di Elena Agnesini
Il tentativo di questo contributo è quello di prendere in considerazione la dimensione globale del lavoro domestico in epoca post-fordista e neoliberale, con l’obiettivo di mettere in discussione l’idea secondo cui si può individuare, nei lavori di riproduzione sociale, un minimo comune denominatore dell’oppressione femminile. Una simile prospettiva, oltre a riprodurre una sorta di “naturalizzazione” del legame tra donne e sfera del domestico o della cura, concentra la sua analisi solo sulla divisione di genere del lavoro, e non prendere in considerazione altri assi di disuguaglianza legati alla globalizzazione e ai processi migratori, secondo quella che Rhacel Parreñas chiama “divisione sessuale e internazionale del lavoro domestico”. Prendendo in esame il nesso tra le politiche neoliberali legate ai sistemi di welfare e l’esternalizzazione del lavoro domestico nella cosiddetta care economy, si cercherà di mettere in luce come una nuova relazione di sfruttamento venga ad essere nei rapporti sociali tra donne: nella maggior parte dei paesi industrializzati, dietro una donna di successo che riesce a combinare carriera e vita privata, c’è molto spesso un’altra donna, probabilmente migrante o in una situazione sociale più svantaggiata, che svolge lavoro domestico e di cura al posto della prima. Le lavoratrici della care economy sono spesso sottopagate, senza contratti e il loro lavoro viene invisibilizzato e considerato di poco conto. Portare alla luce queste dinamiche di disuguaglianza e riflettere sul problema della riproduzione sociale oggi mette il femminismo contemporaneo nella condizione di guardare retrospettivamente anche ai suoi fallimenti: il prezzo da pagare perché le donne potessero entrare nel mercato del lavoro capitalista al pari degli uomini, rompendo il soffitto di cristallo, è stato quello dello sfruttamento di altre donne di una classe sociale inferiore?
Teorie della riproduzione tra ieri e oggi
Oggi, nella perfetta immagine della famiglia nucleare eterosessuale, la mamma e il papà tornano a casa dopo una intensa giornata di lavoro. Hanno dei figli, ma lei non ha rinunciato alla sua carriera per diventare madre: dopotutto non siamo più negli anni Cinquanta, nell’epoca di (ri)produzione fordista in cui le donne stanno a casa per far trovare al marito la cena pronta. In questo momento storico, alle donne è concesso avere dei sogni, voler fare carriera, realizzare sé stesse oltre il ruolo di madri e mogli. Forse, però, potremmo dire che queste cose non sono solo concesse, ma sono diventate persino delle aspettative con conseguenti pressioni sociali molto forti: il femminismo neoliberale considera emancipate quelle donne che eccellono nel mondo del lavoro, che sono empowered dalle posizioni di potere che occupano nel mercato del lavoro, e che, tuttavia, non rinunciano ad essere bravi madri, a prendersi cura dei figli, a supportare il marito, ad avere una bella casa, pulita e in ordine. Come debbano essere gestiti e divisi i compiti necessari al soddisfacimento di questi requisiti per essere una brava donna/moglie/madre/lavoratrice non è chiaro: mentre la donna/madre/moglie è a lavorare, chi dovrebbe lavare i vestiti, accudire i bambini, pulire la casa, fare la spesa, aiutare i nonni, ricordarsi i compleanni, consolare, ascoltare e aiutare?
Questi compiti sono stati da sempre assegnati alle donne, e lo sono ancora, ma da quando anch’esse sono entrate nel mercato del lavoro, sulle spalle di chi pesano i lavori di riproduzione sociale1?
Ancora oggi la tendenza più comune è considerare simili mansioni come qualcosa che le donne fanno “per natura”: è nella natura di una donna essere madre, aiutare gli anziani, essere compassionevole e prendersi cura di tutto e tutti. Ma nascosto sotto a questo velo di naturalizzazione ed essenzialismo, alcune femministe marxiste degli anni Settanta hanno visto un potenziale rivoluzionario. All’inizio del decennio, teoriche e attiviste tra cui Dalla Costa, Fortunati, Federici e James hanno portato alla luce come sia il lavoro di milioni di donne, nascosto dentro le mura domestiche, a rendere possibile la riproduzione della merce forza-lavoro che genera plusvalore; questo lavoro, naturalizzato e mistificato come lavoro d’amore, è escluso di per sé dal rapporto salariale ma indirettamente controllato attraverso il salario del capofamiglia. A queste innovative produzioni teoriche, basate su una riformulazione critica del concetto marxiano di riproduzione sociale e lavoro produttivo sulla scorta delle elaborazioni dell’operaismo italiano, si accompagnò anche un fervido movimento militante internazionale: la campagna per il salario al lavoro domestico. L’idea alla base era che, una volta riconosciuta la sfera del domestico e lo sfruttamento del lavoro delle donne come terreno invisibilizzato di accumulazione capitalista, questo poteva diventare il presupposto comune di una lotta femminista transnazionale, che intersecasse genere e classe oltre i confini dello stato-nazione. In un saggio del 1975, Contropiano dalle cucine2, Silvia Federici scriveva che la “premessa politica al salario al lavoro domestico” è rifiutare l’idea che “come donne dobbiamo passare attraverso nuove forme di sfruttamento, cioè puntare al lavoro salariato, per organizzare le nostre lotte”. La richiesta di un salario, dunque, non era una semplice rivendicazione, ma una prospettiva politica che, da un lato, avrebbe reso visibile uno sfruttamento del tutto naturalizzato, e, dall’altro, avrebbe consentito di acquisire uno strumento fondamentale sia per contrastare sia la subordinazione economica al marito, sia per iniziare a lottare, dato che il salario è stato storicamente il principale terreno di scontro tra capitale e lavoro3. Inoltre, tramite questa richiesta si articolava anche un rifiuto tra i più radicali e lungimiranti della lotta di classe femminista: quello di passare dallo sfruttamento in casa allo sfruttamento sul lavoro, dallo sfruttamento riproduttivo a quello produttivo, testimoniando la volontà di un cambiamento reale da parte di quello che Carla Lonzi, proprio in quegli anni, chiamava il soggetto imprevisto della storia.
