piattaforme”3.

Terranova spiega nel saggio New economy, finanziarizzazione e produzione sociale del web 2.0 come queste imprese fossero state capaci di assorbire alcuni elementi delle contestazioni degli anni ’60 e ’70, come il tema del rifiuto del lavoro o una maggiore voglia di libertà sul luogo di lavoro, per renderli compatibili con nuove modalità di lavoro in cui il confine tra tempo di vita e tempo di lavoro è sempre più sfumato.

Le dot.com collassarono agli inizi degli anni Duemila in quella che è nota come la prima recessione di internet che spiana la strada ad una sua maggiore commercializzazione con il superamento della produzione peer-to-peer. La crisi del 2007-2008 non ferma questo processo perché la ricchezza continua ad essere accumulata nel mercato finanziario a cui attingono aziende come Google, Amazon o Facebook che finiranno per passare dallo stato di startup in perenne perdita a quasi-monopoli capaci di innalzare enormi barriere d’ingresso al proprio mercato e ad estendersi in altri settori come l’e-commerce, lo streaming e lo sviluppo di hardware. Tutto ciò viene chiamato dall’autrice Corporate Platform Complex (CPC).

Queste imprese macinano guadagni grazie alla capacità di attrarre nelle loro piattaforme gli utenti che stabiliscano nuove relazioni sociali grazie ad esse, come nel caso dei social network, oppure mettono a valore le attività di “browsing” degli utenti, come nel caso di Google. Terranova afferma che avviene un’estrazione del plusvalore a partire da attività ormai di routine come pubblicare un post o cliccare un link.

Alla base di questi processi c’è il controllo del lavoro gratuito e non comandato degli utenti che mette ai margini il lavoro salariato. Questo lavoro gratuito viene attirato e utilizzato per produrre plusvalore canalizzandolo su “desideri diffusi di socialità, di espressione e di relazione”4. Il plusvalore viene garantito in maniera laterale a partire dai dati che noi produciamo e su cui vengono costruiti annunci pubblicitari targettizzati oppure vengono venduti ad altre società. Il plusvalore può anche nascere da un risparmio dei costi del lavoro grazie ad una forma di esternalizzazione che si scarica direttamente sugli utenti. Terranova fa l’esempio di alcune compagnie di telefonia mobile che scaricano i costi dell’assistenza tecnica sulle community di esperti che sono anche degli utenti. In cambio delle loro risposte ricevono credito e prodotti gratuiti.

Queste imprese ricalcano il modello della produzione sociale delle reti peer-to-peer piegandole agli interessi della valorizzazione del capitale. In altre parole:

“I nuovi proprietari del mondo digitale hanno sussunto Internet, cioè l’hanno trasmutata, avviluppata, incorporata, e tuttavia non necessariamente sconfitta o dissolta. In quanto entità sussunta, dunque, Internet non è tanto un morto quanto un non-morto, una fantasmatica presenza che infesta il Corporate Platform Complex con i suoi spettri di speranze e potenziali del passato”5.

Sé da un lato le imprese del CPC utilizzano i software open source per produrre valore, allo stesso tempo i movimenti utilizzano le sue infrastrutture per produrre una “contro-logistica dei riot” per sfidare il capitalismo nelle piazze ed autorganizzare in tempo reale le rivolte, come abbiamo potuto osservare a partire dal primo ciclo di rivolte globali contro l’austerità tra il 2008 e il 2014.

Queste sollevazioni sono legate alla tensione tra il potere del mercato e il comune, con le sue enormi potenzialità. L’ascesa della piattaformizzazione del capitalismo rientra a pieno titolo in questo scontro. Inizialmente viene presentato come un processo progressista che, sostiene Terranova, è in realtà una contro-rivoluzione funzionale ai processi di valorizzazione del capitale. Le piattaforme, con le loro interfacce, hanno come principale scopo quello di catturare l’attenzione degli utenti per farli rimanere il maggior tempo possibile al loro interno attraverso l’incitamento a gesti compulsivi, di immediata gratificazione o di ossessione per un costante controllo dei messaggi o dei feed. Le piattaforme hanno riorientato la competizione capitalista verso la cattura della limitata capacità di attenzione degli utenti.

Tutto ciò è stato preparato da un boom dell’utenza attiva su internet agli inizi degli anni Duemila, una fase, sostiene Terranova, che coincide con un ampio utilizzo di software non proprietari per condividere e creare contenuti o sviluppare discussioni. L’ascesa della piattaforme è una reazione a questo scenario potenzialmente favorevole ad un socialismo digitale.

Il concetto di comune, però, non riguarda tanto questo tema perché punta ad andare oltre alla contrapposizione tra proprietà pubblica e privata. Come la nozione di commons, punta ad estendere la nostra concezione di proprietà comune allargandola anche alle reti, ai dati e all’informazione. Nella formulazione operaista di Negri e Hardt, il comune include anche un’espansione della produzione capitalista al cui interno troviamo il sapere vivo e la cooperazione sociale. Con il nostro lavoro produciamo affetti, linguaggi, idee che compongono il comune assieme alle altre risorse del pianeta. Il capitalismo, nella sua attuale fase di sviluppo, sopravvive espropriandolo. Questo spiega la capacità delle piattaforme di trasformare la partecipazione degli utenti in rete in fatturato.

“In questo contesto, l’idea che le reti digitali possano diventare ‘infrastrutture per il comune’ deve necessariamente mettere in discussione la tenuta e la centralità del topos stesso della rete […]. Né il modello industriale della fabbrica né l’immaginario legato alla rete possono rappresentare o contenere le forme di cooperazione sociale che si sviluppano negli spazi digitali”6.

