Attraverso il libro di Eloisa Betti Precari e precarie: una storia dell’Italia repubblicana proveremo, come secondo appuntamento del nostro approfondimento mensile sul lavoro povero, a tracciare una storia del precariato nel nostro paese a partire dal fine della Seconda guerra mondiale. Durante gli anni del boom economico italiano emerse per la prima volta nel dibattito accademico e politico italiano il concetto di lavoro precario grazie all’economista Paolo Sylos Labini. Egli superò la visione puramente quantitativa del mercato del lavoro, dominante in quel periodo, introducendo una prospettiva qualitativa che distingueva tra occupazione stabile e precaria, soprattutto nelle aree più arretrate del paese, come la Sicilia. La precarietà venne teorizzata da Sylos Labini durante un’approfondita indagine sul mercato del lavoro siciliano, dove il confine tra occupazione e disoccupazione era labile. Il concetto di lavoro precario apparve per la prima volta in un saggio del 1961 pubblicato sulla rivista Il Ponte, fondata da Piero Calamandrei, e fu ripreso in un memorandum del 1963 redatto con Giorgio Fuà per la Commissione Nazionale per la Programmazione Economica. Questo documento, diffuso tra politici, economisti e sindacalisti, propose una riflessione strutturale sulla precarietà come problema nazionale, non limitato alle sole aree depresse. Sylos Labini tradusse poi il termine in inglese (precarious employment) per un pubblico internazionale, contribuendo alla sua diffusione globale. Negli anni successivi approfondì l’analisi con una vasta ricerca sul campo in Sicilia, pubblicata in un libro nel 1966, che fornì stime quantitative dei lavoratori precari nell’isola: circa 300.000 in agricoltura, 200.000 nell’artigianato e 100.000 nei servizi. Sylos Labini legò la precarietà al sottosviluppo economico, evidenziando come il boom avesse accentuato gli squilibri sociali. In Sicilia la stagionalità del lavoro industriale e agricolo, unita alla predominanza di piccoli appezzamenti terrieri e al lavoro a giornata, rendeva il fenomeno particolarmente acuto. Nei centri urbani, invece, la precarietà si manifestava nel lavoro domestico, nel commercio ambulante e in settori come l’edilizia. La ricerca dimostrò che la precarietà aveva ripercussioni negative sulla stabilità sociale e sulla crescita culturale delle comunità, frenando lo sviluppo economico. Sylos Labini sostenne che solo un’industrializzazione diffusa avrebbe potuto trasformare i lavoratori precari in una forza lavoro stabile, migliorando le condizioni di vita e riducendo il tasso di natalità nelle aree più povere, dove la mancanza di pianificazione familiare era legata all’insicurezza economica.
Nonostante l’importanza di queste riflessioni il tema della precarietà fu largamente ignorato nel dibattito sulla programmazione economica nazionale. Il rapporto Saraceno, che delineava le linee guida per lo sviluppo italiano, non incluse le proposte di Sylos Labini e Fuà, concentrandosi invece su una visione tradizionale di piena occupazione, senza considerare le disparità di genere o la qualità del lavoro. Anche a livello internazionale, nonostante la partecipazione di Sylos Labini a una conferenza dell’ILO a Ginevra nel 1963, il concetto di precarious employment non trovò immediato seguito. Contemporaneamente il sociologo francese Pierre Bourdieu sviluppava analisi simili sul lavoro instabile in Algeria, associandolo al lumpenproletariat marxista, ma non vi fu alcun dialogo diretto tra i due studiosi. Solo negli anni ’70, in un contesto socioeconomico mutato, Sylos Labini sistematizzò ulteriormente il concetto, collegandolo alle classi sociali e ispirando nuovi studi sulla precarietà. Un altro elemento centrale per la concettualizzazione del lavoro precario in Italia viene dalla precarietà del lavoro femminile che venne ad assumere un ruolo sempre più rilevante nel dibattito politico e sindacale italiano negli anni ‘60. Già all’inizio del decennio, sindacalisti e attiviste denunciavano l’estrema instabilità dell’occupazione femminile, caratterizzata da contratti temporanei, bassi salari e assenza di prospettive di carriera. Donatella Turtura, figura di spicco della CGIL, nel 1962 sottolineava come il lavoro delle donne fosse “altamente instabile”, destinato a durare solo pochi anni prima di essere rimpiazzato da nuove forze lavoro, una condizione che impediva loro di acquisire diritti e professionalità. Questa precarietà era una conseguenza strutturale delle politiche industriali del periodo che sfruttavano la manodopera femminile come riserva flessibile e poco tutelata.
Con il declino del miracolo economico, il tema assunse un’urgenza ancora maggiore. Tra il 1963 e il 1964 circa 310.000 donne persero il lavoro, molte delle quali furono costrette a rientrare nell’economia informale, accettando lavori a domicilio o riprendendo il ruolo di casalinghe. La crisi rivelò in modo drammatico quanto fosse fragile la posizione delle donne nel mercato del lavoro, nonostante il loro massiccio ingresso nei settori produttivi durante gli anni del boom. L’Unione Donne Italiane (UDI), attraverso inchieste pubblicate su Noi Donne e conferenze nazionali, denunciò questa situazione con slogan come “A casa non si torna”, rivendicando il diritto a un’occupazione stabile e qualificata. Nel 1965 l’UDI organizzò a Milano una grande manifestazione che riunì migliaia di donne sotto lo slogan “Per il diritto delle donne al lavoro stabile e qualificato”, accompagnata da una petizione che raccolse oltre 40.000 firme e chiedeva al governo di modificare il Piano Pieraccini per includere misure specifiche a favore dell’occupazione femminile. Anche la CGIL, già nei primi anni ‘60, aveva individuato nella precarietà una questione cruciale. Durante la Conferenza Nazionale delle Lavoratrici del 1962 Vittorio Foa e Agostino Novella misero in luce come le donne fossero relegate in mansioni sottopagate, stagionali o temporanee, senza accesso a una formazione professionale adeguata. Novella introdusse esplicitamente il termine “precarietà”, contrapponendolo alla stabilità e sottolineando come il sistema capitalistico avesse fatto pagare alle donne “il prezzo più alto” nella trasformazione dell’economia italiana. La CGIL sosteneva che solo una pianificazione economica democratica avrebbe potuto garantire una vera stabilizzazione del lavoro femminile, superando la logica che lo considerava mera “forza lavoro complementare”. All’interno del Partito Comunista Italiano (PCI) le donne ebbero un ruolo fondamentale nell’elaborazione teorica del concetto di precarietà. Nilde Iotti, durante la Terza Conferenza Nazionale delle Donne Comuniste del 1962, denunciò i licenziamenti per matrimonio, il diffuso ricorso al lavoro a domicilio e la mancanza di tutele per le lavoratrici agricole. Riccardo Terzi, della Federazione Giovanile Comunista Italiana (FGCI), andò oltre, interpretando la precarietà femminile come un meccanismo funzionale al capitalismo che sfruttava la flessibilità delle donne per mantenere bassi i costi del lavoro. Le comuniste criticarono aspramente il Piano Pieraccini per la sua miopia sulle questioni di genere, sottolineando come l’obiettivo della piena occupazione fosse stato concepito solo in termini maschili, ignorando completamente le specificità del lavoro femminile. Anche la Commissione Nazionale per le Donne Lavoratrici, istituita nel 1962 presso il Ministero del Lavoro, tentò di affrontare il problema ma con risultati limitati. Composta da rappresentanti sindacali, associazioni femminili e datoriali, la Commissione ricevette numerose segnalazioni sulle condizioni delle lavoratrici più vulnerabili, come le braccianti agricole del Sud o le operaie a domicilio. Tuttavia la mancanza di un approccio organico e la frammentarietà degli interventi ne ridussero l’efficacia. Le differenze ideologiche tra le varie organizzazioni emersero chiaramente nelle risposte proposte alla precarietà. Se le donne della CGIL e del PCI vedevano nell’occupazione stabile fuori dalle mura domestiche la base per l’emancipazione femminile, le associazioni cattoliche come le ACLI e il CIF insistevano sul legame tra lavoro e famiglia, rifiutando l’idea che la liberazione delle donne passasse necessariamente attraverso il lavoro salariato. Franca Falcucci, esponente della componente femminile della DC, sosteneva che la vera stabilità per le donne risiedesse in un equilibrio tra impegno professionale e vita familiare, una posizione che rifletteva la visione tradizionale della donna come “angelo del focolare”. Nonostante queste divergenze il dibattito degli anni ‘60 segnò una tappa fondamentale nella definizione della precarietà come questione di genere. Le lavoratrici non erano più viste solo come vittime passive di un sistema ingiusto ma come soggetti politici capaci di organizzarsi e rivendicare i propri diritti. La crisi del 1963-64, pur avendo effetti devastanti sull’occupazione femminile, accelerò la presa di coscienza collettiva, trasformando la precarietà da problema individuale a battaglia sindacale e politica. Le conferenze, le petizioni e le mobilitazioni di quegli anni dimostrarono che la stabilizzazione del lavoro femminile non poteva essere disgiunta da una più ampia riforma della società che superasse le disuguaglianze strutturali del sistema economico italiano. Tutto ciò dimostra che in quel periodo la lotta contro la precarietà lavorativa stava diventando uno degli obiettivi centrali del movimento sindacale italiano. Un ampio e variegato fronte di lavoratori e lavoratrici, provenienti dai più diversi settori produttivi, dall’agricoltura al terziario, passando per l’industria manifatturiera e le professioni qualificate, cominciò a organizzarsi per denunciare le condizioni di instabilità occupazionale e rivendicare maggiore sicurezza contrattuale. Questo ampio movimento sociale portò alla formulazione di piattaforme politiche unitarie che, pur nella diversità delle specifiche rivendicazioni, convergevano attorno al concetto di “stabilità” come chiave di lettura comune per interpretare e combattere le diverse forme di precarietà. Le fonti documentarie e sindacali dell’epoca testimoniano come il problema della precarietà non fosse più solo un’astrazione teorica discussa negli ambienti politici ma una realtà concreta che varie categorie di lavoratori cominciavano a percepire con crescente consapevolezza critica. Sebbene non tutti utilizzassero esplicitamente il termine “precarità”, le loro rivendicazioni convergevano su temi come la continuità dei rapporti di lavoro, il riconoscimento delle qualifiche professionali, la durata minima dei contratti e l’accesso ai diritti previdenziali. Elementi che precedentemente venivano considerati separatamente iniziarono a essere visti come facce diverse di uno stesso problema, riuniti sotto l’etichetta comune di “stabilità”. Tra i gruppi più vulnerabili e sfruttati emergevano le lavoratrici a domicilio e i braccianti agricoli, in particolare le gelsominaie della Calabria e della Sicilia. Per queste categorie la lotta contro la precarietà si traduceva anzitutto nella richiesta di superare il sistema del cottimo, con i suoi salari incerti e spesso miseri, per ottenere invece una retribuzione oraria fissa e garantita. Le lavoratrici a domicilio, concentrate soprattutto nelle regioni centrali e settentrionali come Toscana ed Emilia-Romagna, rappresentavano uno degli esempi più emblematici di precarietà estrema. Le indagini condotte dall’UDI e dai sindacati rivelavano condizioni lavorative disumane: assenza totale di assicurazioni sociali, contratti intermittenti che spesso limitavano l’attività a soli sei mesi l’anno, ritmi di lavoro estenuanti nei periodi di punta. Nonostante le difficoltà organizzative, nel marzo 1960 oltre 1.200 lavoratrici a domicilio della pianura bolognese scesero in sciopero e manifestarono nelle piazze, chiedendo aumenti salariali e la fine delle discriminazioni e una maggiore continuità occupazionale. Parallelamente in agricoltura si assisteva al fenomeno della cosiddetta “femminilizzazione” delle campagne, causata sia dall’esodo rurale maschile verso le aree industriali urbane, sia dai processi di meccanizzazione che trasformavano il lavoro nei campi. Questa crescente presenza femminile non si traduceva in migliori condizioni contrattuali visto che la stragrande maggioranza delle braccianti agricole era impiegata con rapporti di lavoro classificati come “eccezionali” o “occasionali”, il che le escludeva di fatto dall’accesso a benefici fondamentali come l’indennità di malattia, la maternità o la disoccupazione. Le gelsominaie, costrette a raccogliere fino a 22.200 fiori al giorno per salari da fame (800-900 lire) e spesso con il coinvolgimento di manodopera minorile, rappresentavano forse l’esempio più drammatico di questo sfruttamento. Il loro “sogno”, come lo definivano i documenti sindacali dell’epoca, era quello di essere riconosciute come braccianti agricole regolari con diritto a un salario fisso giornaliero di almeno 1.540 lire e a contratti continuativi durante l’intero periodo della raccolta (minimo 90 giorni consecutivi). Le loro lotte, sostenute attivamente dalla Federbraccianti, ottennero alcune vittorie parziali come il bonus di produzione di 120 lire giornaliere conquistato dopo gli scioperi del 1962.