Eppure, la campagna per il salario al lavoro domestico suscitò molte critiche. Molte femministe dell’epoca sostenevano che una simile richiesta rischiava di ratificare ancora di più la reclusione delle donne in casa, oltre che di penalizzare coloro le quali erano costrette a fare la “doppia giornata”, cioè a lavorare sia dentro che fuori casa4. Inoltre, si temeva che la richiesta di un salario avrebbe aumentato il carico di lavoro sulle spalle delle donne dentro le case e parallelamente disincentivato lo sviluppo da parte dello stato di forme di assistenza come asili o centri per anziani5. La campagna per il salario al lavoro domestico godette di un certo fervore, e fu accompagnata da alcune delle più interessanti avanguardie teoriche degli anni Settanta, ma il suo orizzonte rivoluzionario e i percorsi di liberazione femminile che proponeva non rappresentarono, in ultima istanza, la direzione presa dal femminismo occidentale.
La strategia che si adottò fu piuttosto quella che Louise Toupin, nel suo lavoro Il Salario al Lavoro Domestico, cronache di una lotta femminista internazionale (1972-1977), chiama la strategia di “conciliazione famiglia-lavoro”6: anziché pretendere una socializzazione dei lavori di riproduzione sociale tramite servizi statali orientati alle comunità, reti di sostegno mutuali, e un parallelo riconoscimento del ruolo fondamentale che essi svolgono nella società, le donne lottarono per entrare nel mercato del lavoro salariato al pari – si sperava – degli uomini. Al contempo, la responsabilità e il carico di lavoro che le donne già svolgevano in casa fu lasciato nelle loro mani, e se redistribuito, solo sulla base di negoziazioni private tra marito e moglie. Toupin, producendo quella che finora è la retrospettiva storica più completa sul movimento internazionale per il salario al lavoro domestico, si chiede se, a conti fatti, la strategia della conciliazione è stata una vincente. Del resto, avere un lavoro salariato e “produttivo” non ha mai liberato le donne dal lavoro riproduttivo, e non ha aiutato a cambiare la percezione di naturalizzazione che si ha di esso; allo stesso modo, scuole, asili e televisioni non hanno liberato tempo per le donne da dedicare a loro stesse, ma tempo per altro lavoro, per altro sfruttamento7. Oggi, questa domanda sull’efficacia della strategia di conciliazione appare ancora attuale: cercare di considerare retrospettivamente i successi e le criticità del femminismo negli ultimi cinquant’anni è un compito a cui non possiamo sottrarci, non solo per cercare di produrre un’analisi genealogica di come funziona oggi la riproduzione sociale, in un mondo globalizzato e in uno stadio del capitalismo così avanzato, ma anche per cercare di immaginare alternative possibili, le quali sembrano più che mai necessarie.
Federici, in Il punto zero della Rivoluzione8, scrive che il lavoro salariato oggi per le donne è una necessità, ma non può essere una strategia politica, in quanto le donne si troveranno sempre a confrontare il capitale in una condizione di maggiore vulnerabilità economica e sociale, e con meno potere degli uomini, fintanto che il lavoro riproduttivo sarà svalutato e considerato una questione privata e una responsabilità femminile. Questo sottolinea il potenziale rivoluzionario dell’analisi sulla riproduzione sociale e il lavoro di cura, che sta nella possibilità di sovvertire il sistema economico, ideologico e morale che confina la donna nel regno del domestico, e quest’ultimo in una posizione invisibile e naturalizzata. Allo stesso tempo, si mette in luce la più evidente criticità della strategia della conciliazione: essa non produce un rovesciamento del rapporto che subordina il lavoro riproduttivo a quello produttivo, semplicemente consente di rifiutare il primo in favore del secondo. È estremamente importante precisare che considerazioni di questo genere possono essere fatte solo tenendo presente come punto fermo che innegabilmente in passato la strategia di rifiutare il lavoro domestico è stata di estrema importanza, sia per le singole donne che hanno avuto la possibilità di uscire dalla casa e scoprirsi come persone oltre alla dimensione cui erano state confinate con la forza e la subordinazione, sia per il per il movimento femminista tout-court, che ha così potuto dimostrare quanto la riproduzione sociale fosse un aspetto fondamentale dell’esistenza e della lotta di classe e femminista. Verso la metà degli anni Settanta, infatti, emerse chiaramente che la crisi del capitalismo fordista in atto e la conseguente ristrutturazione neoliberista dell’economia mondiale non erano attribuibili unicamente alle lotte operaie, ma anche al rifiuto del lavoro domestico da parte di molte donne9. Ma il rifiuto del lavoro domestico come atto politico e di sviluppo della soggettività femminile è diverso da un rifiuto che punta unicamente all’accesso alle stesse strutture di oppressione e sfruttamento cui hanno accesso gli uomini. Il punto è, piuttosto, cambiare il segno di valore che si attribuisce alla riproduzione sociale, ai lavori domestici e di cura, sottolineando la loro assoluta centralità e importanza e cercare di immaginare futuri alternativi per la riproduzione sociale.
