Lo sviluppo delle catene del valore dell’industria automobilistica europea

1. Introduzione teorica 

Il ruolo degli Investimenti Diretti Esteri (IDE) nell’economia globale ha conosciuto un’espansione senza precedenti a partire dagli anni ‘70 diventando un cardine delle strategie di sviluppo di stampo neoliberista. Questa rilevanza si è progressivamente estesa ai Paesi meno sviluppati, soppiantando le precedenti strategie di sostituzione delle importazioni, dove gli IDE avevano un ruolo marginale. Analizzando il libro Europe’s Auto Industry. Global Production Networks and Spatial Change di Petr Pavlínek scopriamo che i dati quantitativi confermano questa impennata poiché i flussi medi annuali globali di IDE in entrata sono passati da 24 miliardi di dollari nel decennio 1970-1979 a 1510 miliardi nel periodo 2013-2022, segnando un aumento di 63 volte. La crescita per i Paesi meno sviluppati è stata ancor più vertiginosa, moltiplicandosi di 115 volte (da 6,4 a 730 miliardi di dollari), incrementando la loro quota sul totale mondiale dal 26% al 49%. Parallelamente lo stock di IDE interno è cresciuto di 64 volte a livello globale tra il 1980 e il 2022, con aumenti di 72 volte per i Paesi sviluppati e di 50 volte per quelli in via di sviluppo. Nonostante questa crescita impressionante la distribuzione geografica degli IDE rimane un fenomeno strutturalmente squilibrato e concentrato, alimentando lo sviluppo diseguale a scale diverse. Un’analisi storica rivela un’esperienza altamente difforme degli IDE tra le diverse macro-regioni. In America Latina gli IDE hanno storicamente giocato un ruolo significativo, con il Brasile in testa già prima della Seconda Guerra Mondiale. In Asia orientale e sudorientale il Giappone investì pesantemente nelle sue colonie ma il vero miracolo economico di Paesi come Corea del Sud, Taiwan e la stessa Cina non fu guidato dagli IDE. Al contrario, fu il risultato di uno sviluppo endogeno di imprese domestiche, sia private che statali, sostenute da ferree politiche industriali che solo in un secondo momento si sono globalizzate attraverso IDE in uscita. Il caso africano è emblematico di una traiettoria diversa. Pur in presenza di una crescita assoluta, la quota del continente sugli IDE globali è diminuita, restando confinata per lo più alle industrie estrattive. Questi investimenti hanno avuto effetti limitati sull’economia più ampia, hanno talvolta soffocato gli investimenti domestici negli anni ‘90 e, in casi come la Nigeria, non sono riusciti a innescare uno sviluppo manifatturiero significativo, un fallimento attribuito alla debolezza delle politiche industriali. Anche il recente aumento degli IDE cinesi nel continente, così come quelli nel turismo e in agricoltura, sembra seguire il collaudato modello di estrazione del profitto con benefici locali limitati. In altre regioni, come America Latina ed Europa dell’Est, gli IDE hanno sì creato un moderno settore manifatturiero in industrie specifiche (automotive, elettronica) ma questo è spesso rimasto un'”isola” o un “enclave” con scarsi collegamenti con il tessuto economico domestico. In Messico e nell’Europa dell’Est l’integrazione periferica nelle reti di produzione macro-regionali attraverso IDE orientati all’efficienza ha generato aumenti della produzione, delle esportazioni e dell’occupazione senza riuscire a far emergere un robusto settore di imprese domestiche globalmente competitive. In questi contesti gli IDE hanno spesso “spiazzato” le imprese locali nei settori più dinamici, relegandole a ruoli subordinati in industrie a basso valore aggiunto e intrappolandole in relazioni commerciali dipendenti. La Cina, il più grande destinatario di IDE tra i Paesi in via di sviluppo, rappresenta un caso peculiare per il suo approccio strategico e altamente regolamentato, allineando gli ingressi di capitali esteri alle priorità industriali nazionali. Persino in questo caso, però, le prove degli effetti sono ambigue: una meta-analisi che corregge il bias di pubblicazione ha rilevato effetti aggregati statisticamente insignificanti mentre un’altra ha trovato spillover tecnologici significativi a monte della filiera. Questa complessità e