Nel settore industriale i lavoratori dell’industria alimentare, in particolare quelli impegnati nella produzione zuccheriera, denunciavano il fenomeno del “lavoro stagionale fittizio”, una forma mascherata di precarietà che colpiva soprattutto la manodopera femminile. I dati sindacali mostravano come nel decennio 1953-1963 si fosse verificato un crollo del 35% della manodopera stabile nel settore, accompagnato da una riduzione del 20% dei lavoratori temporanei. Secondo le analisi dell’epoca questa emorragia di forza lavoro era direttamente collegata alla mancanza di garanzie occupazionali minime che spingeva molti a cercare impieghi più stabili in altri settori. Al congresso nazionale della FILZIAT (Federazione italiana lavoratori dello zucchero, delle industrie alimentari e del tabacco) del 1963 vennero avanzate rivendicazioni precise: abolizione dei contratti a termine e del subappalto, introduzione del principio di giusta causa nei licenziamenti, definizione di una durata minima per i contratti stagionali. Anche nel settore delle costruzioni, tradizionalmente caratterizzato da forte instabilità occupazionale, si svilupparono importanti mobilitazioni. Gli operai edili, in maggioranza uomini, non potevano realisticamente aspirare alla stabilità del rapporto di lavoro data la natura intrinsecamente temporanea dei cantieri. Per questo concentrarono le loro rivendicazioni sulla creazione di meccanismi di compensazione per i periodi di inattività, avanzando la richiesta innovativa di un salario annuo garantito che doveva essere finanziato attraverso contributi obbligatori dei datori di lavoro gestiti dalle Casse Edili. La FILLEA (Federazione italiana dei lavoratori del legno, dell’edilizia, delle industrie affini ed estrattive) fece propria questa battaglia durante il suo congresso nazionale del 1963, affiancandola ad altre rivendicazioni come la riduzione dell’orario di lavoro a 40 ore settimanali a parità di salario e il miglioramento del sistema previdenziale. Sorprendentemente anche professionisti altamente qualificati come i medici ospedalieri si trovarono a combattere contro forme istituzionalizzate di precarietà. In particolare gli assistenti e gli aiuti ospedalieri, figure fondamentali nel sistema sanitario ma costrette a lavorare con contratti a termine rinnovabili solo per brevi periodi, diedero vita a un ampio movimento di protesta organizzato attraverso l’ANAAO (Associazione Nazionale Aiuti Assistenti Ospedalieri), fondata nel 1959. Le loro rivendicazioni si concentravano sull’abolizione dei contratti temporanei e sulla stabilizzazione del rapporto di lavoro fino al pensionamento a 65 anni, oltre che sul miglioramento delle retribuzioni, spesso inferiori a quelle dei primari nonostante i carichi di lavoro comparabili. Le loro battaglie, sostenute da scioperi e manifestazioni (come quella del 1961 a Milano che vide 500 medici in camice bianco sfilare per le strade), ottennero nel 1965 il primo importante risultato con l’approvazione della stabilizzazione fino ai 65 anni, anticipando la più ampia riforma ospedaliera che sarebbe arrivata nel 1968.
1. Il lavoro stabile in Italia
Nel febbraio del 1954 i deputati democristiani Alessandro Butté ed Ettore Calvi, sostenuti con forza dal presidente della Commissione Lavoro della Camera Giuseppe Rapelli, istituirono l’Inchiesta parlamentare sulle condizioni dei lavoratori in Italia che si inseriva in un dibattito più ampio sulla necessità di superare il divario tra le garanzie formali previste dalla legislazione repubblicana e le reali condizioni dei lavoratori nelle fabbriche, dove persistevano climi di paura e repressione che impedivano agli operai di denunciare violazioni e abusi. Rapelli, nel presentare il disegno di legge, sottolineò come il Parlamento non potesse limitarsi a legiferare in astratto ma dovesse invece conoscere le condizioni reali del Paese, affermando che in una Repubblica fondata sul lavoro, come sancito dalla Costituzione, era essenziale verificare se la cittadinanza lavorativa fosse effettivamente rispettata all’interno delle comunità produttive. L’inchiesta si proponeva due obiettivi principali: condurre un’indagine approfondita sulle condizioni dei lavoratori industriali e proporre misure legislative per migliorare il sistema previdenziale e garantire l’effettiva applicazione delle tutele. La proposta si collocava in continuità con precedenti iniziative, come l’Inchiesta sulla disoccupazione (1952-1954) e le indagini promosse da organizzazioni come le ACLI che nel 1953 avevano pubblicato il libro bianco La classe lavoratrice si difende, e la Società Umanitaria di Milano che nel 1954 aveva analizzato le condizioni dei lavoratori nell’impresa industriale. Nonostante il clima politico fortemente polarizzato della Guerra Fredda, l’inchiesta ricevette un ampio sostegno trasversale, approvata a larga maggioranza nel gennaio 1955 con solo 33 voti contrari su 413. Questo consenso rifletteva una convergenza inedita tra maggioranza democristiana e opposizione comunista e socialista su temi cruciali come il rispetto dei contratti collettivi, la dignità del lavoratore e la necessità di un intervento statale per regolare i rapporti di lavoro. Giuseppe Di Vittorio, segretario generale della CGIL e deputato del PCI, espresse pieno sostegno all’iniziativa, definendola un atto di alto significato sociale e umano che dimostrava l’impegno del Parlamento verso le sofferenze concrete degli operai. Di Vittorio sottolineò come l’inchiesta avrebbe contribuito a garantire i diritti fondamentali sanciti dalla Costituzione, tra cui libertà di espressione, organizzazione e stampa all’interno dei luoghi di lavoro. Anche il socialista Oreste Lizzadri, futuro vicepresidente della Commissione d’inchiesta, ribadì l’importanza di portare alla luce gli abusi subiti dai lavoratori, con particolare attenzione alle categorie più vulnerabili, come le lavoratrici donne e i lavoratori atipici. La Commissione parlamentare, presieduta dal democristiano Leopoldo Rubinacci, operò tra il 1955 e il 1958 raccogliendo una mole impressionante di testimonianze e dati, poi pubblicati in 25 volumi. Sebbene il termine precarietà non fosse ancora entrato nel lessico politico-giuridico dell’epoca, l’inchiesta mise in luce le criticità dei rapporti di lavoro atipici, identificando tre forme principali di sfruttamento:
1. Contratti a termine: utilizzati in modo fraudolento per eludere gli obblighi previsti dai contratti collettivi e dalle leggi, soprattutto nei confronti delle donne. Le aziende ricorrevano a rinnovi consecutivi di contratti brevi per evitare di assumere a tempo indeterminato, sfruttando la mancanza di tutele contro i licenziamenti arbitrari. In particolare le lavoratrici erano spesso licenziate in caso di matrimonio o gravidanza, nonostante la legge n. 860/1950 sulla tutela delle madri lavoratrici. Rubinacci denunciò questa pratica come un sistema di evasione normativa, proponendo di limitare i contratti a termine ai soli casi di lavoro stagionale, sostituzioni temporanee o picchi produttivi.
2. Subappalto e caporalato: l’inchiesta rivelò un sistema diffuso di intermediazione illecita della manodopera in cui cooperative fittizie assumevano lavoratori in condizioni di estrema precarietà, privi di tutele contrattuali e soggetti a ricatti occupazionali. Questo fenomeno, particolarmente grave nel caso dei lavoratori meridionali immigrati al Nord, creava una frattura tra manodopera stabile e precaria, indebolendo il potere sindacale.
3. Lavoro a domicilio: con 600.000-700.000 addetti, in gran parte donne, questo settore era caratterizzato da salari bassissimi, ritmi di lavoro disumani (12-14 ore al giorno) e assenza di protezioni sociali. In alcune zone, come Vicenza e Prato, interi reparti industriali venivano smantellati e trasferiti nelle case delle operaie, costrette a comprare o affittare macchinari a condizioni vessatorie.
Le raccomandazioni della Commissione portarono a riforme legislative importanti, tra cui la Legge n. 230/1962 che disciplinò i contratti a termine, limitandone l’uso ai casi eccezionali e introducendo penalità per gli abusi e la Legge n. 264/1958 che estese alcune tutele al lavoro a domicilio, sebbene senza equipararlo al lavoro dipendente, come chiedevano i deputati di sinistra. L’inchiesta fu un momento cruciale nella costruzione del modello italiano di lavoro stabile, culminato poi nello Statuto dei Lavoratori del 1970. Tuttavia rivelò anche contraddizioni profonde, come l’esistenza di un’ampia fascia di lavoratori esclusi dalle tutele, anticipando temi ancora oggi centrali nel dibattito sul lavoro precario. La legislazione sui “rapporti di lavoro particolari” introdotta durante gli anni del boom economico (1958-1963) rappresentò una svolta fondamentale nella costruzione di un sistema di tutele lavorative basato sulla stabilità occupazionale, sebbene con significative limitazioni nella sua applicazione concreta. Questo corpus normativo, emerso nel clima della cosiddetta “stagione del garantismo” o “New Deal del diritto del lavoro italiano”, ebbe come perno concettuale l’elevazione del contratto a tempo indeterminato a modello standard di rapporto di lavoro, una posizione fortemente sostenuta dalla Commissione parlamentare d’inchiesta sulle condizioni dei lavoratori in Italia. Questa visione normativa presentava un’impronta marcatamente settoriale e di genere, essendo modellata prevalentemente sulla figura del lavoratore maschio impiegato nelle grandi industrie, mentre lasciava ai margini una vasta gamma di figure lavorative, in particolare le donne, occupate in rapporti atipici nei settori manifatturiero, dei servizi e agricolo, dove proliferavano forme di lavoro temporaneo, occasionale e scarsamente regolamentato. Il primo significativo intervento in questo ambito fu la legge n. 264 del 13 marzo 1958 sulla “Tutela del lavoro a domicilio” che rappresentò il primo tentativo organico di regolamentare queste forme particolari di occupazione. La legge definiva i lavoratori a domicilio come persone di entrambi i sessi che nel proprio domicilio o in luoghi da loro gestiti svolgevano lavoro subordinato, comunque retribuito per conto di uno o più imprenditori, utilizzando materiali propri o forniti dal committente, con la possibilità di avvalersi esclusivamente dell’aiuto dei familiari. Questa definizione, tuttavia, escludeva espressamente i lavoratori che operavano in locali di proprietà del datore di lavoro e quelli iscritti all’albo degli artigiani, una limitazione che si rivelò problematica e che portò a una revisione della normativa nel 1973. Il dispositivo legislativo introduceva una serie di meccanismi di tutela: il divieto di intermediazione, l’istituzione di registri provinciali presso le direzioni del lavoro per lavoratori e committenti, la creazione di commissioni provinciali con compiti ispettivi e di vigilanza e l’istituzione di una commissione centrale di controllo presso il Ministero del Lavoro. Particolarmente innovativo era l’obbligo del libretto di lavoro, dove venivano annotate le prestazioni lavorative e le relative retribuzioni, mentre le tariffe a cottimo dovevano essere stabilite attraverso la contrattazione collettiva o, in sua assenza, dalle stesse commissioni provinciali e rese pubbliche mediante affissione negli uffici di collocamento e nelle sedi dell’Ispettorato del lavoro. Sul piano previdenziale la legge riconosceva ai lavoratori a domicilio registrati il diritto alle principali prestazioni (invalidità, pensione, maternità, malattia) ma escludeva espressamente l’assicurazione contro la disoccupazione. Le sanzioni per le violazioni prevedevano ammende giornaliere comprese tra 2.000 e 5.000 lire per ogni lavoratore coinvolto. L’iter che portò all’approvazione di questa legge fu particolarmente lungo e articolato. I primi disegni di legge sul tema erano stati presentati già nel 1950, su iniziativa di Giuseppe Di Vittorio per la componente comunista e di Giulio Pastore per quella democristiana, e poi ripresentati con lievi modifiche all’inizio della seconda legislatura (1953-1954). Entrambi i testi denunciavano la crescita abnorme del lavoro a domicilio nel dopoguerra, la mancanza di tutele previdenziali e le condizioni di sfruttamento, proponendo l’equiparazione di questi lavoratori ai dipendenti per quanto riguardava la sicurezza sociale e le tutele, in particolare per le lavoratrici madri. La definizione dei lavoratori a domicilio e dei datori di lavoro rappresentò un nodo cruciale del dibattito, così come l’istituzione delle commissioni provinciali e il sistema di registrazione. Di Vittorio, in particolare, insisteva sul ruolo degli uffici di collocamento come intermediari tra lavoratori e datori di lavoro, mentre Pastore proponeva la creazione di un fondo nazionale per la previdenza sociale e il divieto di lavoro a domicilio per i minori di 14 anni. La Commissione del Lavoro della Camera affrontò l’esame congiunto dei due disegni di legge nell’aprile 1955, istituendo una sottocommissione che riuscì a elaborare un testo unificato, approvato nel novembre 1956. Il dibattito successivo mise in luce la difficoltà di distinguere tra lavoro a domicilio di tipo tradizionale, da preservare, e forme di tipo industriale, da contrastare perché sostitutive del lavoro in fabbrica. Emersero posizioni diverse. Di Vittorio sosteneva che la legge dovesse prevenire tutte le forme di occupazione che non sono normali mentre Pastore proponeva di basarla su una diffidenza preventiva verso i datori di lavoro, inclini a eludere le norme. Preoccupazioni furono espresse da Umberto Delle Fave, sottosegretario al Lavoro, riguardo al possibile impatto negativo della legge sulle stesse lavoratrici a domicilio, spesso costrette a questo tipo di occupazione dalla povertà. Dopo quasi due anni di discussioni, il 27 marzo 1957 la Commissione approvò a larga maggioranza (43 favorevoli su 44) un testo unificato che dopo il passaggio al Senato e alcune modifiche divenne legge nel marzo 1958. L’applicazione concreta si rivelò problematica poiché molti datori di lavoro ricorsero a pressioni sui lavoratori affinché si registrassero come artigiani, aggirando così gli obblighi della legge e creando una miriade di microimprese artigiane con redditi spesso inferiori a quelli di un operaio qualificato. Già nel 1966 Pierpaolo Cipressi dell’Università di Modena segnalava come persistessero problemi concernenti la nozione di lavoratore a domicilio e difficoltà nel distinguerli dagli artigiani, evidenziando i limiti dell’applicazione della legge. Il legislatore intervenne anche sul fenomeno del subappalto di manodopera con la legge n. 1369 del 23 ottobre 1960 che vietava l’intermediazione e l’interposizione nelle prestazioni di lavoro. La norma proibiva rigorosamente il subappalto di manodopera (anche in forma cooperativistica) e vietava ai datori di lavoro (comprese le amministrazioni pubbliche e le aziende statali) di servirsi di intermediari per il pagamento a cottimo dei braccianti assoldati. I lavoratori assunti in violazione di queste disposizioni erano considerati dipendenti diretti dell’impresa committente. Per quanto riguardava l’appalto di servizi, la legge introduceva il principio della responsabilità solidale del committente per il trattamento economico e normativo dei lavoratori che non poteva essere inferiore a quello previsto per i dipendenti dell’impresa principale. Erano tuttavia esclusi da questa disciplina numerosi settori, tra cui l’edilizia, il montaggio e l’installazione di macchinari, la manutenzione in casi eccezionali, i trasporti, i servizi temporanei e saltuari, il facchinaggio e la costruzione di cabine telefoniche. L’Ispettorato del lavoro era incaricato della vigilanza, con sanzioni che prevedevano ammende di 2.000 lire per ogni lavoratore impiegato illegalmente e 1.000 lire per altre violazioni. Il percorso che portò a questa legge fu relativamente più breve rispetto a quello del lavoro a domicilio. Il primo disegno di legge sul subappalto era stato presentato nel maggio 1955 da Giulio Pastore, allora segretario della CISL, e da altri