Neoliberismo e crisi della cura
Istituzioni come la Banca Mondiale e l’Organizzazione Internazionale del Lavoro hanno appoggiato l’ingresso delle donne nel mercato del lavoro salariato e promosso criteri per la valutazione dell’uguaglianza di genere basati sull’idea che ciò fosse la soluzione al problema della “parità di genere”, senza tuttavia considerare l’importanza sociale e il significato del lavoro non retribuito, visto come un fardello dal quale le donne dovevano essere liberate. Come già accennato, l’entrata delle donne nel mondo del lavoro non si è accompagnata ad una ristrutturazione della divisione del lavoro di cura su base collettiva e socializzata. Questo ha lasciato come unica opzione che, a partire dal modello della famiglia nucleare assunto come cellula fondamentale della società, i mariti condividessero la giornata di lavoro domestico non pagata con le donne: in alcuni casi oggi succede, ma numerose ricerche evidenziano come ancora oggi siano le donne le principali responsabili della riproduzione sociale10. La filosofa Nancy Fraser ha descritto l’attuale stato della riproduzione sociale come una crisi della cura, ovvero una situazione in cui il capitalismo finanziario distrugge sistematicamente le nostre capacità di riproduzione sociale tramite processi di estrattivismo e di drenaggio di risorse simili a quelli messi in atto nei confronti del mondo naturale11. Fraser spiega che, se il capitalismo liberale di epoca fordista si basava sulla privatizzazione dei lavori di riproduzione all’interno della famiglia secondo l’immaginario delle sfere separate e della donna come angelo del focolare, il modello finanziario neoliberista richiede che le famiglie abbiano due redditi per poter sopravvivere. Questo è dovuto sicuramente al crollo dei salari, che rende impossibile mantenere più di una persona con uno solo, ma è anche coadiuvato dal successo del femminismo che ha delegittimato la dipendenza e la subordinazione della donna al salario del marito, oltre che da ideologie e politiche femonazionaliste. Allo stesso tempo, i tagli governativi ai servizi sociali hanno ulteriormente aggravato la situazione, eliminando o riducendo al minimo il supporto statale. Questi fattori hanno creato una situazione in cui le famiglie faticano a gestire le esigenze della riproduzione sociale, risultando in quella che Fraser definisce una vera e propria crisi.
Gli equilibri familiari che si reggevano sul lavoro servile delle donne, una volta messi in crisi, hanno trovato la soluzione in forme di esternalizzazione nel settore dei servizi. Oggi vediamo come una parte dei lavori di riproduzione venga assimilata dal settore dei servizi, una – minima – parte si appoggia alle scarse infrastrutture statali come asili, doposcuola, RSA, e una parte viene assorbito dalle lavoratrici domestiche del settore privato: tate, colf, badanti. Dunque, oltre al lavoro non pagato, oggi la riproduzione sociale avviene anche tramite forme di lavoro salariato. Nelle condizioni di (ri)produzione post-fordista, la distinzione tra ciò che è dentro e ciò che è fuori dai circuiti di valorizzazione capitalista diventa sempre più sfocata: la fusione di produzione e riproduzione nei processi di lavoro è evidente nel modo in cui moltissime forme di lavori di riproduzione sono trasformate in forme di lavoro salariato nel settore dei servizi, e, parallelamente, le merci prendono il posto di beni di consumo prodotti in casa12. Questo non dimostra solo il carattere produttivo di alcuni processi di riproduzione sociale, ma anche che il lavoro produttivo è sempre più riproduttivo: contesti comunicativi, forme culturali e pratiche sociali sono integrati tanto nella circolazione e nella produzione delle merci quanto generati da essa: già nel 1996, Negri sosteneva che il lavoro produttivo non è più quello che produce direttamente capitale, ma quello che riproduce la società13, e oggi, con le nuove tecnologie digitali e algoritmiche appare ancora più evidente che la riproduzione sociale è diventata essa stessa uno spazio di accumulazione capitalistica14. Nel libro Il fungo alla fine del mondo, Anna Tsing parla di accumulo di recupero come di quel processo che consente al capitale di estrarre valore anche da sfere di produzione “pericapitaliste”, cioè su cui non esercita un controllo diretto nel momento produttivo ma da cui estrae valore tramite processi di valorizzazione alternativi, chiamati processi di traduzione di valore, similmente a ciò che Marx avrebbe chiamato sussunzione formale15. Tsing suggerisce che questo accumulo di recupero funzioni anche rispetto ai processi di riproduzione sociale che rimangono non salariati: pur non essendo direttamente controllati e razionalizzati secondo il modo di produzione capitalista, i loro frutti non di meno attraversano un processo di valorizzazione, la creazione di valore capitalista avviene anche da regimi di valore non capitalisti. Tramite circuiti di traduzione di valore e accumulo di recupero, dunque, il capitale mette a valore anche le relazioni e i processi umani cosiddetti improduttivi. Allo stesso tempo, gli ambiti della riproduzione e della cura vengono sistematicamente poste ai margini e non riconosciute tra le fonti di valore, dinamica che consente al capitale di appropriarsene senza alcun costo o di trasformarli in meccanismi di sfruttamento e lavori svalutati assegnati a gruppi marginalizzati della popolazione16.