varietà di esperienze si riflette nel dibattito teorico, polarizzato tra una prospettiva mainstream e una eterodossa. La visione mainstream, radicata nell’economia neoclassica, dipinge gli IDE come un motore incontrastato di sviluppo e convergenza, attribuendo eventuali inefficienze agli interventi statali e promuovendo la liberalizzazione degli investimenti come ricetta universale. Questa posizione, promossa attivamente da istituzioni come la Banca Mondiale, persiste nonostante l’evidenza empirica sia tutt’altro che univoca, con una pletora di studi che mostrano effetti nulli, negativi o fortemente condizionati dal contesto nazionale. La letteratura mainstream riconosce che gli spillover tecnologici non sono automatici ma dipendono da fattori come la capacità di assorbimento delle imprese locali e l’ambiente istituzionale ma tende a ignorare le politiche protezionistiche storicamente adottate dalle stesse nazioni oggi sviluppate. La prospettiva eterodossa, attingendo dall’economia istituzionale ed evolutiva e dalle teorie della dipendenza e dei sistemi-mondo, contesta questa visione semplicistica. Il suo nucleo argomentativo è che gli IDE, di per sé, non garantiscono uno sviluppo di successo a lungo termine. Il fattore decisivo è la forza e la qualità dello Stato e delle sue politiche industriali. I casi di successo in Asia orientale sono additati come esempi di come lo sviluppo dipenda da imprese domestiche forti e da Stati capaci mentre i fallimenti in America Latina e Africa sono imputati a Stati deboli e politiche inefficaci. Gli eterodossi, e in particolare la scuola della dipendenza, non negano i benefici a breve termine degli IDE (crescita, occupazione) ma ne mettono in luce gli effetti negativi di lungo periodo. Il rimpatrio dei profitti crea un flusso netto di ricchezza dalla periferia al centro del sistema mondiale, poi abbiamo la soppressione dello sviluppo di imprese locali competitive e la creazione di economie di enclave isolate. Pur riconoscendo alcune “storie di successo” legate agli IDE come l’Irlanda e Singapore, sottolineano come anche in questi casi il successo sia dipeso da politiche industriali strategicamente mirate per incanalare gli IDE, non dalla mera liberalizzazione. Petr Pavlínek si focalizza sulle regioni periferiche all’interno di paesi economicamente avanzati in relazione agli impatti degli IDE. L’analisi si colloca in una posizione critica, sostenendo che il potenziale di sviluppo a lungo termine generato dall’IDE sia intrinsecamente diseguale, favorendo in modo sistematico le regioni centrali a scapito di quelle periferiche. Quest’ultime sono concettualizzate come aree svantaggiate, caratterizzate da un reddito pro capite più basso, un’economia meno diversificata e tecnologicamente avanzata, livelli di disoccupazione più elevati, una forza lavoro meno qualificata e infrastrutture e istituzioni di qualità inferiore. La tesi centrale si articola su tre assunti principali: in primo luogo, l’IDE possiede una capacità superiore di generare benefici di lungo periodo nelle regioni centrali, in secondo luogo, nonostante il proliferare di diversi approcci teorici in geografia economica, le evidenze empiriche convergono nel delineare esiti sostanzialmente simili per le regioni periferiche e infine vi è un’imperativa necessità per i geografi di mantenere vivo l’interesse per questo tema, cruciale per comprendere le dinamiche dello sviluppo diseguale in un’economia globale in rapida trasformazione. La chiave per comprendere questa divergenza di outcomes risiede nella fondamentale distinzione tra IDE orizzontali e verticali. Gli IDE orizzontali, finalizzati alla conquista di un mercato, replicano all’estero la produzione della casa madre e sono attratti dalle regioni centrali per via dei loro mercati ampi e ricchi, della forza lavoro qualificata e delle avanzate capacità innovative. Al contrario, gli IDE verticali, orientati all’efficienza o alla ricerca di risorse, frammentano la catena del valore localizzando singoli stadi produttivi all’estero e sono tipicamente attratti dalle regioni periferiche dai surplus di manodopera, dai costi operativi ridotti e dagli incentivi regionali.