deputati democristiani, motivato dalla diffusione del “subappalto fittizio” attraverso cui le aziende eludevano l’applicazione dei contratti collettivi e della legislazione sociale. Nel giugno 1956 seguì una proposta più articolata di Di Vittorio e Lizzadri che distingueva tra subappalto a imprese che praticavano dumping salariale e cooperative o pseudo-aziende che operavano come subappaltatori a prezzi ridotti. All’inizio della terza legislatura (1958-1963) furono presentati due nuovi disegni di legge: uno di Bruno Storti ed Ettore Calvi per la DC che riprendeva le indicazioni della Commissione d’inchiesta distinguendo tra subappalto di manodopera (vietato) e subappalto di servizi (soggetto a responsabilità solidale) e uno dei deputati comunisti e socialisti Maglietta e Bettoli che proponeva un sistema di registrazione pubblica degli appalti. La discussione in Commissione industria e in Commissione giustizia e lavoro della Camera portò alla formazione di una commissione mista che elaborò un testo unificato, approvato dalla Camera nell’ottobre 1959 con 370 voti favorevoli e 38 contrari. Nel dibattito parlamentare Ettore Calvi, sottosegretario al Lavoro, sottolineò come la legge mirasse a eliminare le disparità salariali tra lavoratori che svolgevano le stesse mansioni mentre il ministro Benigno Zaccagnini ne evidenziò il potenziale impatto economico e occupazionale. Dopo il passaggio al Senato, che introdusse alcune precisazioni sulla responsabilità solidale e sull’applicazione nel settore pubblico, la legge fu approvata definitivamente nell’ottobre 1960. L’applicazione concreta si rivelò però complessa, come emerse dai dibattiti tra i giuristi negli anni successivi, con difficoltà nell’individuare le violazioni e nel far rispettare la responsabilità solidale dei committenti. Il terzo pilastro di questa stagione riformatrice fu la legge n. 230 del 18 aprile 1962 sulla Disciplina del contratto di lavoro a tempo determinato che ribadiva il principio della natura tipicamente permanente del rapporto di lavoro, ponendo a carico del datore di lavoro l’onere di dimostrare la necessità di un contratto a termine. Le ipotesi ammesse includevano lavori di carattere stagionale, artistico o tecnico particolare, necessità di sostituzione di lavoratori permanenti, attività non ordinarie, lavori occasionali o che richiedessero fasi successive affidate a lavoratori diversi. Il contratto doveva essere stipulato per iscritto, con indicazione del termine, e la proroga era consentita una sola volta per una durata non superiore a quella originaria. Se il rapporto continuava oltre il termine o se il lavoratore fosse stato riassunto entro un certo periodo, il contratto si trasformava automaticamente in indeterminato. Sul piano retributivo e previdenziale, i lavoratori a termine avevano diritto alle stesse tutele dei permanenti (gratifica natalizia, tredicesima mensilità, ferie retribuite, indennità di anzianità) in proporzione al periodo lavorato. La legge abrogava l’art. 2097 del codice civile e prevedeva sanzioni amministrative tra 5.000 e 100.000 lire per ogni lavoratore assunto irregolarmente, con competenza dell’Ispettorato del lavoro per la vigilanza. L’iter legislativo fu particolarmente lungo con i primi disegni di legge che risalivano all’aprile 1954 presentati dai deputati comunisti Ortona e Noce, dopo un’interrogazione parlamentare di Ortona nel giugno 1953 che aveva sollecitato un’indagine sull’uso massiccio dei contratti a termine nel settore industriale. La proposta prevedeva l’onere della prova a carico del datore di lavoro, l’obbligo di comunicazione all’Ispettorato, la creazione di registri pubblici e sanzioni di 1.000 lire al giorno per ogni lavoratore irregolare. Nel 1956 seguì un disegno di legge di Pastore che introduceva il principio della trasformazione automatica in contratto permanente in caso di superamento dei limiti. All’inizio della terza legislatura furono presentati due nuovi testi, uno di Storti e Calvi per la DC e uno di Brodolini e Caprara per socialisti e comunisti, entrambi ispirati alle raccomandazioni della Commissione d’inchiesta. Nel gennaio 1960 il ministro Zaccagnini e il ministro della Giustizia Gonnella presentarono un disegno di legge governativo che assorbiva molti elementi delle proposte precedenti. Dopo il lavoro di una commissione mista e il cambio di governo, nel maggio 1961 fu elaborato un testo unificato che, come sottolinearono i relatori Breganze e Zanibelli, mirava a rendere il contratto a termine un’eccezione giustificata da specifiche esigenze, nell’ottica di garantire stabilità occupazionale e condizioni di equa concorrenza. Approvato dalla Camera nel novembre 1961 con 298 voti favorevoli e 21 contrari e dal Senato nell’aprile 1962 senza modifiche, la legge entrò in vigore dopo otto anni dall’avvio del dibattito parlamentare. Come osservò Luigi Montuschi nel 1979, l’applicazione concreta rimase problematica con continui tentativi dei datori di lavoro di ampliare le eccezioni e una sostanziale tolleranza verso le violazioni mentre il regime dei licenziamenti restava complessivamente permissivo. Negli anni ‘60 la classe operaia italiana raggiunse l’apice della sua battaglia per la stabilità del lavoro. Questa svolta è ben rappresentata da due leggi in particolare. La prima, approvata nel 1963, vietava il licenziamento delle lavoratrici per causa di matrimonio mentre la seconda, del 1966, disciplinava i licenziamenti individuali, imponendo per la prima volta in Italia il principio della giusta causa. Il dibattito sulla necessità di proteggere i lavoratori dai licenziamenti ad nutum (senza giustificazione) aveva radici profonde, risalendo già agli anni ‘50, quando giuristi e sindacalisti iniziarono a interrogarsi sulla necessità di limitare il potere unilaterale dei datori di lavoro. In quel periodo migliaia di lavoratori sindacalizzati, specialmente aderenti alla CGIL, al PCI e al PSI, furono licenziati in modo discriminatorio, alimentando una forte spinta verso una soluzione legislativa che riequilibrasse i rapporti di potere. Un progetto emblematico fu lo Statuto dei lavoratori, proposto da Giuseppe Di Vittorio al Congresso Nazionale della CGIL nel 1952 e poi ripreso negli anni del governo di centro-sinistra. Questo documento, che anticipava alcuni principi poi confluiti nella legge del 1966, sosteneva che i licenziamenti non dovessero avvenire per motivi estranei alle esigenze produttive, né come rappresaglia contro l’attività sindacale o le convinzioni politiche e religiose dei lavoratori. La legge del 1966 sui licenziamenti individuali, approvata dopo un iter parlamentare durato quasi un decennio, rappresentò una vera e propria rivoluzione nel diritto del lavoro italiano. Fino ad allora il Codice Civile del 1942 permetteva al datore di lavoro di rescindere il contratto senza alcuna motivazione, un potere che la nuova normativa limitò drasticamente. La legge stabilì che il licenziamento potesse avvenire solo per giusta causa (ad esempio, gravi inadempienze del lavoratore) o giustificato motivo (esigenze organizzative dell’azienda), dichiarando espressamente nulli i licenziamenti basati su opinioni politiche, credo religioso o attività sindacale. Inoltre introdusse l’obbligo per il datore di lavoro di comunicare il licenziamento per iscritto, concedendo al lavoratore 60 giorni per impugnarlo. In caso di illegittimità il giudice poteva ordinare il reintegro oppure, in alternativa, un risarcimento economico (tra 2,5 e 6 mensilità). La legge si applicava solo alle aziende con più di 35 dipendenti, una limitazione criticata dalle sinistre, che avrebbero voluto una tutela più estesa. L’approvazione di questa legge non fu semplice. Sebbene sostenuta con forza da PCI e PSI, nonché dalla CGIL, trovò resistenze nella CISL che preferiva una regolamentazione tramite contratti collettivi piuttosto che per via legislativa. Il contesto storico favorì il cambiamento perché nel 1965 un accordo tra sindacati e Confindustria aveva già messo in discussione il principio del licenziamento ad nutum nel settore industriale mentre una sentenza della Corte Costituzionale aveva ribadito il diritto al lavoro sancito dall’articolo 4 della Costituzione. Anche a livello internazionale la Raccomandazione n. 119 dell’ILO aveva stabilito che l’appartenenza sindacale non potesse essere motivo di licenziamento. Parallelamente la legge del 1963 sul divieto di licenziamento per matrimonio affrontava una specifica forma di discriminazione di genere, vietando ai datori di lavoro sia pubblici che privati di licenziare le donne per il solo fatto di sposarsi. Questa pratica, diffusa soprattutto nel settore industriale e bancario, era spesso attuata attraverso clausole di nubilato nei contratti o addirittura con la richiesta di dimissioni in bianco al momento dell’assunzione. La legge dichiarò nulle queste clausole e stabilì che, se una lavoratrice veniva licenziata entro un anno dal matrimonio, aveva diritto al reintegro e al risarcimento dello stipendio non percepito. L’iter parlamentare di questa legge fu particolarmente lungo e complesso ed iniziò già nel 1951 con una proposta della senatrice socialista Lina Merlin, poi ripresentata più volte negli anni successivi. Le resistenze erano molteplici: alcuni sostenevano che la norma avrebbe aumentato la competizione tra uomini e donne in un mercato del lavoro già saturo mentre altri la vedevano come un’ingerenza eccessiva nella libertà d’impresa. Una vasta mobilitazione trasversale, che coinvolse non solo partiti di sinistra, ma anche associazioni femminili, la Società Umanitaria di Milano e persino settori della DC, riuscì a far approvare la legge. Un aspetto interessante emerso durante i dibattiti fu che molti sostenitori della legge, soprattutto nell’area democristiana, non la giustificavano tanto in nome dei diritti delle donne, quanto piuttosto come misura necessaria per proteggere la famiglia operaia in un’epoca di difficoltà economiche. Questo dimostra come, nonostante i progressi legislativi, permangano retaggi culturali che vedevano il lavoro femminile come complementare a quello maschile, anziché autonomo. Nel 1970 arriva finalmente l’approvazione dello Statuto dei Lavoratori. Fu un vero e proprio “terremoto” giuridico che ha radicalmente trasformato l’equilibrio dei poteri nel mondo del lavoro, rovesciando il precedente sistema basato sul principio della instabilità dei rapporti di lavoro che aveva dominato l’epoca liberale. La portata rivoluzionaria dello Statuto si concentrava in particolare nell’articolo 18 che introduceva per la prima volta il principio della reintegrazione obbligatoria del lavoratore ingiustamente licenziato, andando ben oltre la semplice risarcibilità economica prevista dalla precedente legge sui licenziamenti individuali del 1966.
L’iter che portò all’approvazione dell’articolo 18 fu particolarmente articolato e si sviluppò in un contesto storico segnato da forti tensioni sociali. Già nel giugno 1969, il ministro socialista del Lavoro Giacomo Brodolini aveva presentato un disegno di legge che conteneva in nuce il meccanismo della reintegrazione, con particolare attenzione alla tutela dei rappresentanti sindacali dalle discriminazioni. Il testo, approvato dal Senato nel dicembre dello stesso anno, venne poi esaminato dalla Camera durante il periodo dell’Autunno caldo, quando le lotte operaie raggiunsero il loro apice. Come sottolineato da studiosi come Mancini e Giugni, lo Statuto segnò la fine della concezione liberale del licenziamento ad nutum che equiparava formalmente le parti nel diritto di recedere dal contratto ma che di fatto lasciava i lavoratori privi di tutele effettive contro gli abusi padronali. L’estensione di queste garanzie non fu universale. La legge escludeva espressamente i lavoratori delle aziende con meno di 15 dipendenti, creando di fatto una categoria di “precari” che si trovavano in una posizione nettamente svantaggiata rispetto ai colleghi delle medie e grandi imprese. La Corte Costituzionale, in una importante sentenza delle Sezioni Unite del 1976, definì il lavoro stabile come quel rapporto regolato da norme che subordinano il licenziamento all’esistenza di giustificati motivi e prevedono sia il controllo giudiziale sia la reintegrazione in caso di illegittimità. Al contrario, venivano considerati precari non solo i lavoratori delle piccole imprese ma anche quelli del lavoro a domicilio, i dipendenti pubblici (in particolare nel settore scolastico e universitario) e i lavoratori in nero che proprio alla fine degli anni ’70 iniziarono a mobilitarsi per ottenere l’estensione delle tutele dello Statuto. Il legislatore intervenne anche a regolamentare il lavoro a domicilio, una forma di occupazione storicamente precaria. La nuova legge sul lavoro a domicilio, approvata nel dicembre 1973 dopo un intenso dibattito parlamentare, rappresentò un significativo passo avanti nella tutela di questa categoria di lavoratori, prevalentemente femminile. Il percorso legislativo era iniziato già nel dicembre 1969 con un disegno di legge presentato dalle deputate comuniste Luciana Sgarbi, Nilde Iotti e Nives Gessi che denunciavano le gravi carenze della precedente normativa del 1958. A loro avviso la principale criticità risiedeva nella massiccia registrazione dei lavoratori a domicilio come artigiani, spesso indotta con minacce dai datori di lavoro per eludere gli obblighi contributivi. Le stime dell’epoca parlavano di un milione/un milione e mezzo di lavoratori a domicilio, di cui solo 24.000 regolarmente iscritti all’INPS. La proposta delle deputate comuniste mirava ad aumentare i costi del lavoro a domicilio per spingere le aziende a internalizzare la produzione e ad assumere i lavoratori con contratti standard. Nel 1973 furono presentate altre tre proposte di legge: una socialista (a firma di Maria Magnani Noya), una democristiana (promossa da Tina Anselmi) e una socialdemocratica (di Antonio Cavriglia). Tutte convergevano nel voler ridefinire lo status del lavoratore a domicilio, equiparandolo a quello del lavoratore subordinato, e nell’introdurre divieti specifici, come quello di commissionare lavori a domicilio in caso di licenziamenti o sospensioni nella fabbrica. Il testo definitivo, approvato dopo un intenso dibattito in Commissione Lavoro tra ottobre e novembre 1973, estese ai lavoratori a domicilio i principali diritti previsti per i lavoratori dell’industria, comprese le prestazioni previdenziali. Come osservato da Mariucci, la legge non riuscì a invertire la tendenza alla decentralizzazione produttiva che proprio in quegli anni si stava affermando come risposta alla crisi economica. Le discussioni in Parlamento avevano messo in luce posizioni contrastanti: se da un lato le deputate di sinistra sottolineavano il legame tra la crisi dell’occupazione femminile e l’espansione del lavoro a domicilio (con 1.200.000 donne espulse dalle fabbriche secondo le stime del 1969), dall’altro esponenti democristiane come Ines Boffardi difendevano questa forma di lavoro come un’opportunità dignitosa per conciliare lavoro e famiglia. Con gli anni ‘70 abbiamo un periodo cruciale segnato dalla crisi economica, dalla ristrutturazione industriale e da profonde trasformazioni nel mercato del lavoro. La documentazione dell’epoca evidenziava la crescente rilevanza di fenomeni come il lavoro a domicilio, la decentralizzazione produttiva, il doppio lavoro e il lavoro nero che assumevano forme diverse ma erano accomunati da un elevato grado di instabilità e marginalità occupazionale. Gli anni ‘70 rappresentarono un decennio fondamentale per lo studio e la misurazione del lavoro precario, con un’attenzione particolare agli effetti della crisi sulla struttura industriale, alle dinamiche dell’occupazione femminile e al problema della sottoccupazione giovanile. Nonostante ciò, le rilevazioni statistiche ufficiali, come quelle condotte dall’ISTAT, furono inizialmente lente nel cogliere questi cambiamenti, lasciando spazio a indagini settoriali e studi specifici che cercavano di quantificare e interpretare il fenomeno in modo più accurato.