Oltre alla complessità dei circuiti di valorizzazione della riproduzione sociale oggi, altre due tendenze – tecnologizzazione e automazione – vanno considerate per poter avere un quadro il quanto più possibile completo di come la crisi della cura venga in parte assorbita tramite meccanismi di esternalizzazione. I lavori di riproduzione, infatti, includono un insieme di pratiche e processi estremamente diversificati: se da un lato possiedono un carattere più eminentemente materiale che li rende intensi dal punto di vista fisico, dall’altro presentano aspetti di immaterialità associati alle relazioni interpersonali di cura: rassicurare, fornire un senso di sicurezza, anticipare desideri e bisogni17. Se i processi di tecnologizzazione e automazione hanno aiutato in qualche misura rispetto alla fisicità dei lavori domestici, pensiamo a quanto tempo di lavoro e fatica si risparmiano grazie agli elettrodomestici, non si può dire lo stesso per quanto riguarda il dato immateriale. L’impossibilità di automatizzare pienamente alcuni processi di riproduzione sociale li ha resi oggetto di un processo di ridistribuzione sulle spalle di altri soggetti sottoforma di lavoro salariato. In questo senso, i mestieri della care economy sembrano proliferare incredibilmente, assumendo forme sempre nuove e intime, specialmente legate alla dimensione corporea, che vengono assimilati alle logiche di mercato. Si tratta, per lo più di forme femminilizzate e spesso razializzate di lavoro, che beneficiano dell’impiego di una forza lavoro in condizioni di precarietà estrema18.
La serie di cambiamenti nella strutturazione dei processi riproduttivi che si è cercato di discutere va di pari passo e a braccetto con il femminismo neoliberale, individualizzante e concentrato sull’empowerment femminile, in quanto le politiche emancipatorie che propone sono basate su un’idea di uguaglianza formale tra i generi che non mette in discussione la dimensione di oppressione di classe e nemmeno le logiche binarie uomo-donna; il femminismo neoliberale non punta ad eliminare i rapporti di potere, ma solo a consentire alle donne di esercitarlo tanto quanto gli uomini e di avere successo all’interno di queste dinamiche. Tipicamente neoliberali sono anche le politiche di governo di smantellamento del welfare che, a partire dagli anni 90, possiamo osservare nella maggior parte dei paesi occidentali19. Una simile tendenza, unitamente al progressivo invecchiamento della popolazione dei paesi industrializzati, ha incentivato ulteriormente il fenomeno di espansione del mercato della cura e della mercificazione dei lavori riproduttivi, soprattutto per quanto riguarda l’impiego da parte di donne benestanti di collaboratrici domestiche – babysitter, colf, badanti, addette alle pulizie – che le aiutano o sostituiscono nei lavori di riproduzione sociale mentre loro lavorano. Si precisa che le considerazioni in questo senso non vogliono in nessun modo essere volte a condannare le donne che assumono collaboratrici domestiche: finché il lavoro domestico e di cura rimangono una responsabilità individuale, ogni donna non può che arrangiare al meglio delle sue possibilità la gestione quotidiana dei compiti che le sono socialmente assegnati20. Si tratta, piuttosto, di mettere in luce come il femminismo neoliberale ratifichi la divisione sessuale del lavoro generando, tuttavia, una nuova relazione di sfruttamento tra donne che Federici chiama rapporto cameriera-signora21. Come sottolinea Toupin citando la sociologa Daniele Kergoat:
“contemporaneamente alla precarietà e alla povertà di un numero crescente di donne […], stiamo assistendo a un aumento del capitale economico, culturale e sociale di una parte significativa delle donne lavoratrici. Così, per la prima volta nella storia del capitalismo, si assiste all’emergere di uno strato di donne i cui interessi (non più mediati dagli uomini: padre, marito, amante, ecc) sono in diretta opposizione agli interessi di altre donne colpite dalla generalizzazione del lavoro part time, dei lavori di servizio mal pagati e socialmente non riconosciuti e, più in generale, dalla precarietà.”22
Il rapporto cameriera-signora, dunque, è un rapporto di sfruttamento tra donne che si trovano in posizioni polarizzate e non conciliabili, la sua novità consiste nel fatto che gli interessi di una parte contrastano in modo diretto e immediato con quelli dell’altra parte. Questi interessi altro non sono che la possibilità delle donne facenti parte del gruppo “signore” di poter partecipare al mercato del lavoro salariato in una posizione privilegiata, scaricando il carico di lavoro domestico sulla “cameriera”, a sua volta salariata ma in una condizione peggiore. Questo nuovo tipo di sfruttamento è problematico anche perché ri-naturalizza i lavori di riproduzione come qualcosa che pertiene alle donne, la sua responsabilità sociale passa dalle mani di una donna a quelle di un’altra in un settore estremamente femminilizzato e razializzato, senza che venga tematizzata la richiesta di una ridistribuzione coerente o che lo stato si faccia carico dei servizi più necessari23. Inoltre, è anche rilevante sottolineare che la polarizzazione delle posizioni tra datrice di lavoro e lavoratrice è ulteriormente inasprita dal radicato sistema di pregiudizi che circonda chi lavora in questo settore: si sente spesso dire che fare la collaboratrice domestica non sia un vero lavoro, che non richieda alcuna competenza, che sia appannaggio di persone umili e senza titoli di studio e che, pertanto, dovrebbe essere pagato il meno possibile24. Risulta dunque evidente come il presunto terreno comune dell’oppressione femminile individuato nel carico di lavoro domestico e di cura non pagato, sia frammentato da forme di ulteriore oppressione e marginalizzazione che seguono altre direttive, tra cui razza, colonialità, classe, migrazione, e, non da ultimo, possesso di documenti.