2. L’attenzione come risorsa scarsa

L’attenzione è un argomento centrale nelle discussioni sulla new economy ed è sviluppato in maniera parallela al ruolo dell’informazione in questo nuovo settore economico. Sé l’informazione è associata ad una merce di tipo nuovo, abbandonante e che manda in crisi i vecchi criteri dell’economia politica, l’attenzione reintroduce la scarsità perché non può essere una risorsa illimitata poiché esistono dei chiari vincoli neurofisiologici sulla nostra percezione e sociali sul tempo a nostra disposizione per il consumo. Questo cambiamento consente una normalizzazione dell’economia digitale e permette ad internet di tornare ad essere un medium economico in cui è possibile applicare gli assiomi dell’economia di mercato.

L’attenzione, essendo una risorsa scarsa, è misurabile e per questo motivo può diventare non solo una merce ma addirittura un capitale. Inoltre può essere commercializzata attraverso gli assemblaggi attenzionali dei nuovi media che ne consentono la misura, come i like e le visualizzazioni.

“La digitalizzazione e il networking, insieme allo status speciale dell’informazione come bene non rivale, non producono qui le condizioni perché emerga un nuovo modo di produzione ‘al di fuori del mercato’, ma segnalano piuttosto la circolarità dell’economia di mercato normativa: consumando l’attenzione e rendendola scarsa, la ricchezza di informazione crea una povertà che, a sua volta, produce le condizioni necessarie perché emerga un nuovo mercato; questo nuovo mercato richiede tecniche di massimizzazione dell’attenzione specifiche, tecniche di valutazione specifiche (algoritmi, analisi dei dati) e unità di misura proprie (click, like, condivisioni, visualizzazioni, follower, amici, impressioni, tag ecc.)”7.

Autori come Stiegler e Lazzarato inserisco il concetto di attenzione in uno schema teorico finalizzato al superamento della sussunzione dell’attenzione al capitale. L’attenzione non è semplicemente il modo in cui funziona il nostro cervello o una merce da mettere sul mercato. Per Lazzarato, ad esempio, è ciò che consente la cooperazione sociale e quindi la produzione di valore, “un tipo sociale di produzione immersa nella relazionalità”8. Di conseguenza “l’attenzione è il processo tramite cui la produzione di valore diventa inseparabile dalla produzione tecnologica della soggettività così come formata dentro e dal ‘comune'”9.

3. La questione degli algoritmi

Terranova pone un interrogativo molto importante nel saggio Red Stack attack! Algoritmi, capitale e automazione del comune, ovvero: gli algoritmi rimandano inevitabilmente al controllo e di conseguenza non sono compatibili con un modo di produzione alternativo al capitalismo?

Gli algoritmi per il capitale non sono che capitale fisso, quindi dei mezzi di produzione che hanno la particolarità di codificare il sapere sociale. Tuttavia, per essere funzionali all’accumulazione del capitale, devono essere convertiti in valore di scambio. Ciò avviene nei processi produttivi, non più confinati solo nella fabbrica, dove è totalmente cambiato anche il modo in cui si sviluppa l’automazione. L’automazione industriale era termodinamica e si innestava su una produzione dove sussisteva una netta divisione tra colletti bianchi, blu e lavoro riproduttivo non riconosciuto, ovvero una divisione cognitiva del lavoro. Nell’automazione digitale questo modello salata. Essa è elettro-computazionale e mette a lavoro l’anima e il cervello.

“L’automaton digitale si dispiega in reti fatte di connessioni elettroniche e nervose, e gli utenti stessi diventano dei collegamenti quasi-automatici all’interno di un flusso di informazione incessante. È in questo assemblaggio più ampio, dunque, che bisogna collocare gli algoritmi quando si parla di nuove modalità di automazione”10.

Tuttavia, anche sé appropriati dal capitale per la sussunzione del lavoro, non è detto che questo sia il rapporto sociale più adeguato per gli algoritmi. Lo stesso discorso, seguendo Marx, è applicabile per qualsiasi tecnica e tecnologia.

“Dovremmo dunque domandarci non soltanto come funzioni l’automazione algoritmica oggi (principalmente in termini di controllo, monetizzazione e alimentando l’economia del debito), ma anche che tipo di tempo ed energia sussuma, e come possa essere impiegata da diversi assemblaggi sociali e politici non ancora sussunti né soggetti alla spinta capitalista verso l’accumulazione e lo sfruttamento”11.

Per Marx i macchinari e il loro sviluppo sono espressione della forza dei poteri produttivi mai completamente controllabili da parte dell’economia capitalista. Gli investimenti dei capitalisti nell’automazione portano a ridurre il costo del lavoro ma anche alla liberazione di un surplus di tempo ed energia, cioè un’eccedenza della capacità produttiva che viene continuamente riassorbita dal capitalismo con nuove modalità di controllo e distruzione della ricchezza accumulata. Questo accade perché la tecnologia è per il capitale solo un mezzo di produzione. Quando non è costretto a farvi ricorso, come in una situazione di forte conflittualità dei lavoratori, utilizza altri mezzi. A dimostrazione di come sia debole il legame tra capitalismo e progresso tecnologico e quante potenzialità in tal senso esisterebbero con un diverso modo di produzione.

  1. Tizia Terranova, Dopo internet. Le reti digitali tra capitale e comune, Nero, Roma 2024, p.11 ↩︎
  2. Ivi, p.12 ↩︎
  3. Ivi, p.15 ↩︎
  4. Ivi, p.35 ↩︎
  5. Ivi, p.10 ↩︎
  6. Ivi, p.30 ↩︎
  7. Ivi, p.52 ↩︎
  8. Ivi, p.60 ↩︎
  9. Ivi, p.64 ↩︎
  10. Ivi, p.89 ↩︎
  11. Ivi, p.92 ↩︎

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