Questa divergenza geografica nella tipologia di investimento ha profonde implicazioni sui meccanismi di sviluppo, in particolare sui linkage e sugli spillover. I linkage, o collegamenti produttivi con le imprese domestiche, sono il veicolo primario attraverso il quale l’IDE può generare benefici indiretti. La geografia economica distingue tra linkage di sviluppo (collaborativi, di lungo termine e basati sullo scambio di conoscenza), linkage dipendenti (transazioni basate esclusivamente sul prezzo, di breve termine) e linkage dannosi (che hanno effetti negativi sulle imprese locali, ad esempio attraverso la sottrazione di risorse umane). Gli IDE orizzontali, per loro natura, tendono a generare linkage di sviluppo mentre gli IDE verticali, integrati verticalmente con la casa madre, danno vita prevalentemente a linkage dipendenti o, in alcuni casi, dannosi. Conseguentemente la quantità e l’intensità dei linkage sono superiori nelle regioni centrali mentre le periferie sperimentano spesso fenomeni di “truncation” o assenza di collegamenti significativi, un problema storicamente associato al settore estrattivo ma riscontrato anche nel manufacturing. La presenza di linkage è, a sua volta, il prerequisito per gli spillover, ovvero i trasferimenti non intenzionali di conoscenza e tecnologia dalle sussidiarie straniere alle imprese domestiche. Questi possono avvenire attraverso effetti di competizione, imitazione o, più efficacemente, attraverso le relazioni di fornitura che costringono le imprese locali a migliorare i propri standard. Il verificarsi stesso degli spillover è condizionato dalla “capacità di assorbimento” delle imprese domestiche, fortemente legata alle loro capacità in R&S, generalmente più elevate nelle regioni centrali. Pertanto il circolo virtuoso che collega IDE, linkage positivi e spillover è tipico delle economie avanzate mentre nelle periferie tale meccanismo è spesso interrotto o inefficace. L’evoluzione del pensiero nella geografia economica riflette e articola ulteriormente questa problematica di base. L’approccio della “branch plant economy” degli anni ’70 e ’80 ha messo in luce la natura problematica degli stabilimenti esteri nelle periferie, enfatizzando la loro troncatura funzionale (mancanza di funzioni decisionali e di R&S), la propensione alla delocalizzazione e i limitati legami con l’indotto locale, giudicandoli dannosi per uno sviluppo autonomo e duraturo. Le teorie della “nuova divisione internazionale del lavoro” e delle “divisioni spaziali del lavoro” hanno scalato l’analisi, collegando le sorti delle regioni periferiche alla loro posizione funzionale all’interno di un sistema economico nazionale e globale integrato, sostenendo che l’IDE non fa che esacerbare le disuguaglianze spaziali preesistenti. Negli anni ’90 il “new regionalism” e la enfasi sull'”embeddedness territoriale” hanno offerto una visione più ottimistica, suggerendo che le istituzioni regionali forti e la formazione di cluster potessero ancorare gli IDE al territorio, favorire linkage di sviluppo e innescare processi di apprendimento e innovazione. Questa prospettiva è stata ampiamente smentita dai fatti: l’evidenza empirica, anche in settori ad alta intensità di fornitori come l’automotive, ha continuato a mostrare linkage deboli e una persistente vulnerabilità delle periferie alle delocalizzazioni, rivelando una visione eccessivamente “territorializzata” che sottovalutava il potere delle reti globali. La prospettiva delle Global Production Networks (GPN) fornisce la cornice teorica più recente e articolata, concettualizzando lo sviluppo regionale come l’esito di un “accoppiamento strategico” tra gli asset di un territorio e le esigenze delle multinazionali. In questo quadro le regioni periferiche sono tipicamente integrate attraverso “accoppiamenti strutturali”, basati su IDE verticali in piattaforme di assemblaggio o aree di estrazione di risorse. Questa forma di articolazione è caratterizzata da relazioni di potere asimmetriche, bassa creazione e cattura di valore (con il valore reale spesso trasferito alle sedi centrali nelle regioni centrali attraverso meccanismi fiscali e di prezzo), elevata dipendenza e vulnerabilità ai decoupling, ovvero ai disimpegni e alle delocalizzazioni. È il “lato oscuro” dell’integrazione nelle GPN. Le regioni centrali, al contrario, beneficiano di “accoppiamenti indigeni” con IDE orizzontali e funzioni ad alto valore mentre le regioni emergenti possono aspirare ad “accoppiamenti funzionali” più equilibrati. La conclusione è che, nonostante i cambiamenti epocali nell’economia globale, il verdetto empirico sulla natura limitata e potenzialmente problematica degli IDE per le regioni periferiche rimane sostanzialmente invariato. Affinché l’IDE diventi un motore di sviluppo autentico, le periferie devono attrarre investimenti in attività a più alto valore aggiunto, il che richiede un impegno di lungo periodo nel potenziamento dell’istruzione, dell’innovazione e delle istituzioni. Questo percorso è irto di ostacoli, specialmente per i paesi meno sviluppati. La agenda di ricerca futura deve quindi ampliarsi, includendo temi poco studiati come il reinvestimento e il disinvestimento, l’IDE in uscita dalle economie emergenti (in particolare cinese), l’IDE nei servizi (soprattutto finanziari) e nel settore estrattivo. I megatrend contemporanei, automazione, digitalizzazione, rivalutazione delle catene di approvvigionamento, rischiano di acuire ulteriormente le disparità, offrendo al contempo un fertile terreno di indagine per i geografi economici impegnati a decifrare le incessanti dinamiche dello sviluppo diseguale.