Ridistribuzione della riproduzione sociale: catene globali.
La globalizzazione, intesa nel suo funzionamento come serie di processi di traduzione di valore, ha impattato anche l’ambito della riproduzione, oltre che quello della produzione. Parallelamente all’affermarsi delle Global Value Chains che parcellizzano la produzione e la distribuzione delle merci in aree agli antipodi del pianeta reiterando meccanismi di sfruttamento, si parla di Global Care Chains per indicare come molti tra i processi riproduttivi presentino una dilatazione spaziale accentuata su scala globale. Questo concetto, sviluppato nella sua forma ultima da Arlie Russell Hochschild, è fondamentale alla comprensione di come il lavoro riproduttivo venga diviso e delegato da una donna ad un’altra, svantaggiando progressivamente quelle più in basso nella gerarchia socioeconomica globale. Inoltre, come accade per le Global Value Chains, le Global Care Chains, replicano dinamiche di sfruttamento, riproducendo e aumentando le disuguaglianze nel collegamento tra i vari “anelli”, in cui le condizioni culturali e sociali, oltre che i diritti e i costi della forza-lavoro, sono estremamente eterogenei25. Il pattern di movimenti migratori legati alle Global Care Chains più evidenti risponde alla stessa dinamica centro-periferia cui fanno capo le migrazioni di manodopera “produttiva”, con uno spostamento più marcato di persone dal “Sud” al “Nord globale”, o comunque da paesi meno industrializzati verso l’Occidente, come nel caso dell’Italia in cui flussi migratori principalmente provengono dall’ex blocco sovietico dopo il crollo dell’URSS. Amania Perez Orozco sostiene che, come l’Occidente si è appropriato delle materie prime e della forza lavoro di altri popoli in processi coloniali ed estrattivisti, ora si appropria anche dei loro affetti26. Perez Orozco sottolinea, correttamente, soprattutto la dimensione immateriale ed emotiva dei lavori di cura, facendo riferimento a come chi migra molto spesso lasci nel paese d’origine affetti e relazioni, oltre che lavori di cura non pagati, ma la dinamica che descrive è generalizzabile: il peso dei lavori riproduttivi viene trasferito a livello internazionale, creando un drenaggio delle risorse di cura dai paesi meno a quelli più industrializzati. Per quanto possa risultare quasi scontato, è bene qui esplicitare che i movimenti migratori della care economy sono fenomeni estremamente femminilizzati, ovvero le lavoratrici che migrano lungo le Global Care Chains, sono quasi tutte donne. Inoltre, nei paesi di destinazione, è evidente come la forza-lavoro della care economy presenti anche forti caratteristiche di razializzazione. Evelyn Nakano-Glenn è stata una delle prime studiose a tematizzare l’intersezione tra genere, migrazione e lavori riproduttivi: studiando la crisi del mercato della cura e dei servizi assistenziali negli Stati Uniti, arriva a parlare di divisione razziale dei lavori di cura, evidenziando una continuità storica tra la servitù e i lavori di servizio legati alla riproduzione sociale lungo la linea del colore. L’impostazione teorica di Nakano-Glenn viene riformulata su scala internazionale da Rhacel Parreñas, che sottolinea come le Global Care Chains facilitino il trasferimento del lavoro riproduttivo tra tre gruppi di donne:
- Donne della classe media nei paesi di destinazione.
- Lavoratrici domestiche migranti.
- Donne nei paesi impoveriti incapaci di migrare.
Federici, sottolineando la dinamica centro-periferia, sostiene che la migrazione femminile legata alla care economy sia la soluzione coloniale al problema della famiglia e del lavoro domestico, del tutto in armonia con la nuova divisione sessuale e internazionale del lavoro27. Del resto, Federici sostiene, istituzioni come il Fondo Monetario internazionale e la Banca Mondiale hanno incentivato la migrazione dai paesi del “Sud globale” con piani di aggiustamento strutturale e politiche economiche – tagli ai servizi sociali, svalutazione della valuta, congelamento dei salari – che hanno creato povertà da un lato, e dall’altro incentivato i governi dei paesi industrializzati a rimediare alla crisi della famiglia nucleare e del lavoro domestico tramite la fornitura di forza lavoro a basso prezzo, che sostituisse lo sfruttamento gratuito delle donne precedentemente al loro ingresso nel mercato del lavoro. Oltre a questo, oggi una porzione significativa della riproduzione della forza lavoro maschile metropolitana è portata avanti da donne immigrate dal “Sud globale”28.