Uno dei primi e più significativi contributi all’analisi del lavoro precario fu quello di Paolo Sylos Labini. Nel suo studio sulle classi sociali in Italia del 1974 Sylos Labini associò i lavoratori precari al concetto marxista di lumpenproletariat ma precisò che non tutti i precari facevano parte del sottoproletariato. La sua definizione includeva sia lavoratori salariati con occupazioni instabili e redditi bassi sia piccoli produttori autonomi, come contadini poveri, artigiani e venditori ambulanti, appartenenti agli strati inferiori della piccola borghesia. Sylos Labini stimò che alla fine degli anni ‘60 vi fossero circa 3,7 milioni di lavoratori precari in Italia, una cifra senza pari negli altri paesi occidentali. Di questi tre quarti erano concentrati nel Mezzogiorno, nonostante questa zona ospitasse solo un terzo della popolazione nazionale, evidenziando un marcato squilibrio territoriale. La sua analisi sfidò l’immagine tradizionale di una classe operaia stabile, rivelando che circa un quarto di essa era in realtà precaria. Dal punto di vista settoriale Sylos Labini individuò la maggiore concentrazione di precari nell’industria manifatturiera (circa 2 milioni), seguita dall’agricoltura (900.000) e dal terziario (800.000), con differenze significative nelle tipologie di lavoro precario dominanti in ciascun settore. Massimo Paci invece approfondì lo studio del proletariato marginale, ovvero quei lavoratori impiegati in piccole imprese industriali e artigianali caratterizzate da alta instabilità occupazionale e salariale. A differenza di Sylos Labini Paci si concentrò principalmente sul settore industriale, sottolineando come la precarietà fosse intrinseca alla natura stessa del lavoro nelle imprese marginali, più esposte alle fluttuazioni del mercato. Paci distinse tra precarietà “manifesta”, rilevabile attraverso le statistiche esistenti, e precarietà “nascosta”, emersa solo grazie a indagini ad hoc come quella condotta dall’ISTAT nel 1971 sulle persone non considerate parte della forza lavoro. Le sue stime indicavano la presenza di circa 2,1 milioni di lavoratori marginali nel settore industriale, ai quali si aggiungevano circa 230.000 lavoratori “nascosti”, di cui 100.000 nel solo comparto industriale. Paci evidenziò inoltre come la ripresa economica dei primi anni ‘70 avesse paradossalmente favorito un’espansione del lavoro precario nel settore periferico, grazie alla crescente esternalizzazione di commesse da parte delle grandi imprese verso le piccole.
Un altro contributo fondamentale venne da Luca Meldolesi, che associò il lavoro precario al concetto marxiano di esercito industriale di riserva, includendo sia disoccupati sia lavoratori con occupazioni instabili. Meldolesi criticò la frammentarietà delle statistiche ufficiali sulla sottoccupazione che catturavano solo una parte del fenomeno e risultavano geograficamente sbilanciate verso il Nord Italia. Per ovviare a queste limitazioni elaborò nuove stime basate sui dati censuari e sulle statistiche agricole, giungendo alla conclusione che nel 1961 vi fossero oltre 5 milioni di lavoratori temporanei in Italia, pari al 25% della forza lavoro totale. Di questi 845.000 erano occupati nel terziario, 1.978.000 in agricoltura e 2.212.000 nell’industria, con tassi di precarietà particolarmente elevati nel Mezzogiorno. Meldolesi sottolineò come queste cifre fossero probabilmente sottostimate, soprattutto in agricoltura, dove non includevano i piccoli coltivatori diretti. Gli anni ‘70 videro anche un crescente interesse da parte dei sindacati e dei movimenti sociali verso il tema della precarietà in relazione ai processi di ristrutturazione industriale avviati dalle grandi imprese per ridurre i costi e recuperare margini di profitto. La decentralizzazione produttiva, con l’outsourcing verso piccole imprese e il lavoro a domicilio, divenne una strategia chiave per aumentare la flessibilità e indebolire il potere contrattuale dei lavoratori. Numerose indagini, promosse dalle federazioni sindacali come la FLM (Federazione Lavoratori Metalmeccanici), misero in luce le pessime condizioni di lavoro nelle piccole e medie imprese, caratterizzate da salari più bassi, ritmi di lavoro intensi, mancanza di sicurezza occupazionale e minore tutela sindacale. Un esempio emblematico fu lo studio condotto a Bologna nel 1975 dal sociologo Vittorio Capecchi che rivelò come la precarietà nelle piccole imprese metalmeccaniche non fosse tanto il risultato di un’arretratezza tecnologica quanto piuttosto della volontà degli imprenditori di contenere i costi del lavoro sfruttando la debolezza contrattuale dei sindacati. Particolarmente significativo fu il caso del settore tessile-abbigliamento, dove il lavoro a domicilio rappresentava una forma estrema di precarietà, dominata da un’alta percentuale di donne costrette ad accettare condizioni di lavoro discontinuo e scarsamente retribuito. Lo studio di Luigi Frey del 1975 rivelò che circa 500.000 persone, per il 90% donne, erano impegnate in questo tipo di attività, spesso non registrate nelle statistiche ufficiali. Frey sottolineò come la mancanza di controllo sulle tempistiche e sui ritmi di lavoro, unita all’assenza di garanzie contrattuali, rendesse il lavoro a domicilio una forma di sottoccupazione particolarmente precaria. Queste dinamiche furono approfondite da Maria Rosa Cutrufelli nel suo libro del 1977 Operaie senza fabbrica che analizzò il processo di marginalizzazione delle lavoratrici, sempre di più espulse dal lavoro stabile in fabbrica e costrette a ripiegare su forme di occupazione precaria e irregolare, spesso svolte in ambito domestico. Cutrufelli evidenziò come le donne sposate con figli fossero sovrarappresentate in questo tipo di lavoro, a causa delle difficoltà nel conciliare lavoro e responsabilità familiari. In questo decennio si inizia a studiare anche la precarietà del lavoro intellettuale. Betti analizza questa condizione attraverso tre prospettive fondamentali: la questione femminile, il movimento del 1977 e la situazione nel mondo accademico, rivelando come la precarietà non fosse semplicemente una condizione lavorativa temporanea ma una vera e propria categoria esistenziale che permeava diversi aspetti della società italiana del tempo. Nell’ambito della questione femminile, la precarietà si manifesta come una doppia catena che lega le lavoratrici italiane. I documenti del Coordinamento Nazionale Donne FLM, conservati nell’Archivio del lavoro di Milano, mostrano chiaramente come lo sviluppo industriale avesse cristallizzato una rigida divisione sessuale del lavoro. Le donne, costrette a farsi carico pressoché esclusivamente del lavoro domestico e di cura, si trovavano contemporaneamente relegate ai margini del mercato del lavoro, confinate in occupazioni sottopagate, temporanee e spesso non dichiarate. La crisi economica degli anni ‘70 e il processo di ristrutturazione industriale avevano ulteriormente aggravato questa situazione, trasformando la manodopera femminile in una sorta di “valvola di sicurezza” del sistema produttivo, assunta nei momenti di picco della produzione e licenziata alle prime avvisaglie di difficoltà, come evidenziato dalle ricerche di Cutrufelli del 1977 e dai documenti della Commissione femminile FIOM del 1977. Di fronte a questa situazione il movimento femminista italiano sviluppò risposte differenziate. Mentre alcune componenti privilegiavano una critica radicale al lavoro domestico nel capitalismo, altre, in particolare quelle legate al sindacalismo femminista, concentravano la loro attenzione sulla precarietà occupazionale. L’UDI intensificò negli anni ‘70 la sua battaglia per la stabilità lavorativa, organizzando manifestazioni nazionali come quella dell’11 febbraio 1976, i cui documenti sono conservati nell’Archivio Centrale UDI. In quell’occasione Margherita Repetto denunciò la progressiva “casalinghizzazione” forzata delle donne e l’espansione di un’economia sommersa che vedeva le lavoratrici come principali vittime.
Parallelamente il movimento del 1977 faceva della precarietà il tratto distintivo di un’intera generazione. Come osservava Rossana Rossanda su Il Manifesto nel marzo 1978, il “precariato” diventava sinonimo stesso del movimento. Le ricerche di Annunziata e Moscati e di Lerner, Manconi e Sinibaldi del 1978 rivelano come per molti giovani la precarietà non fosse più una condizione transitoria ma uno stato permanente che ritardava l’ingresso nella vita adulta e generava profonde ansie esistenziali. Sergio Bologna, su Lotta Continua nel marzo 1977, documentava l’uso massiccio di studenti come manodopera precaria in tutti i settori produttivi. Come emerge dalle testimonianze raccolte da Benecchi, le reazioni a questa condizione variavano sensibilmente tra Nord e Sud: se nelle regioni settentrionali alcuni gruppi arrivavano a teorizzare il rifiuto del lavoro stabile come forma di liberazione, nel Mezzogiorno i giovani continuavano a lottare per accedere a occupazioni garantite. Il mondo della scuola e dell’università rappresentava un ulteriore fronte cruciale della battaglia contro la precarietà. Già durante l’Autunno Caldo del 1969 160.000 insegnanti precari avevano minacciato di bloccare gli scrutini finali, come documentano i volantini conservati nell’Archivio nazionale federazione lavoratori della conoscenza. Negli anni successivi la crescita esponenziale della popolazione studentesca (+279% all’università secondo i dati della Conferenza Nazionale sull’Università del 1972) aveva portato a un ricorso massiccio a personale precario, assistenti volontari, borsisti, contrattisti, creando quella che sui documenti del Sindacato Scuola CGIL veniva definita una “bomba sociale a orologeria”. I sindacati confederali (CGIL, CISL, UIL) risposero con una serie di scioperi e piattaforme rivendicative che chiedevano l’assunzione di 12.000 ricercatori e l’abolizione delle forme di lavoro precario. Le risposte legislative a questa emergenza furono tuttavia lente e parziali. La legge 766 del 1973 rappresentò un primo tentativo di stabilizzazione, seguito dal decreto Pedini del 1978, che però, come evidenziato dai comunicati del Sindacato Scuola CGIL del novembre 1979, venne applicato in modo discontinuo. Solo con la riforma del 1980 si introdusse finalmente la figura del ricercatore a tempo indeterminato ma il caos delle assunzioni precedenti e la mancanza di criteri selettivi chiari avrebbero creato problemi duraturi al sistema universitario italiano.