2. Il settore auto alla prova della teoria 

L’industria automobilistica si configura come un settore ideale per studiare gli effetti degli IDE nei paesi meno sviluppati e nelle regioni periferiche, avendo attratto, tra il 2003 e il 2022, progetti greenfield per un valore complessivo di 1,3 trilioni di dollari, il dato più alto tra tutti i settori manifatturieri. Un gruppo particolare di nazioni, definite come periferie integrate, è stato preso di mira da questi flussi di capitale non tanto per le dimensioni del loro mercato interno, come nel caso di Cina, India o Brasile, ma per la combinazione di bassi costi di produzione, prossimità geografica a mercati ricchi e l’appartenenza ad accordi commerciali regionali. Questo gruppo eterogeneo, che include Europa dell’Est, Spagna, Portogallo, Turchia, Marocco e Messico, rappresenta il fulcro dell’analisi. Petr Pavlínek adotta una prospettiva teorica ibrida, fondendo il quadro delle GPN con la teoria dello sviluppo diseguale di David Harvey, in particolare il suo concetto di fix spazio-temporale. Secondo Harvey il capitalismo risponde alla caduta tendenziale del saggio di profitto in certe aree investendo capitali in eccesso in nuove localizzazioni geografiche più redditizie che offrono una soluzione temporanea alla crisi di redditività. Le periferie integrate incarnano perfettamente questa dinamica, offrendo alle aziende automobilistiche dei paesi centrali l’opportunità di mantenere o aumentare i profitti delocalizzando la produzione in aree a basso costo ma geograficamente adiacenti ai loro mercati principali. Questa soluzione è solo temporanea poiché l’afflusso di capitali in queste aree ne fa inevitabilmente aumentare i costi, avviando un nuovo ciclo di ricerca di luoghi ancora più profittevoli. Per comprendere come questo processo operi concretamente Petr Pavlínek si rivolge alla prospettiva GPN e al suo concetto di strategic coupling, l’accoppiamento strategico tra gli asset di una regione e le esigenze delle reti produttive globali. Nelle periferie integrate questo accoppiamento avviene attraverso una modalità strutturale (structural coupling), la forma meno favorevole per lo sviluppo regionale. Esso si basa su asset generici e facilmente replicabili, come surplus di manodopera a basso costo, parchi industriali e infrastrutture di trasporto che concedono alle TNC un enorme potere contrattuale e di controllo. Il tipo specifico è quello delle piattaforme di assemblaggio, caratterizzato da una produzione standardizzata, orientata all’esportazione e da alti livelli di dipendenza esterna. Sebbene in queste regioni avvenga una significativa creazione di valore, la quota che vi rimane è bassa a causa dell’alta incidenza di lavori d’assemblaggio a bassa retribuzione, della scarsità di funzioni strategiche come la R&S, dal rimpatrio degli utili e della pressione fiscale contenuta. Focalizziamo la nostra attenzione sulla Slovacchia, caso emblematico della crescita fulminea del settore auto nelle periferie integrate a partire dagli anni ’90. L’obiettivo di Petr Pavlínek è triplice: concettualizzare gli effetti di crescita e sviluppo degli IDE, analizzare come la natura di questi investimenti si rifletta nella quantità dei collegamenti con i fornitori locali e, aspetto cruciale e innovativo, valutare la modalità di articolazione delle imprese domestiche nelle GPN misurando la qualità di questi collegamenti. Proprio le supplier linkages, i collegamenti tra sussidiarie estere e imprese domestiche, sono il meccanismo ritenuto più importante per il trasferimento di tecnologia e conoscenza verso le economie ospitanti, nonché un presupposto fondamentale per la generazione di spillover positivi. La metodologia proposta distingue queste linkage in due tipi ideali, mutuati dalla letteratura di geografia economica. I linkage developmental sono collaborativi, di lungo termine e favoriscono un intenso scambio di conoscenza, incoraggiando l’upgrading funzionale delle imprese locali verso attività a più alto valore aggiunto. Al contrario, i linkage dependent sono transazionali, di breve