Questo drenaggio di forze riproduttive da una parte all’altra del globo impatta incredibilmente sui paesi di provenienza delle lavoratrici della care ecnomy. Infatti, è evidente che le lavoratrici che migrano devono a loro volta delegare le attività di cura che svolgevano a qualcun’altra, dislocando ulteriormente il cosiddetto vuoto di cura dalle famiglie più ricche a quelle progressivamente più povere. A rappresentare questo anello delle Global Care Chains sono spesso parenti troppo anziane o troppo povere per migrare a loro volta, ma in alcuni casi vengono assunte altre collaboratrici domestiche per badare ai figli o ai genitori anziani delle donne che sono partite. Inoltre, anche a livello macroeconomico non è difficile notare come in molti tra i paesi di provenienza delle lavoratrici i governi puntino strategicamente sulle Global Care Chains come piani di “sviluppo”. Molti di questi paesi, infatti, dipendono fortemente dalle rimesse che le lavoratrici mandano indietro, si tratta di paesi impoveriti e indebitati da piani di aggiustamento strutturali che hanno un immediato bisogno di valute forti, per cui incentivare le donne a migrare in regioni più benestanti diventa una strategia incentivata dai governi per porre rimedio nell’immediato a simili problemi29. Le rimesse rappresentano il secondo più grande flusso monetario internazionale, dopo quelli delle compagnie petrolifere. Secondo la Banca mondiale, nel 2017 il volume globale delle rimesse superava i 500 miliardi di dollari30; è utile fare un paragone per comprendere il tasso di crescita: negli anni Ottanta, questa cifra si aggirava intorno ai 65 miliardi di dollari31. Queste stime, inoltre, non tengono conto dei canali di invio di denaro informali che non passano attraverso le banche, e non includono le rimesse in beni materiali che i migranti portano a casa durante le loro visite32. Chiaramente non tutte queste rimesse provengono da lavoratrici della care economy, però è innegabile che queste ne costituiscano una parte importante e, soprattutto, calcolata dai governi; per avere un’idea, è utile riportare l’esempio del caso italiano, dove su 6,2 miliardi in rimesse stimati, 1,4 provengono dalle lavoratrici domestiche33.
In Italia, oggi.
A partire dallo sfondo teorico delineato, per approfondire meglio alcuni aspetti sia quantitativi che qualitativi legati al lavoro domestico e di cura oggi, si prende ora in considerazione il contesto italiano. L’Italia si affida ad un sistema di welfare familiare, cioè delega alla cellula famigliare la cura e il supporto necessari a bambini e individui dipendenti, riducendo al minimo il ruolo dello stato. Questo sistema, che relega una grande parte della riproduzione sociale ancora all’interno delle mura domestiche, combinato con un indice di invecchiamento della popolazione che cresce a una delle velocità più rapide in Europa, spiega l’elevato numero di famiglie che scelgono di impiegare collaboratrici domestiche, nello specifico, il 10% delle famiglie italiane, pari a circa 2,6 milioni di nuclei familiari34. La forza-lavoro del settore è sempre stata a maggioranza femminile, oggi le donne ne compongono l’88%. Se storicamente queste provenivano per la maggior parte dalle regioni rurali d’Italia e si muovevano verso i grandi centri abitati, tra gli anni ’70 e ’90, conseguentemente all’aumento della partecipazione delle donne alla forza-lavoro salariata e all’incremento dei flussi migratori, la percentuale di lavoratrici straniere è aumentata drasticamente: dal 5,6% nel 1972 al 71,4% nel 201835. L ‘impiego di manodopera straniera a basso costo ha consentito ulteriormente allo stato di delegare quote rilevanti di lavori di assistenza alle famiglie36, rendendo il settore sempre più dipendente dai flussi migratori. Un aspetto degno di nota è la distribuzione geografica delle lavoratrici domestiche in Italia. La maggior parte, infatti, è impiegata nelle regioni settentrionali, dove i tassi di occupazione femminile sono più alti e le reti di welfare familiari meno robuste: più donne partecipano al mercato del lavoro retribuito, più i compiti di riproduzione sociale che svolgevano gratuitamente vengono redistribuiti sulle spalle di altre donne37. Inoltre, va sottolineato come fino ad ora i dati riportati riguardino i numeri ufficiali delle lavoratrici domestiche, ma se secondo l’INPS si contano circa 860.000 lavoratrici del settore, le stime del centro di ricerca Osservatorio DOMINA suggeriscono che il numero reale che conteggia le lavoratrici irregolari, si aggiri attorno ai due milioni, ovvero più del doppio della cifra ufficiale38.
Oltre ai numeri poi, è importante anche considerare la dimensione sociale estremamente complessa e difficile che ruota attorno al lavoro domestico retribuito, il quale subisce una forte stigmatizzazione e viene quasi sempre percepito come un lavoro indesiderabile, quasi vergognoso, una mansione che non richiede nessuna competenza, malpagata, troppo umile, fatta da persone poco scolarizzate, che non potrebbero fare nient’altro, e che nella vita “non ce l’hanno fatta”. Tra le più importanti inchieste sul lavoro domestico in Italia, va sicuramente citato La serva serve, le nuove forzare del lavoro domestico, di Cristina Morini. Per quanto possa risultare datato per alcuni aspetti, per altri il libro mette in luce in un modo straordinariamente lucido alcune peculiari sfaccettature del lavoro domestico riflettendo a partire dalle testimonianze di quattro lavoratrici del settore, tutte migranti, provenienti da paesi diverse e con storie diverse; Morini, senza soffocare le voci e le emozioni complesse di chi parla, tratteggia un ritratto del mercato del lavoro domestico che è spaventosamente attuale. Abbiamo già visto che la maggior parte delle lavoratrici nel settore sono donne migranti spesso senza documenti, e pertanto costrette a lavorare senza un contratto formale; in termini concreti questo significa che le lavoratrici sono incredibilmente più vulnerabili sia per quanto riguarda le loro possibilità di vita – accesso alla sanità pubblica, firmare un contratto d’affitto, viaggiare fuori dall’Italia sono solo alcune delle innumerevoli cose che richiedono un permesso di soggiorno – sia per quanto riguarda possibili abusi sul posto di lavoro. Sembra scontato eppure è utile sottolineare che non avere un contratto significa non avere nessuna possibilità di sindacalizzazione, nessuna possibilità di negoziare la quantità di ore o la paga, oltre che l’esposizione costante alla minaccia di denuncia e deportazione. Alle lavoratrici nel mercato dei servizi domestici, infatti, è richiesta una flessibilità altissima soprattutto per quanto riguarda gli orari di lavoro, Morini sottolinea come per chi ha una paga oraria, la giornata lavorativa può essere anche di dodici o quattordici ore, mentre per le lavoratrici domestiche conviventi la sovrapposizione tra luogo di lavoro e residenza confonde incredibilmente la distinzione tra tempo lavorativo e personale, senza turni di lavoro definiti; un perfetto esempio, quest’ultimo, di come produzione e riproduzione sociale collassino l’una sull’altra. Inoltre, poiché il lavoro viene svolto all’interno delle mura domestiche, è lontano da ispezioni e supervisioni, dall’attenzione pubblica e dei media; un contesto così isolante, oltretutto, rende anche più difficile la solidarietà tra le lavoratrici39. Essendo le condizioni di lavoro difficili da investigare, le lavoratrici sono esposte non solo a carichi di lavoro eccessivi – importante non dimenticare anche il dato emotivo di un lavoro che implica la vicinanza stretta alle persone che si assistono – ma, essendo per lo più donne, sono anche altamente esposte alla violenza di genere e agli abusi sessuali40.