2. L’ascesa del lavoro flessibile
Negli anni ‘80 si sviluppò un intenso dibattito internazionale sui modelli di flessibilità del lavoro che coinvolse tutti i paesi occidentali, Italia compresa, segnando una svolta epocale nelle strategie di gestione della forza lavoro, nelle politiche occupazionali e nell’organizzazione produttiva. Questo dibattito vide la flessibilità trasformarsi da semplice strumento gestionale a vero e proprio principio ordinatore delle relazioni industriali, assumendo un ruolo centrale nelle strategie aziendali e nelle politiche governative e nel diritto del lavoro. In questo contesto il contributo teorico più originale e influente fu senza dubbio quello di Charles Sabel e Michael Piore del 1984 con il concetto di specializzazione flessibile che offrì una rilettura dell’evoluzione del capitalismo industriale basata sulla compresenza di due sistemi produttivi: il tradizionale modello fordista di produzione di massa e un nuovo paradigma flessibile. Quest’ultimo veniva interpretato come caratteristica intrinseca ma precedentemente trascurata del sistema capitalistico e anche come possibile via d’uscita dalla crisi strutturale del fordismo, aprendo la strada a nuove forme di organizzazione produttiva più adatte a rispondere alla volatilità dei mercati e alla diversificazione della domanda. Nell’ambito più specifico della gestione delle risorse umane la svolta concettuale fu segnata dal modello della fabbrica flessibile elaborato da John Atkinson che rivoluzionò l’approccio tradizionale alla forza lavoro attraverso una netta segmentazione tra un nucleo centrale di lavoratori stabili, dotati di competenze specialistiche e benefici contrattuali, e una periferia composta da figure professionali assorbite attraverso forme contrattuali sempre più precarie: part-time, contratti a termine, contratti di formazione e lavoro, a cui si aggiungeva il crescente ricorso a lavoratori esterni come autonomi, subappaltatori e temporanei. Questo modello permetteva alle aziende una modulazione flessibile della forza lavoro in base alle esigenze produttive momentanee, creando quello che Atkinson definì un mercato del lavoro interno caratterizzato da diverse cerchie concentriche di lavoratori con diversi livelli di protezione e stabilità. Egli osservò come il contesto socioeconomico degli anni ‘80, caratterizzato da alti tassi di disoccupazione strutturale e da un progressivo indebolimento del potere contrattuale dei sindacati, avesse creato le condizioni ideali per l’affermazione di queste forme di flessibilità. Tuttavia, in una riflessione successiva, lo stesso Atkinson riconobbe che nella pratica l’adozione della flessibilità da parte delle imprese era stata dettata più da logiche di riduzione immediata dei costi che da una vera e propria riconfigurazione strategica dell’organizzazione aziendale, finendo per assumere caratteristiche meramente difensive piuttosto che innovative. Negli anni ‘90 il paradigma della flessibilità fu incorporato nelle teorie manageriali più radicali, come quelle proposte da Michael Hammer e James Champy nella loro rivoluzione manageriale che abbinava la flessibilità organizzativa a politiche di drastica razionalizzazione dei costi. Parallelamente l’economista Bennet Harrison mise in guardia contro gli effetti perversi di questa tendenza, dimostrando attraverso analisi empiriche come l’adozione massiccia della flessibilità da parte delle grandi corporation avesse già prodotto, all’inizio degli anni ‘90, conseguenze negative sulle condizioni di lavoro e sulla dinamica salariale, accentuando la precarizzazione e l’insicurezza occupazionale, con ricadute negative sulla coesione sociale e sulla qualità della vita lavorativa. A livello istituzionale e normativo la definizione più autorevole e influente di flessibilità del lavoro fu elaborata dall’OCSE in un rapporto tecnico del 1986 che la descrisse come la capacità degli individui e dei sistemi economici di adattarsi ai cambiamenti del mercato del lavoro, una capacità influenzata sia da fattori individuali (competenze, formazione, disponibilità personale) che da condizioni esterne di natura economica, sociale e politica. Questa definizione ampia e apparentemente neutra dal punto di vista ideologico rese il concetto di flessibilità utilizzabile da economisti e policymaker di diverso orientamento, contribuendo notevolmente alla sua affermazione nel dibattito pubblico internazionale. L’OCSE promosse attivamente la flessibilizzazione del mercato del lavoro come rimedio principe alla disoccupazione strutturale, prendendo a modello gli Stati Uniti, dove la deregolamentazione del lavoro sembrava aver prodotto risultati positivi in termini occupazionali. Nello stesso anno un gruppo di esperti guidato dal sociologo Ralf Dahrendorf avanzò critiche significative a questa impostazione, sottolineando la natura controversa e potenzialmente destabilizzante di queste politiche e la necessità di bilanciare la flessibilità con adeguate tutele per i lavoratori, auspicando un nuovo patto sociale che evitasse l’eccessiva precarizzazione e mantenesse un equilibrio tra esigenze delle imprese e diritti dei lavoratori. Le perplessità sull’efficacia della flessibilità come strumento di creazione di occupazione stabile furono confermate da studi successivi, come quello di Brodsky del 1994 che smontò pezzo per pezzo il mito del “miracolo occupazionale” statunitense, dimostrando attraverso un’analisi rigorosa dei dati empirici come la presunta ripresa occupazionale fosse in gran parte composta da lavori precari, part-time involontari e occupazione a bassa produttività che non rappresentavano una soluzione strutturale al problema della disoccupazione. Il sociologo tedesco Ulrich Beck, nel suo lavoro pionieristico sulla società del rischio fu tra i primi ad analizzare sistematicamente il fenomeno della de-standardizzazione del lavoro e l’impatto della flessibilità sulle condizioni di vita materiali e psicologiche dei lavoratori e delle lavoratrici. Beck descrisse con grande anticipo gli effetti negativi già visibili alla fine degli anni ‘80: l’aumento del sottoccupazione e del lavoro nero, l’erosione della sicurezza lavorativa, la crescita del lavoro autonomo di necessità e l’ampliarsi delle disuguaglianze nella distribuzione del reddito, nell’accesso alle garanzie sociali e nelle opportunità professionali, con conseguenze drammatiche soprattutto per i giovani, le donne e i lavoratori meno qualificati. Una critica analoga fu avanzata dall’economista britannico Guy Standing in una serie di rapporti per l’ILO in cui si interrogava radicalmente sull’efficacia delle politiche di flessibilizzazione, ponendo il dubbio metodologico se la flessibilità fosse davvero la soluzione alla disoccupazione o piuttosto una delle sue cause strutturali, in quanto contribuiva a creare un esercito di lavoratori precari senza prospettive e diritti. Posizioni simili furono espresse da studiosi come Robert Boyer ed Enrico Wolleb, rappresentanti della scuola francese della regolazione, che analizzarono la flessibilità come elemento di un più ampio cambiamento del regime di accumulazione capitalistica mentre altri studi cominciavano a collegare sistematicamente la diffusione del lavoro flessibile con l’aumento della precarietà sociale, non solo in Europa ma anche in America Latina, dove paesi usciti da recenti dittature vedevano affermarsi modelli di lavoro instabile e deregolamentato. David Harvey inserì il dibattito sulla flessibilità in una cornice teorica più ampia e ambiziosa, interpretando il modello di Atkinson come il fondamento di un nuovo regime di accumulazione post-fordista, emerso dalle ceneri della crisi del fordismo. Harvey sottolineò con forza come questo nuovo sistema, sebbene presentato come innovativo e progressista, fosse in realtà caratterizzato da elevata disoccupazione strutturale, da un continuo processo di distruzione e ricostruzione delle capacità lavorative, da salari stagnanti nonostante l’aumento della produttività e da un progressivo indebolimento del movimento sindacale, privato della sua tradizionale capacità di contrattazione collettiva. Il costo umano di questa trasformazione epocale sarebbe stato analizzato in profondità solo negli anni ‘90 da autori come Gallino e Sennet che ne esplorarono le conseguenze sociali, psicologiche ed esistenziali, descrivendo una generazione di lavoratori sempre più disorientata, priva di prospettive a lungo termine e costretta a continui riadattamenti in un mercato del lavoro sempre più volatile e insicuro. Il primo studio sistematico sulla precarietà lavorativa come fenomeno autonomo e specifico fu quello di Gerry e Janine Rodgers che nel volume Precarious Jobs in Labor Market Regulation esaminarono a tutto tondo il nesso tra la crescita esponenziale del lavoro atipico e la riemersione di forme di precarietà che sembravano appartenere a fasi precedenti dello sviluppo capitalistico. Gerry Rodgers fu anche tra i primi a proporre una definizione internazionale rigorosa di occupazione precaria, individuandone le caratteristiche distintive in termini di instabilità contrattuale, mancanza di tutele sociali, limitate prospettive di mobilità verticale e impossibilità di programmare il futuro, sia professionale che personale. Questo lavoro pionieristico ebbe il merito di portare all’attenzione della comunità internazionale un fenomeno che fino ad allora era stato considerato marginale o transitorio, dimostrando invece la sua natura strutturale e sistemica nell’ambito del nuovo capitalismo flessibile. In Italia il dibattito sulla flessibilità non era nuovo negli anni ‘80, avendo già fatto la sua comparsa nel decennio precedente, sia nelle strategie aziendali che nel confronto sindacale, in un contesto segnato dalla crisi economica e dalle prime avvisaglie della ristrutturazione industriale. Già nel 1977 il sindacalista della CGIL Bruno Trentin aveva sottolineato con grande lucidità come flessibilità e rigidità rappresentassero due visioni del mondo e del lavoro profondamente contrapposte. Gli imprenditori cercavano di recuperare margini di flessibilità nella gestione della forza lavoro per rispondere alla crisi di profittabilità mentre i sindacati difendevano con determinazione un modello rigido di organizzazione del lavoro, visto come baluardo irrinunciabile di stabilità e diritti conquistati in decenni di lotte. Questo scontro era emerso con particolare chiarezza già nel 1976, quando il cosiddetto “manifesto” degli industriali metalmeccanici italiani aveva rivendicato con forza la necessità di ridurre il costo del lavoro e aumentare la produttività, una posizione ribadita con particolare vigore da Walter Mandelli, presidente di Federmeccanica, che individuava nella flessibilità l’unica alternativa credibile allo spettro della disoccupazione di massa, prefigurando così un tema che sarebbe diventato centrale nel discorso pubblico negli anni successivi. Negli anni ‘80 il concetto di specializzazione flessibile trovò un terreno di applicazione particolarmente fertile nello studio dei distretti industriali italiani, modelli di organizzazione produttiva basati su reti di piccole e medie imprese specializzate e integrate territorialmente che sembravano incarnare perfettamente l’ideale della produzione flessibile e su misura. Fu soprattutto la flessibilità del lavoro, legata al modello della fabbrica flessibile di Atkinson, a influenzare profondamente le strategie aziendali e le politiche pubbliche nel corso del decennio. Enrico Wolleb descrisse con precisione come la riscoperta della flessibilità da parte degli imprenditori italiani avesse portato a un duplice effetto: l’aumento della disoccupazione tradizionale e la creazione di una crescente divisione tra lavoratori protetti da contratti stabili e giovani generazioni costrette in forme di lavoro sempre più precarie e instabili, con conseguenze drammatiche in termini di equità generazionale e coesione sociale. Studi successivi, come quelli di Bruni e De Luca del 1993, analizzarono in chiave comparata la correlazione tra flessibilità e disoccupazione in diversi paesi europei, tra cui l’Italia, dove la domanda di flessibilità, inizialmente avanzata in modo silenzioso e informale dalle piccole imprese del centro-nord, era diventata esplicita e generalizzata nel corso degli anni ‘80, coinvolgendo anche le grandi aziende e il settore pubblico. Come sottolineò con forza l’economista Michele Salvati, non esisteva alcuna evidenza empirica certa del legame positivo tra flessibilità e crescita occupazionale, dato che gli effetti variavano sensibilmente a seconda dei contesti nazionali e delle specifiche forme di flessibilità adottate, con risultati spesso deludenti rispetto alle attese iniziali. Francesco Garibaldo nel 1992 introdusse nel dibattito italiano il concetto di lavoro atipico, definendolo come un rapporto di lavoro privo di una o più caratteristiche standard del lavoro subordinato a tempo pieno (continuità, stabilità, protezione sociale, possibilità di carriera). Questo concetto, apparentemente tecnico, divenne in realtà centrale nel dibattito successivo, influenzando profondamente anche la riflessione giuridica, come dimostrato da una serie di saggi pubblicati su Democrazia e diritto che analizzarono minuziosamente le implicazioni legali del lavoro atipico, evidenziando come le forme contrattuali meno tutelate, contratti di formazione, apprendistato, lavoro a termine, fossero diventate sempre più diffuse, sia nel settore privato che in quello pubblico, erodendo progressivamente il nucleo di stabilità e diritti che aveva caratterizzato il periodo fordista.
Nonostante la crescente attenzione accademica e politica alla flessibilità, il concetto di “precarietà” rimase sorprendentemente marginale nel dibattito italiano del periodo, con poche ma significative eccezioni. Una di queste fu un opuscolo del 1986 pubblicato da Rinascita, rivista del PCI, che raccoglieva una discussione tra la Commissione Lavoro del partito, intellettuali e sindacalisti sulla necessità di nuove politiche in grado di contrastare efficacemente la precarizzazione del lavoro. Antonio Bassolino, allora responsabile della Commissione Lavoro, espresse con particolare preoccupazione il rischio di una precarizzazione di massa se la flessibilità fosse stata applicata in modo unilaterale, assecondando solo le esigenze di breve periodo delle imprese senza garantire adeguate contropartite in termini di diritti e sicurezza per i lavoratori. L’economista Augusto Graziani individuò nella precarietà una delle principali trasformazioni del mercato del lavoro italiano, osservando acutamente come il passaggio dagli anni ‘70 agli ‘80 non fosse stato semplicemente un trapasso dalla piena occupazione alla disoccupazione ma piuttosto un mutamento qualitativo profondo nella natura stessa delle garanzie lavorative, con l’affermarsi di un nuovo modello dominato dall’insicurezza strutturale e dalla vulnerabilità individuale. Paola Manacorda nel 1986, già autrice di importanti studi critici sull’impatto delle nuove tecnologie elettroniche sull’organizzazione del lavoro, sottolineò con particolare efficacia l’ambiguità semantica e politica del termine “flessibilità”, spesso usato eufemisticamente per mascherare situazioni di pura e semplice precarietà. La differenza tra i due concetti, secondo Manacorda, stava essenzialmente nel grado di autonomia e nelle reali possibilità di scelta del lavoratore: la flessibilità autentica implicava la libertà di decidere quando e come lavorare, combinando vita professionale e personale in modo soddisfacente; la precarietà, al contrario, significava accettare passivamente le uniche condizioni offerte dal mercato, senza alternative né prospettive, in un contesto di crescente vulnerabilità sociale ed esistenziale.