Numerose ricerche recenti stanno evidenziando anche un particolare fenomeno medico-sociale legato alle lavoratrici delle Global Care Chains, soprattutto tra le donne che migrano dall’ex blocco sovietico41, chiamato “Sindrome Italia”. Questo termine viene usato per la prima volta dagli psichiatri Ucraini Andriy Kiselyov e Anatoliy Faifrych per descrivere il disagio psicologico sperimentato dalle loro connazionali che una volta tornate in patria dopo aver lavorato a lungo in Italia, manifestavano una forte incidenza di sintomi come depressione, perdita di appetito, insonnia, schizofrenia, ansia, attacchi di panico, allucinazioni, ossessioni e, nei casi più gravi, tendenze suicide42. Nel 2018 è stata pubblicata un’indagine di Costanza Galanti conduce sullo stato delle lavoratrici domestiche, dal titolo Il lavoro domestico e di cura: inchiesta sul lavoro di colf, assistenti familiari e babysitter in Italia, in cui emerge come i fattori che contribuiscono all’insorgenza di questi sintomi siano legati da un lato alla natura molto impegnativa del lavoro domestico, e dall’altro alla difficoltà causate dal migrare per lavoro, che spesso implica lasciare propri affetti nel paese di origine. Per quanto riguarda il primo punto, come era già stato rilevato da Morini, la profonda stanchezza psicofisica data dalla riluttanza a prendere giorni di riposo e ore libere per massimizzare i guadagni, unitamente allo stress fisico e mentale del fornire cure in continuazione a persone non autosufficienti, appaiono condizioni di lavoro estremamente comuni. A questo, si aggiunge il dolore emotivo della separazione dalle famiglie e dalle vite che vengono lasciate alle spalle di chi è costretto a migrare. Uno degli aspetti più difficili e dolorosi appare proprio essere la consapevolezza di dover affidare i propri figli o i propri familiari anziani alle cure di altri, che causa spesso un profondo senso di colpa per aver “scelto” di lavorare all’estero per sostenere la famiglia economicamente piuttosto che prendersene cura tramite la vicinanza fisica quotidiana. Il dolore e il senso di colpa legati all’essere lontano dai propri affetti sono ulteriormente amplificati dalle aspettative sociali che circondano la maternità e le responsabilità nel lavoro di cura che vengono affidate alle donne. Alcuni studiosi hanno anche iniziato a parlare di “Sindrome Italia” in relazione agli “orfani bianchi”, ovvero i bambini rimasti nei paesi d’origine i cui genitori sono migrati. Per quanto il tema sia delicato e i dati ancora molto incerti, in Romania, dove i bambini figli di migranti costituiscono il 7% della popolazione tra 0 e 18 anni, sono stati condotti studi che sembrano mostrare tra questi varie forme di sofferenza psicologica che si manifesta in sentimenti di privazione e abbandono, casi di negligenza e abbandono scolastico, stress e sintomi depressivi come ritiro, apatia, iperattività, e aggressività. Questo disagio nasce dalla separazione prolungata dai genitori, che vedono solo una o due volte l’anno, e dalle difficoltà e dallo stigma sociale di essere cresciuti da altri, spesso nonni molto anziani. Simili dati non fanno altro che illustrare ancora più efficacemente quanto Hochschild e Parreñas hanno chiamato il fenomeno del “drenaggio di cura”, per cui lavoro di cura viene sempre più trasferito nei paesi industrializzati, causando un esaurimento delle risorse di assistenza nei paesi d’origine dei migranti, dove il lavoro non retribuito tradizionalmente assegnato alle donne viene ridistribuito a coloro che rimangono, spesso incapaci di migrare a causa dell’età o delle posizioni socioeconomiche inferiori.
Conclusioni.