I governi guidati da Bettino Craxi tra il 1983 e il 1987, con il ministro del Lavoro Gianni De Michelis, furono i principali artefici di una riforma radicale del mercato del lavoro italiano. Il nuovo approccio, ispirato ai modelli statunitense e giapponese e alle teorie economiche emergenti, mirava a sostituire il concetto tradizionale di “posto fisso” con forme di “imprenditorialità diffusa”, adeguando il sistema produttivo alle trasformazioni tecnologiche in atto e alla crescente domanda di adattabilità da parte delle imprese. Il contesto economico dell’epoca, segnato da una grave crisi con inflazione al 20% nel 1981 e contrazione del PIL, rendeva urgente un ripensamento delle politiche occupazionali. Il processo di ristrutturazione industriale, iniziato negli anni ‘70 e accelerato dall’introduzione delle tecnologie microelettroniche tra il 1980 e il 1985, aveva provocato massicci licenziamenti nel settore manifatturiero e creato un terreno fertile per l’adozione di nuove forme di flessibilità. Il Partito Socialista Italiano assunse un ruolo guida nel promuovere la modernizzazione del mercato del lavoro, sostenendo che solo attraverso maggiore flessibilità si potesse combattere efficacemente la disoccupazione, particolarmente acuta tra i giovani, dove i tassi erano passati dal 7,7% nel 1970 al 18,9% nel 1980, per raggiungere picchi del 25% nel decennio successivo. Il percorso verso la flessibilizzazione trovò la sua prima concretizzazione nell’accordo Lodo-Scotti del 22 gennaio 1983, storico patto tripartito tra governo, sindacati e imprenditori che segnò una netta discontinuità con le politiche del passato. Questo accordo, nato in un clima di grave emergenza economica, affrontava temi cruciali come la riforma della scala mobile (con una riduzione del 15% della contingenza), l’introduzione di contratti flessibili per i giovani, la mobilità tra aziende e i lavori socialmente utili. Fu con l’accordo di San Valentino del 1984 e la successiva legge n. 863 (Misure urgenti a sostegno e ad incremento dei livelli occupazionali) che la flessibilità divenne il perno della nuova politica del lavoro, introducendo strumenti innovativi come i contratti di formazione e lavoro, i contratti part-time e i contratti di solidarietà. L’iter legislativo della legge n. 863 fu particolarmente travagliato, con quattro decreti-legge necessari a superare le difficoltà procedurali e un acceso dibattito parlamentare che vide la maggioranza pentapartito divisa al suo interno. L’approvazione finale, avvenuta a dicembre 1984 con 228 voti favorevoli contro 193 alla Camera e dopo aspre discussioni al Senato, rivelò comunque una sostanziale convergenza tra maggioranza e opposizione (ad eccezione del PCI e di Democrazia Proletaria) sulla necessità di introdurre maggiore flessibilità per favorire l’ingresso dei giovani nel mercato del lavoro. Le critiche principali, avanzate soprattutto dai comunisti, riguardavano il rischio di una deregolamentazione selvaggia e l’indebolimento del sistema pubblico di collocamento, temi che sarebbero diventati centrali nel dibattito successivo. La legge n. 863 rappresentò una svolta significativa, introducendo tre principali strumenti di flessibilità: i contratti di formazione e lavoro (riservati ai giovani 15-29 anni, della durata massima di 24 mesi), i contratti part-time (regolamentati per la prima volta in Italia, con distinzione tra part-time orizzontale e verticale) e i contratti di solidarietà (volti a evitare licenziamenti attraverso riduzioni d’orario). Sebbene questi strumenti fossero ancora fortemente regolamentati rispetto alle riforme successive, segnarono l’inizio di un processo che avrebbe radicalmente trasformato il mercato del lavoro italiano. Particolarmente significativo fu il successo dei contratti di formazione e lavoro, utilizzati da circa 2,5 milioni di giovani entro la fine del decennio, mentre più limitato risultò l’impiego dei contratti di solidarietà (circa 21.000 lavoratori coinvolti tra il 1986 e il 1990). Il percorso di flessibilizzazione proseguì con la legge n. 56 del 1987 (Norme sull’organizzazione del mercato del lavoro) che ampliò ulteriormente le possibilità di utilizzo dei contratti a termine attraverso la contrattazione collettiva e riformò l’apprendistato. L’elaborazione di questa legge, durata ben quattro anni, rivelò le difficoltà nel trovare un equilibrio tra esigenze di flessibilità e tutela dei lavoratori, con il PCI che inizialmente si oppose al testo per poi approvarlo in sede senatoriale dopo l’introduzione di modifiche. Altri provvedimenti significativi del periodo includevano la legge n. 44 del 1986 per l’imprenditorialità giovanile nel Mezzogiorno e varie iniziative legislative volte a ridurre il precariato nel settore pubblico, particolarmente diffuso in ambito scolastico, sanitario e nella pubblica amministrazione. Un aspetto cruciale di questa trasformazione fu il cambiamento di approccio da parte dei sindacati, che dagli anni ‘70, caratterizzati da una posizione difensiva e garantista, passarono negli ‘80 a una strategia di flessibilità negoziata. Questo nuovo orientamento, emerso chiaramente nel dibattito interno alle confederazioni sindacali, mirava a gestire il processo di flessibilizzazione attraverso il confronto con le parti sociali, cercando di contemperare le esigenze delle imprese con la tutela dei lavoratori. La contrattazione collettiva divenne così il terreno privilegiato per regolare molti aspetti dei nuovi contratti atipici, con accordi che in alcuni casi (come nel settore metalmeccanico) offrivano condizioni più favorevoli di quelle previste per legge. Permanevano forti divergenze con le organizzazioni imprenditoriali, accusate dai sindacati di perseguire una flessibilità “senza regole” e di ignorare le esigenze dei lavoratori. Nonostante l’enfasi sulla flessibilità, gli anni ‘80 videro anche importanti iniziative legislative volte a contrastare il precariato, soprattutto nel settore pubblico. Pensiamo a leggi come la n. 270 del 1982 (per la stabilizzazione del personale docente) e la n. 835 del 1984 (per il precariato nel settore sanitario). Significativo fu anche il tentativo, attraverso disegni di legge come quello presentato nel 1990 da Piermartini e Cristoni, di eliminare forme di precariato nelle amministrazioni pubbliche, particolarmente diffuse nel settore della difesa attraverso il ricorso a cooperative e appalti.
Tra la fine del XX secolo e l’inizio del nuovo millennio il dibattito sulle trasformazioni del mercato del lavoro in Italia e in Europa è stato caratterizzato da una crescente attenzione verso i costi sociali e umani legati alla flessibilizzazione e alla precarizzazione del lavoro. Nonostante le teorie critiche su questi fenomeni abbiano avuto un impatto limitato sulle politiche del lavoro adottate in quel periodo, verso la fine degli anni 2000 si è assistito a un cambiamento significativo nella percezione del problema, con l’emergere del concetto di “precariato” come categoria analitica e politica. Questo mutamento è stato influenzato da un intenso dibattito giuridico e sociologico che ha visto protagonisti alcuni dei più importanti studiosi italiani del diritto del lavoro, tra cui Gino Giugni, Pietro Ichino, Luigi Mariucci, Umberto Romagnoli, Massimo D’Antona e Giorgio Ghezzi. Pietro Ichino, in particolare, con il suo articolo del 1990 Fuga dal lavoro subordinato, pubblicato sulla rivista Democrazia e diritto, ha contribuito a definire i termini di una polarizzazione tra due opposte visioni, cioè coloro che vedevano nella crisi del lavoro subordinato un’opportunità per rinnovare il diritto del lavoro, adattandolo alle nuove esigenze del mercato e chi invece interpretava questa crisi come un declino irreversibile delle tutele tradizionali, arrivando a parlare di una “grande fuga dal diritto del lavoro”. Questo dibattito si è concentrato sulla funzione stessa del diritto del lavoro nel passaggio dal XX secolo, definito come il secolo del diritto del lavoro per eccellenza, al nuovo millennio, in cui lo status della disciplina appariva ancora incerto e in bilico tra innovazione e smantellamento. Una riflessione critica su queste trasformazioni è emersa anche in occasione del decennale della Legge n. 196 del 1997, meglio noto come Pacchetto Treu, quando la rivista Lavoro e diritto ha dedicato un numero speciale al tema della stabilità lavorativa, analizzandola come “valore e problema”. L’obiettivo della rivista era quello di mappare le forme esistenti di protezione per i lavoratori stabili ma anche di interrogarsi criticamente sul concetto stesso di stabilità, mettendo in luce le contraddizioni e le sfide poste dalla crescente diffusione di contratti atipici. In questo contesto il rapporto del giurista francese Alain Supiot del 1999 ha offerto un’analisi comparata delle trasformazioni normative in Europa, evidenziando il paradosso tra due opposte tendenze: da una parte, l’ideale di un mercato del lavoro completamente deregolamentato, sostenuto da alcuni; dall’altra, la difesa idealizzata del modello fordista di protezione del lavoro, promossa da altri. Supiot ha sottolineato come i cambiamenti nei processi produttivi stessero spingendo verso un apparente “ritorno” al lavoro autonomo, nonostante il declino costante di questa forma di occupazione nel corso del Novecento. Il rischio, secondo Supiot, era che un numero crescente di lavoratori non subordinati si trovasse privo dei diritti sociali tradizionalmente garantiti ai dipendenti, con conseguenti processi di precarizzazione diffusa. Il giurista francese ha quindi proposto una serie di misure per riformare i sistemi giuridici europei, al fine di colmare il divario tra libertà formale e dipendenza economica nei contratti atipici. Questo è il contesto dove emerse la flexicurity, una strategia integrata per conciliare flessibilità e sicurezza nel mercato del lavoro, che divenne uno dei pilastri delle politiche occupazionali europee alla fine degli anni 2000. Questo approccio, inizialmente sviluppato in Danimarca e nei paesi scandinavi, è stato adottato dall’Unione Europea come quadro di riferimento per riformare i mercati del lavoro nazionali. La flexicurity si basava su quattro componenti fondamentali: contratti flessibili, strategie di apprendimento permanente, politiche attive del lavoro e sistemi di sicurezza sociale moderni ed efficaci. L’obiettivo era promuovere la mobilità lavorativa, facilitare le transizioni occupazionali e garantire un’adeguata protezione sociale durante i periodi di disoccupazione. L’applicazione di questo modello ha sollevato numerose critiche, soprattutto in paesi come l’Italia, dove il sistema di welfare era strutturalmente debole. Secondo i dati OCSE citati da Betti, mentre in Belgio e Germania i sussidi di disoccupazione coprivano rispettivamente l’80% e il 70% dei disoccupati, in Italia questa percentuale non superava il 30%. Questa carenza ha portato alcuni studiosi a coniare il termine “flex-insecurity” per descrivere la situazione italiana, in cui la flessibilità contrattuale non era accompagnata da adeguate tutele sociali, generando fenomeni di precarietà diffusa. In Italia, oltre 150 giuristi, magistrati e avvocati hanno sottoscritto un documento critico intitolato I giuslavoristi e il Libro Verde in cui contestavano la visione unilateralmente orientata al mercato della flexicurity e denunciavano la mancanza di riferimenti alla Carta dei diritti fondamentali dell’UE nella proposta della Commissione Europea. Tra i critici più accesi del modello della flexicurity vi erano Sergio Fontegher Bologna, Andrea Fumagalli e Ilaria Possenti che hanno interpretato la flessibilità come un dispositivo neoliberale volto a colonizzare l’esistenza stessa dei lavoratori, riducendoli a mere variabili del processo produttivo. Il cosiddetto Pacchetto Treu è stato considerato il punto di partenza della flessibilizzazione del mercato del lavoro italiano, nonché, secondo molti osservatori, l’inizio della precarietà strutturale nel paese. Questo processo negli anni ‘90 ha conosciuto una significativa accelerazione culminata nell’introduzione dei contratti di collaborazione coordinata e continuativa (Co.Co.Co.) e nel superamento del divieto di intermediazione nel lavoro che aveva caratterizzato il sistema italiano dal 1960. I dati riportati da Betti mostrano come, tra il 1992 e il 2000, il lavoro atipico sia passato dal 10,6% al 15,2% della forza lavoro, con un aumento del 45,2%. In particolare i Co.Co.Co. sono diventati una forma di occupazione sempre più diffusa, soprattutto tra le donne e i giovani, spesso utilizzata in modo improprio per mascherare rapporti di lavoro subordinato. Secondo le stime dell’INPS, nel 2002 i lavoratori parasubordinati iscritti alla Gestione Separata erano oltre 2,3 milioni, con redditi medi annui di appena 11.861 euro e il 59% di loro che guadagnava meno di 7.500 euro l’anno. La Legge Biagi del 2003, ispirata al Libro Bianco sul mercato del lavoro del 2001, ha ulteriormente ampliato il ventaglio dei contratti atipici, introducendo nuove forme come il lavoro a progetto, il lavoro intermittente e il lavoro accessorio retribuito con voucher. Questa riforma, fortemente voluta dal governo Berlusconi, è stata oggetto di aspre critiche e di grandi mobilitazioni sindacali, tra cui lo sciopero generale del 2002 organizzato dalla CGIL che ha portato in piazza oltre un milione di persone. La legge è stata percepita come un ulteriore passo verso la precarizzazione del lavoro, soprattutto per la riduzione delle tutele per i lavoratori subordinati e la liberalizzazione dell’outsourcing che ha favorito la moltiplicazione di rapporti di lavoro instabili e poco protetti.
Durante il secondo governo Prodi il Parlamento ha mostrato una rinnovata attenzione al problema della precarietà, con la presentazione di diverse proposte di legge volte a contrastare il fenomeno. Tra queste spiccano il disegno di legge per l’introduzione di un reddito sociale e quello per la stabilizzazione dei lavoratori precari nella pubblica amministrazione. Tuttavia nessuna di queste iniziative è stata approvata, a causa della breve durata della legislatura e delle profonde divisioni all’interno della maggioranza.
Un’inchiesta parlamentare condotta nel 2006-2007 ha cercato di quantificare l’entità del precariato in Italia, evidenziando come la precarietà fosse ormai un fenomeno “multiforme”, che colpiva trasversalmente diverse categorie di lavoratori. Dai dati emersi risultava che nella pubblica amministrazione i lavoratori precari erano circa 243.000, a cui si aggiungevano 246.000 insegnanti precari nel sistema scolastico. L’inchiesta ha anche messo in luce la difficoltà di transizione dal lavoro precario a quello stabile, con molti lavoratori intrappolati in una sequenza infinita di contratti a termine senza prospettive di stabilizzazione.