Oggi, prendere in considerazione le nuove forme di organizzazione dei processi di riproduzione sociale e di cura è più importante che mai. Non solo perché si tratta di ambiti indispensabili per la continuazione stessa della vita umana sul pianeta e in cui si esplicano una serie di qualità umane legate alla relazionalità, allo sviluppo sociale e comunitario di cui è bene tenere conto, ma anche perché assumere queste dimensioni come punti focali consente di mettere in luce una serie di circostanze e cambiamenti del contemporaneo che è importante analizzare e comprendere. In primo luogo, adottando una prospettiva globale, è possibile vedere come le donne continuino a svolgere la maggior parte dei lavori di riproduzione, sia pagati che non, e come la loro riorganizzazione su base di mercato, la globalizzazione e la tecnologizzazione non abbiamo “liberato le donne” da questo “fardello”, ma anzi, non abbiano fatto altro che ratificare la naturalizzazione dei lavori di riproduzione come lavori femminili, accentuando ulteriormente dinamiche di sfruttamento e marginalizzazione. Continuare a riflettere in questa direzione è fondamentale per comprendere e combattere vecchie e nuove forme di sfruttamento lavorativo, rendendo possibile formulare nuove rivendicazioni e percorsi di lotta che tengano conto della riproduzione e della cura come ambiti essenziali; non è un caso che riflessioni in questo senso si intreccino anche alle battaglie per il reddito universale e alle lotte per il welfare. Inoltre, prendere in considerazione il funzionamento delle Global Care Chains consente di mettere a fuoco alcuni dei nuovi e molteplici meccanismi di estorsione di valore da parte del capitalismo finanziario – caratterizzati soprattutto dalla convergenza tra sfera produttiva e riproduttiva43 e dal cosiddetto biolavoro – coadiuvato da politiche neoliberali ed estrattiviste che pongono continue sfide al tempo presente. In quest’ ottica, ripensare alle forze e ai processi di riproduzione e di cura consente di adottare una prospettiva che, mettendo la vita al centro, riesce a produrre significative intuizioni anche nella direzione di una riflessione e un insieme di pratiche ecotransfemministe che possano farei i conti con la crisi ambientale e climatica.
- La scelta del plurale è volta a sottolineare le complesse sfaccettature legate al concetto di riproduzione sociale, che comprende non solo il lavoro domestico, ma anche il lavoro di cura, quello sessuale e quello di riproduzione in senso stretto. ↩︎
- Federici, Genere e Capitale, p. 17 ↩︎
- Ivi. ↩︎
- Toupin, Il salario al lavoro domestico, p. 12 ↩︎
- Ivi. ↩︎
- Ibidem, p. 13 ↩︎
- Federici, Genere e Capitale, p. 20. ↩︎
- Federici, Revolution at Point Zero. ↩︎
- Federici, Revolution at Point Zero. ↩︎
- Laura Addati et al., Care Work and Care Jobs for the Future of Decent Work, p. 53 ↩︎
- Nancy Fraser, “Capitalism’s Crisis of Care”, https://www.dissentmagazine.org/article/nancy-fraser-interview-capitalism-crisis-of-care/ ↩︎
- Weeks, Life within and against work, p. 238. ↩︎
- Weeks, The problem with work, 141. ↩︎
- Kin-d of group, Neoliberalismo e riproduzione sociale, p. 15. ↩︎
- Tsing, Il fungo alla fine del mondo, p. 101 ↩︎
- Kin-d of group, Neoliberalismo e riproduzione sociale, p. 82. ↩︎
- Federici, Revolution at Point Zero. ↩︎
- Geymonat e Marchetti, La migrazione fa bene alle donne?, p. 122. ↩︎
- Giardini, Pierallini, e Tomasello, La natura dell’economia, p. 20. ↩︎
- Federici, Revolution at Point Zero. ↩︎
- Federici, Revolution at Point Zero. ↩︎
- Toupin, Il salario al lavoro domestico, p. 14. ↩︎
- Federici, Revolution at Point Zero. ↩︎
- Federici, Revolution at Point Zero. ↩︎
- Kin-d of group, Neoliberalismo e riproduzione sociale, p. 33. ↩︎
- Giardini, Pierallini, e Tomasello, La natura dell’economia, p. 20. ↩︎
- Toupin, Il salario al lavoro domestico, p. 14. ↩︎
- Federici, Revolution at point zero. ↩︎
- Nancy Fraser, “Capitalism’s Crisis of Care”, https://www.dissentmagazine.org/article/nancy-fraser-interview-capitalism-crisis-of-care/ ↩︎
- Osservatorio DOMINA, L’impatto socioeconomico del lavoro domestico nei paesi d’origine, p. 15. ↩︎
- Federici, Revolution at point zero. ↩︎
- Osservatorio DOMINA, L’impatto socioeconomico del lavoro domestico nei paesi d’origine, p. 15. ↩︎
- Ivi. ↩︎
- Marchetti, Cherubini, e Garofalo Geymonat, Global domestic workers, p. 44. ↩︎
- Ibidem, 45. ↩︎
- Kin-d of group, Neoliberalismo e riproduzione sociale, p. 36. ↩︎
- Marchetti, Cherubini, e Garofalo Geymonat, Global domestic workers, p. 45. ↩︎
- Ivi. ↩︎
- Galanti, Il lavoro domestico e il lavoro di cura, p. 21. ↩︎
- Galanti, Il lavoro domestico e il lavoro di cura, p. 48. ↩︎
- Il fenomeno è stato riscontrato prevalentemente tra le donne dell’Est Europa probabilmente perché costituiscono il gruppo più numeroso di migranti della care economy in Italia, ovvero il 45% delle lavoratrici domestiche iscritte all INPS nel 2016, come riporta Galanti, Ivi. ↩︎
- Ivi. ↩︎
- Kin-d of group, Neoliberalismo e riproduzione sociale, p. 92. ↩︎
Bibliografia:
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Interviste:
Nancy Fraser, “Capitalism’s Crisis of Care” interviewed by Sarah Leonard for Dissent, 2016. https://www.dissentmagazine.org/article/nancy-fraser-interview-capitalism-crisis-of-care/