3. I movimenti dei precari
Nella lotta contro il precariato ebbero un ruolo di primo piano anche i movimenti dei precari, un soggetto politico innovativo soprattutto grazie al ruolo dei movimenti sociali italiani. I primi gruppi di precari auto-organizzati nacquero alla fine degli anni ’90, quando a Milano fu fondato il ChainWorkers Collective, esplicitamente ispirato ai movimenti no-global di Seattle e Genova. Il ruolo di internet si rivelò centrale nella nascita del movimento. Il ChainWorkers Collective considerava il webzine chainworkers.org uno strumento strategico per mobilitare i lavoratori temporanei in Italia. I ChainWorkers si rivolgevano in particolare a chi lavorava nella grande distribuzione e nella ristorazione, considerati i primi veri lavoratori globali. Successivamente organizzarono anche i precari della moda attraverso una sfilata provocatoria organizzata da Serpica Naro, un brand creato dai precari per opporsi ai grandi marchi della moda. Il 1° maggio 2001 il ChainWorkers Collective, in collaborazione con attivisti del centro sociale Deposito Bulk e della sezione milanese dei Comitati Unitari di Base (CUB), organizzò la prima Mayday Parade a Milano, a cui parteciparono circa 5.000 persone, riempiendo le strade della città con carri, giocolieri e acrobati, dando vita a una nuova forma di protesta che negli anni successivi avrebbe simboleggiato la mobilitazione politica dei lavoratori precari in Italia e all’estero. A partire dall’anno successivo la Mayday Parade assunse il nome di “1 Maggio del precariato sociale” per distinguersi dalle tradizionali celebrazioni del Primo Maggio promosse dalle tre maggiori confederazioni sindacali (CGIL, CISL e UIL) e mettere in primo piano la soggettività precaria. I ChainWorkers e altri collettivi si appropriarono dei concetti di “precariato” e “precario” nelle loro pubblicazioni e presto queste etichette si diffusero in una vasta rete di attivisti organizzati su internet anche sulla scorta delle riflessioni nate su questi temi in ambito operaista. Attraverso prodotti culturali e linguaggi specifici si impegnarono a legittimare i lavoratori precari come soggetto politico e sociale agli occhi dell’opinione pubblica. Nel 2004, durante l’assemblea Precog tenutasi a Trento, fu concepita la figura di San Precario come “patrono dei precari e delle precarie”, “rappresentante della loro intelligenza”. Il “santo” fu raffigurato su striscioni e dotato di una propria pagina web, diventando l’icona pop della generazione precaria dopo la sua pubblica consacrazione durante la Mayday Parade del 2004, a cui parteciparono 100.000 persone. Nell’ottobre 2004 attivisti da tutta Europa redassero la Middlesex Declaration of Europe’s Precariat all’Università di Middlesex, con l’obiettivo di creare una rete transnazionale di movimenti e collettivi che lottavano contro la precarietà. Il 2005 segnò la trasformazione del movimento precario in un fenomeno europeo con l’organizzazione dell’Euro MayDay Parade (1° maggio 2005) in 19 città europee, diventate 28 l’anno successivo. Tra il 2004 e il 2006 l’Euro Mayday Parade fu trasmessa in diretta, fornendo un resoconto delle manifestazioni parallele che si svolgevano in vari paesi europei. Le città del nuovo millennio divennero i luoghi privilegiati dell’azione del movimento precario, in relazione a nuove teorie che collegavano l’analisi del lavoro ai processi di precarizzazione e marginalizzazione della popolazione urbana. La creazione della rete EuroMayDay contribuì significativamente all’identificazione e al riconoscimento dei lavoratori precari come nuovi soggetti sociali, ancora prima che Guy Standing presentasse la sua teoria sul precariato nel 2011. La rete produsse un numero significativo di riflessioni sulla precarietà in pubblicazioni online, opuscoli, risorse multimediali, sondaggi e auto-inchieste condotte dagli stessi lavoratori precari. Studiosi come Alice Mattoni e Annalisa Murgia hanno evidenziato come le pratiche mediali e l’attivismo avessero creato opportunità di scambio e condivisione di dati a livello nazionale e internazionale. Questo processo fu sostenuto da un intenso lavoro di traduzione di scritti sulla precarietà in varie lingue europee su riviste online e siti web. Una delle pubblicazioni più interessanti fu il DVD multilingue Precarity. Numeri speciali di riviste come Mute e Fibreculture Journal furono particolarmente significativi mentre in Italia la serie di pubblicazioni Quaderni di San Precario rivestì un’importanza cruciale. Fu addirittura creato un gioco da tavolo chiamato, appropriatamente, Precariopoli. Studi sul movimento precario hanno evidenziato la varietà di persone organizzate in Italia nei primi anni 2000 intorno alla Rete San Precario. Questa rete diede vita anche a luoghi fisici come i Punti San Precario, dove le persone potevano ricevere assistenza legale e politica o discutere, pianificare e impegnarsi in azioni collettive. Tra coloro che si rivolgevano ai Punti c’erano le hostess del Sea Group (che serviva gli aeroporti milanesi di Malpensa e Linate). I principi di auto-organizzazione, auto-protezione e mutuo aiuto erano al centro delle attività della Rete San Precario, realizzate attraverso proteste e comizi politici ma anche attraverso performance dimostrative nei luoghi di lavoro. Questa rete si sviluppò, divenne più eterogenea e si unì ad altri gruppi professionali auto-organizzati durante gli anni della Grande Recessione. Tra questi gruppi vi erano la Rete dei Redattori Precari che definiva la precarietà come il minimo comune denominatore del lavoro e il Collettivo Precari Atesia che prendeva il nome da un call center con sede a Roma dove lavoravano i suoi membri. Durante la crisi furono fondate le Camere del Lavoro Autonomo e Precario con l’obiettivo di organizzare e favorire l’auto-organizzazione di persone ancora non organizzate, tra cui lavoratori temporanei e occasionali, stagisti e tirocinanti, disoccupati e partite IVA a basso reddito. Questi nuovi movimenti organizzati intorno alla precarietà, mescolando metodi delle associazioni tradizionali e del sindacalismo, presero come pietra angolare del loro movimento l’acquisizione di diritti e welfare per chi non ne aveva (a partire dal diritto a un reddito di base) e la promozione di nuove forme di solidarietà e mutualismo contro la frammentazione e la solitudine dei lavoratori non organizzati. Il movimento europeo contro la precarietà, di cui la componente italiana fu un elemento fondamentale e decisivo, fu permeato e arricchito dal pensiero di gruppi che si occupavano di migranti, come i sans papier francesi, e da vari collettivi femministi che lavoravano sul nesso tra genere e precarietà, come le spagnole Precarias a la Deriva. La dimensione di genere della precarietà è molto importante. Già negli anni ’80 era stato introdotto il concetto di flessibilità dal volto umano, capace di bilanciare tempi di vita e di lavoro, ma solo negli anni ’90 questa idea cominciò a essere messa in discussione da studi sociologici che adottavano una prospettiva di genere per analizzare gli effetti del lavoro atipico. Vari studi evidenziarono la crescente femminilizzazione del lavoro atipico nel corso degli anni ’90 e 2000 e come flessibilizzazione e femminilizzazione del lavoro fossero intrecciate. Le tre forme più diffuse di lavoro atipico in Italia prima del 2002 (part-time, lavoro a progetto e contratti a termine) ebbero un impatto quantitativo e qualitativo decisamente maggiore sulle lavoratrici. Sempre più donne erano impegnate in forme di lavoro non standard e generalmente rimanevano in questi lavori più a lungo degli uomini. Livello di istruzione, età e collocazione geografica influenzavano significativamente il modo in cui le donne scivolavano e rimanevano nell’occupazione precaria, sempre più legata alla povertà. Dalla fine degli anni ’90 una serie di interviste e questionari indagarono le esperienze delle donne, rilevando i loro bisogni e le loro ansie riguardo alla flessibilità. A differenza dell’immagine utopica della flessibilità diffusa negli anni ’80 e ’90, negli anni 2000 questa divenne uno degli aspetti più gravosi dell’occupazione femminile. Raramente alla lavoratrice era consentito decidere se lavorare part-time o full-time o rifiutare gli straordinari dopo la legge sul lavoro del 2003. La flessibilità coincideva sempre più con la massima disponibilità, sostenuta a livello legislativo con l’introduzione del lavoro intermittente e a chiamata. Secondo la letteratura internazionale, il tasso di part-time involontario era un indicatore di flessibilità forzata e di scivolamento verso forme di precarietà e crebbe notevolmente nel periodo considerato. Negli anni 2000 le femministe italiane si organizzarono intorno al problematico legame tra precarietà e maternità e le loro idee furono diffuse a livello internazionale grazie alla presenza di studiose che erano anche attiviste italiane all’estero. Molti gruppi e associazioni femminili, tra cui femministe della seconda e terza ondata e l’UDI, affrontarono il rapporto tra lavoro precario e autodeterminazione nella sfera privata. Proprio questo focus sulla precarietà sembrò caratterizzare maggiormente il femminismo italiano dagli anni 2000, com’è evidente in un numero speciale di Feminist Review del 2007. Nella rivista Laura Fantone sottolineò come, a partire dal concetto di precarietà, il cosiddetto movimento femminista della terza ondata avesse rivendicato uno spazio autonomo, diverso da quello delle femministe della seconda ondata degli anni ’70, ancora attive e culturalmente influenti in Italia in quel periodo. Feminist Review incluse le prospettive di numerosi gruppi femminili che avevano lavorato intellettualmente e politicamente sulla precarietà, come Sexyshock, A/matrix, Sconvegno e Prec@s. Prec@s nacque come spazio di discussione in seguito alla Quinta Conferenza Europea per la ricerca femminista nel 2003 che discusse l’evoluzione degli Women and Gender Studies in Italia e lanciò un’inchiesta per indagare la specificità di genere all’interno del cognitariato. Il collettivo femminista Sconvegno nacque a Milano nel 2002, in seguito a un incontro intitolato “Lo Sconvegno: Quale soggettività femminista oggi?” (Milano, 4 maggio 2002). Il collettivo fu organizzato su suggerimento della femminista della seconda ondata Lea Melandri ma con la partecipazione di femministe sia della seconda che della terza ondata. Studiando la trasformazione del lavoro e della vita quotidiana il tema della precarietà/flessibilità divenne uno dei principali temi politici e intellettuali di Sconvegno e la base di numerosi approfondimenti. Il Progetto Sexyshock, avviato da donne dell’area bolognese già attive in gruppi auto-organizzati, nacque dopo una manifestazione del 30 giugno 2001, in cui circa 3.000 donne invasero le strade di Bologna per difendere i consultori pubblici e la legge 194 sull’aborto. All’interno del Teatro Polivalente Occupato (TPO) di Bologna, Sexyshock fu fondata come officina politica aperta alle donne che fornisce uno spazio pubblico di discussione e sviluppo su temi legati alla sessualità. Nel 2004 il gruppo decise di aprire una propria sede, Betty & Books, un negozio che vendeva sex toys, libri e vari oggetti di design. Il tema del lavoro precario, insieme al lavoro sessuale e all’immaginario collettivo contemporaneo, fu uno dei punti distintivi dell’attività del gruppo. Per quanto riguarda il gruppo più influente del femminismo della seconda ondata italiano, il cosiddetto femminismo della differenza, affrontò il tema della precarietà nell’ambito di una discussione più ampia sugli effetti del neoliberismo. La Libreria delle Donne di Milano giocò un ruolo importante, creando un gruppo di lavoro nel 1994 per riflettere sul lavoro dal punto di vista delle donne e ascoltare le esperienze lavorative delle donne nel contesto delle trasformazioni strutturali del lavoro e dell’economia. Nel 2005 la serie di pubblicazioni Quaderni di Via Dogana ospitò il primo numero della Nuova Serie Lavoro, curata dal gruppo (Parole che le donne usano). Il Secondo Quaderno (Tre donne e due uomini) si concentrò sulla femminilizzazione del lavoro e sul post-fordismo, in cui emerse chiaramente la questione della flessibilità/precarietà del lavoro femminile. Il “doppio sì” al lavoro e alla maternità fu discusso nel terzo numero (Lavoro e maternità il doppio sì) che affrontò il tema dell’organizzazione del tempo di lavoro, sottolineando che le donne del XXI secolo non dovrebbero essere obbligate a scegliere tra maternità e lavoro. Dal 2008 la rivista ospitò un supplemento curato dal Gruppo Lavoro della Libreria delle Donne chiamato Pausa lavoro. Un resoconto degli scritti del gruppo fu pubblicato nel 2009 nel manifesto Immagina che il lavoro in cui il concetto di precarietà comparve, pur non avendo un ruolo centrale. Anche l’UDI si concentrò sul tema della precarietà, questione che l’associazione affrontava dagli anni ’60. L’8 marzo 2006 lanciò la campagna La precarietà rende sterili, il cui slogan era “Vogliamo essere libere di creare vite, convivenza e democrazia”. La campagna testimoniò non solo l’impegno continuo dell’UDI per la stabilità lavorativa femminile ma anche nuovi sviluppi del concetto ispirati sia al pensiero femminista della seconda ondata che alle nuove generazioni di donne che sperimentavano direttamente le conseguenze della precarietà lavorativa. La campagna fu il risultato di un più ampio lavoro intellettuale sul legame tra precarietà, autodeterminazione e maternità, sviluppato durante il convegno nazionale Generare oggi: tra precarietà e futuro (Roma, 19 novembre 2005). Il convegno portò allo sviluppo di una piattaforma politica sullo stesso tema. Nel 2011, su iniziativa di vari gruppi femministi milanesi, fu fondata l’Agorà del lavoro come luogo di incontri e discussioni, aperto a uomini e donne, con l’obiettivo di porre il lavoro e l’economia al centro del dibattito pubblico ma fortemente influenzato dal pensiero femminista. Il concetto di lavoro doveva essere ripensato, a partire dalla ridefinizione delle dicotomie vita e lavoro, produzione e riproduzione, denaro e riconoscimento, indipendenza e dipendenza, individualità e relazioni.
4. Precarietà e crisi economica del 2007-2008
La crisi economica globale scoppiata nel 2007-2008 ha rappresentato una cesura fondamentale nella storia del lavoro contemporaneo, inaugurando quella che alcuni studiosi come Adam Tooze hanno definito come la prima crisi economica dell’era globale. Nel contesto italiano, nonostante una parziale ripresa evidenziata nel 2018 con un tasso di occupazione tornato al 58% (quasi pari al 58.6% del 2008) e oltre 23 milioni di lavoratori dipendenti standard, i dati ISTAT rivelano un quadro profondamente deteriorato: i disoccupati sono cresciuti del 44% rispetto al 2008, passando da 1,6 a 2,9 milioni, mentre il tasso di disoccupazione è balzato dal 6.7% all’11,2%, con una forza lavoro potenziale che ha raggiunto i 6 milioni di unità. Questi numeri nascondono una trasformazione qualitativa del mercato del lavoro, dove la precarietà è diventata strutturale, come già prefigurato dal sociologo Luciano Gallino che nel 2004 parlava di globalizzazione della precarietà. La crisi ha accelerato processi iniziati negli anni ’90, con un aumento esponenziale dei contratti atipici, infatti tra il 2008 e il 2010 nell’UE si sono persi 1,7 milioni di contratti a termine per mancato rinnovo ma nella breve ripresa del 2009-2010 se ne sono creati 850.000, dimostrando come le nuove assunzioni fossero quasi esclusivamente precarie. Il part-time involontario è cresciuto sia in Italia che in Europa, diventando spesso uno strumento per ridurre l’orario di lavoro e aumentare il potere discrezionale delle aziende, come evidenziato dalla Commissione Europea nel 2012. Un documento del Comitato Economico e Sociale Europeo del 2011 ha rivelato come le aziende abbiano sistematicamente utilizzato subappalti, outsourcing e falsi autonomi per eludere i contratti collettivi, un fenomeno che ha coinvolto non solo i tradizionali “outsider” del mercato del lavoro ma anche i lavoratori precedentemente stabili (“insider”). L’ILO nel 2015 ha certificato come la crisi abbia aumentato l’insicurezza lavorativa a livello globale, con lavoratori intrappolati in condizioni precarie sia nel Nord che nel Sud del mondo. In Italia gli effetti sono stati particolarmente drammatici. Nel 2015 il 20% della popolazione viveva in povertà relativa, con 4.6 milioni in povertà assoluta (7,6%) e 8,3 milioni in povertà relativa (13,7%), numeri che non si vedevano dal 2005. Le riforme del mercato del lavoro (Legge Fornero 2012 e Jobs Act 2014-15) hanno rappresentato il culmine del processo di flessibilizzazione, modificando profondamente le norme su licenziamenti e contratti temporanei. I dati dell’Osservatorio dei Consulenti del Lavoro mostrano che nel 2018 i lavoratori erano più poveri e precari che nel 2008: +438.000 contratti a termine, +1 milione di part-time (81% in più per i 45-64enni, con il 63% involontario), nonostante il ritorno dei contratti indeterminati ai livelli pre-crisi. Un caso emblematico è stato l’esplosione dei voucher: da 15 milioni nel 2011 a 115 milioni nel 2015, coinvolgendo 1.4 milioni di lavoratori contro i 25.000 del 2008 (dati INPS). Parallelamente il lavoro gratuito è diventato sistemico. All’Expo 2015 su 19.300 “lavoratori”, 18.500 erano volontari non pagati. Il mondo accademico italiano è un altro caso paradigmatico, con migliaia di ricercatori precari che lavorano senza stipendio. L’alternanza scuola-lavoro obbligatoria (introdotta nel 2015) ha generato casi eclatanti come l’accordo con McDonald’s per 10.000 studenti non retribuiti. La crisi ha anche innescato una nuova emigrazione di massa: +20% nel 2013 (82.000 partenze), con il Sud Italia particolarmente colpito. Ma contrariamente al mito della “fuga di cervelli”, solo 1/3 degli emigrati aveva una laurea e molti finivano in lavori dequalificati all’estero, come dimostrano studi sugli italiani nel Regno Unito (+52% tra 2007-2011, 30.000 partenze). La precarietà è così diventata una condizione esistenziale totale che ridefinisce i rapporti tra individuo e società nel capitalismo contemporaneo, come dimostrano le analisi di autori come Emiliana Armano, Francesca Coin e Federico Chicchi sul lavoro gratuito o di Marta Fana sull’economia dei gig worker. Il Libro bianco per il Piano del lavoro 2013 della CGIL, ispirato al piano di Giuseppe Di Vittorio del dopoguerra, ha provato a immaginare alternative attraverso un New Deal europeo ma la normalizzazione della precarietà appare ormai un dato strutturale. Nonostante gli sgravi fiscali, dal 2015 al 2017 i contratti a tempo indeterminato sono diminuiti mentre sono aumentati quelli a termine, stagionali e di apprendistato. La mobilitazione sindacale (come la campagna CGIL Giovani non più disposti a tutto del 2010) e studentesca (le proteste contro l’alternanza scuola-lavoro nel 2016-17 con slogan come “sfruttati o bocciati”) hanno cercato di contrastare questo processo ma la precarietà rimane la cifra del lavoro nel XXI secolo, come dimostra anche il fenomeno dei “professori con la valigia” che viaggiano per l’Italia per incarichi temporanei. In questo contesto, come sottolineano Michele Colucci e Stefano Gallo, migrazione e precarietà si intrecciano inestricabilmente, creando una generazione di lavoratori globalizzati ma senza diritti, costretti a muoversi tra lavori instabili sia in patria che all’estero. La crisi del 2007-2008 ha così rivelato la sua natura non congiunturale ma sistemica, trasformando profondamente il mondo del lavoro e la società nel suo complesso.
Tra le riforme più significative di questo periodo vi è l’articolo 8 della legge n. 148 del 2011, introdotto dal quarto governo Berlusconi, che ha permesso di derogare ai contratti collettivi nazionali attraverso accordi aziendali, peggiorando le condizioni dei lavoratori. Questa misura ha suscitato un ampio dibattito tra giuristi, sindacalisti e politici, con critiche che hanno evidenziato come essa esponesse i lavoratori a un drastico peggioramento delle relazioni e delle condizioni di lavoro. Nonostante alcune proposte legislative presentate dal Partito Democratico per contrastare la precarietà, come l’abolizione dei contratti più instabili e l’estensione dei diritti per i lavoratori atipici, queste iniziative non sono mai state discusse in Parlamento, né dal governo Berlusconi né da quello successivo guidato da Renzi.
La legge Fornero del 2012, approvata durante il governo Monti, è stata una delle riforme più controverse. Formalmente essa mirava a favorire l’occupazione e la crescita economica ma nella pratica ha introdotto modifiche significative che hanno peggiorato la stabilità del lavoro. La riforma ha creato nuovi sussidi per i disoccupati, come l’ASPI e la mini-ASPI, ma ha abolito l’indennità di mobilità. Inoltre ha modificato l’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, riducendo la possibilità di reintegro per i licenziamenti ingiustificati e introducendo un sistema di indennizzi economici. Questa modifica è stata criticata da molti, tra cui Magistratura Democratica, che ha definito la legge “una legge per le imprese”, sottolineando come la crisi e le pressioni dell’UE abbiano contribuito alla sua approvazione, minando conquiste fondamentali del diritto del lavoro. La riforma ha anche liberalizzato l’uso dei voucher che negli anni successivi hanno conosciuto un’esplosione, contribuendo ulteriormente alla precarizzazione del lavoro. Il Jobs Act del 2014, approvato durante il governo Renzi, ha rappresentato un ulteriore passo verso la precarizzazione, modificando radicalmente l’articolo 18 e introducendo il contratto a “tutele crescenti” che limitava i diritti dei nuovi assunti fino al raggiungimento di una certa anzianità. La riforma ha suscitato forti proteste, tra cui scioperi generali e manifestazioni organizzate dalla CGIL che ha anche promosso un referendum per abrogare le modifiche, poi dichiarato illegittimo dalla Corte Costituzionale nel 2017. Secondo molti giuristi il Jobs Act ha completato il processo di mercificazione del lavoro, rendendo i licenziamenti più facili e riducendo le tutele per i lavoratori. La riforma ha anche liberalizzato ulteriormente i contratti a termine, permettendo alle aziende di utilizzarli senza giustificazione per un massimo di 36 mesi, contribuendo così all’aumento della precarietà. Il dibattito sull’articolo 18 ha dominato il discorso pubblico in questi anni, con posizioni contrastanti tra chi lo considerava un simbolo da superare e chi invece ne rivendicava il ripristino integrale. Elsa Fornero, ad esempio, ha definito la modifica dell’articolo 18 come una necessità mentre Matteo Renzi lo ha descritto come un “simbolo del passato”. Tuttavia molti analisti hanno evidenziato come la diminuzione delle tutele abbia reso il lavoro sempre più precario, con lavoratori sempre meno disposti a ricorrere alla giustizia per timore di costi elevati e esiti incerti. Betti fornisce un’analisi approfondita delle mobilitazioni, campagne e forme di resistenza contro la precarietà lavorativa in Italia durante gli anni 2010, evidenziando sia le continuità con le lotte del passato (in particolare quelle degli anni ‘60 e ‘70) sia le peculiarità del contesto contemporaneo. La precarietà diventa terreno di conflitto e aggregazione per una vasta gamma di soggetti: studenti, ricercatori universitari, lavoratori atipici, migranti e donne che danno vita a un movimento composito e articolato. Uno degli snodi centrali di questa mobilitazione è rappresentato dagli Stati Generali della Precarietà, iniziati nel 2010 a Milano con la partecipazione di attivisti provenienti da oltre 30 collettivi, centri sociali e reti, sia italiani che internazionali. In questi incontri, svoltisi attraverso workshop, assemblee e presentazioni, si discute il legame tra precarietà, diritti e welfare, con un particolare focus sulle esperienze delle reti San Precario ed EuroMayday durante la crisi economica. Gli appuntamenti successivi, come gli Stati Generali 2.0 (gennaio 2011) e 3.0 (aprile 2011), approfondiscono ulteriormente le condizioni dei lavoratori precari, con un’attenzione specifica ai migranti (definiti “precari per eccellenza”), al rapporto tra austerità e precarizzazione e alla possibilità di organizzare uno sciopero dei precari. Quest’ultimo tema viene teorizzato nel documento Wikistrike: Glossario per lo sciopero precario e un nuovo welfare del 2011, presentato come un’enciclopedia dell’intelligenza collettiva contro la precarietà. Il testo rifiuta l’idea della precarietà come destino inevitabile, affermando invece che si tratta di una condizione imposta da precise scelte politiche ed economiche e propone di rispondere attraverso la riappropriazione del diritto di sciopero, inteso come astensione dal lavoro e come pratica di conflitto capace di bloccare l’intero sistema produttivo. La comunicazione digitale gioca un ruolo fondamentale nel movimento, sia come strumento di organizzazione che come spazio di elaborazione teorica. Siti come precaria.org, nato dall’esperienza di San Precario, si propongono come luoghi di circolazione di informazioni finalizzate alla creazione di conflitto, mentre blog come connessioniprecarie.org mirano a rompere l’isolamento dei lavoratori precari, creando connessioni transnazionali. Riviste online come I quaderni di San Precario ed Effimera contribuiscono a sviluppare un “punto di vista precario”, analizzando le soggettività in gioco e le forme di resistenza. Un capitolo particolarmente significativo delle lotte contro la precarietà riguarda la discriminazione di genere, con un focus specifico sulle dimissioni in bianco, una pratica illegale che colpisce soprattutto le donne, costrette a firmare lettere di dimissioni non datate da utilizzare in caso di gravidanza, malattia o matrimonio. Nonostante la legge 188/2007 avesse tentato di contrastare il fenomeno, la sua abolizione nel 2008 riapre la questione. I dati ISTAT rivelano che tra il 2008 e il 2009 circa 800.000 madri perdono il lavoro a causa della maternità (8,7% delle lavoratrici madri) mentre il tasso di fertilità italiano scende a 1,39 figli per donna, uno dei più bassi tra i paesi OCSE. Nel 2011, la grande manifestazione Se non ora quando? denuncia con forza questa situazione mentre una petizione del 2012, sostenuta da 188 donne influenti e circa 4.500 adesioni, chiede il ripristino della legge 188. Le proteste portano all’introduzione di meccanismi di convalida delle dimissioni nella Legge Fornero e, successivamente, nel Jobs Act, sebbene con limiti applicativi che lasciano aperti molti problemi. Un altro fronte di lotta particolarmente acceso è quello contro il caporalato, una forma moderna di sfruttamento del lavoro che coinvolge soprattutto braccianti agricoli migranti, spesso ridotti in condizioni di semi-schiavitù. Già oggetto di inchieste parlamentari negli anni ‘90 (quando si stimavano 200.000 lavoratori coinvolti), il fenomeno esplode negli anni 2010, con casi eclatanti come quelli di Rosarno e Nardò. Le campagne Stop Caporalato lanciate da FLAI-CGIL e FILLEA-CGIL nel 2011 rivelano l’esistenza di 60.000 lavoratori in condizioni disumane mentre le indagini giornalistiche di Alessandro Leogrande mettono in luce il legame sempre più stretto tra caporalato e organizzazioni criminali. La legge del 2016, che introduce il reato di intermediazione illecita e sfruttamento del lavoro, rappresenta una svolta importante ma non riesce a eradicare il fenomeno, come dimostrano le proteste del 2017-2018 e i continui casi di morte sul lavoro. Secondo il rapporto Agromafie del 2018 le vittime del caporalato sarebbero tra 400.000 e 430.000. Nell’ambito universitario, la precarietà dei ricercatori diventa un tema centrale del conflitto sociale con proteste contro la Legge Gelmini del 2010 e la progressiva riduzione dei fondi pubblici all’istruzione. L’indagine Ricercarsi del 2014, coordinata dal sociologo Emanuele Toscano con il supporto della FLC-CGIL, rivela dati allarmanti: solo il 6,7% dei ricercatori precari ottiene un posto stabile tra il 2003 e il 2012 mentre l’età media di assunzione sale a 37-40 anni (contro i 30 anni del 1980). Il 17% dei ricercatori precari vive ancora con i genitori, il 73% non ha figli e il 50% non riesce a immaginare il proprio futuro professionale. La campagna #perchénoint del 2015, che chiede l’estensione del sussidio di disoccupazione (DIS-COLL) anche a dottorandi e assegnisti di ricerca, raccoglie 10.000 firme e ottiene una parziale vittoria nel 2017, nonostante l’opposizione iniziale del ministro del Lavoro Giuliano Poletti che aveva definito i ricercatori “non lavoratori ma stagisti”. Intanto, la percentuale di docenti a contratto nelle università italiane raggiunge il 27,4% nel 2016, con retribuzioni spesso inferiori a 4 euro l’ora, come rivelano le indagini condotte all’Università di Bologna. Il movimento contro la precarietà trova una sua sintesi politica nella proposta di una Carta dei Diritti Universali del Lavoro, promossa dalla CGIL e sostenuta da 1,5 milioni di firme. Il testo, presentato anche all’ILO e al Parlamento Europeo, chiede il ripristino dell’articolo 18 dello Statuto dei Lavoratori, l’estensione dei diritti sociali a tutti i lavoratori (inclusi autonomi e collaboratori) e una regolamentazione più stringente dei contratti atipici. La Carta rappresenta un tentativo ambizioso di unificare le diverse lotte del lavoro in un’ottica transnazionale, proponendo un modello alternativo al neoliberismo dominante.