termine, basati esclusivamente sul prezzo e spesso antagonistici, dove lo scambio informativo è minimo e le imprese domestiche sono relegate a fornire componenti semplici e standardizzati, rischiando di rimanere intrappolate in reti produttive captive e in attività a basso valore aggiunto. Il contesto delle periferie integrate, plasmato dallo structural coupling, fa propendere l’analisi per l’ipotesi di linkage scarse e di bassa qualità. Questo è ulteriormente aggravato da due soluzioni tecnologiche e organizzative: la riorganizzazione della filiera di fornitori in livelli (tiers) e la diffusione della produzione modulare che ha portato alla creazione di supplier parks vicini agli stabilimenti di assemblaggio, popolati per lo più da sussidiarie estere che hanno scarsi legami con l’economia circostante. Inoltre la pratica del global sourcing da parte delle TNCs riduce ulteriormente la necessità di approvvigionarsi localmente. I dati sulla produzione mostrano infatti una crescita esplosiva e una fortissima orientamento all’export nell’industria automobilistica di queste aree. Questa crescita è avvenuta in un quadro di alta dipendenza da capitale, tecnologia e know-how estero. La proprietà degli impianti di assemblaggio e della stragrande maggioranza della filiera fornitoria è esterna e le funzioni strategiche, come la R&S e il decision-making, sono condotte all’estero. Nonostante i significativi benefici di breve termine in termini di occupazione, formazione di capitale ed export, i potenziali effetti di sviluppo di lungo periodo degli IDE nelle periferie integrate sono limitati proprio dalla natura debole e dipendente delle linkage con le imprese domestiche. Questa situazione non solo ostacola il trasferimento tecnologico ma costituisce anche una barriera fondamentale per lo sviluppo di un’industria fornitrice domestica più solida e autonoma, perpetuando così la condizione di dipendenza tecnologica e capitalistica di regioni come la Slovacchia all’interno dell’architettura globale dell’industria automobilistica. La trasformazione dell’industria automobilistica del paese è stata guidata in modo pressoché totale dagli IDE, un processo avviatosi negli anni ’90 con l’insediamento della tedesca Volkswagen ma che ha conosciuto un’impennata decisiva nei primi anni 2000. Questa accelerazione fu catalizzata da una concomitanza di fattori: l’ingresso del paese nell’Unione Europea nel 2004 che migliorò l’accesso al mercato unico, lo sviluppo da parte dello stato slovacco di un regime aggressivo di incentivi per attrarre capitali stranieri e, elemento cruciale, l’abbondante disponibilità di manodopera a basso costo, simboleggiata da un tasso di disoccupazione pari al 19,5% nel 2001. In questo periodo, oltre all’espansione di Volkswagen, si stabilirono nel paese i colossi Kia e PSA Peugeot Citroën mentre i fornitori di componenti stranieri costruirono ben 128 nuove fabbriche tra il 1997 e il 2015.

Il risultato di questa massiccia ondata di IDE è stata una quasi totale acquisizione del settore da parte del capitale straniero. I dati del 2014 sono emblematici di questa dipendenza: le imprese a controllo estero rappresentavano il 98% del valore della produzione, il 97% degli investimenti lordi in beni tangibili, il 93% dell’occupazione e il 96% del valore aggiunto, il livello più alto di controllo straniero nell’Europa orientale. Il vantaggio competitivo fondamentale risiedeva nei costi del lavoro drasticamente più bassi: i costi del personale per dipendente erano il 74% inferiori a quelli della Germania nel 2014, un divario che era addirittura dell’86% nel 2001. Sebbene l’assorbimento della disoccupazione abbia successivamente causato un aumento dei salari, specialmente nella Slovacchia occidentale dove gli investimenti si sono concentrati, questi sono rimasti molto contenuti, con uno stipendio medio lordo di 590 euro mensili per gli operai di produzione nel 2015. La specializzazione produttiva della Slovacchia si è orientata verso modelli di entry-level e compatti, sebbene Volkswagen abbia anche instaurato un assemblaggio a basso volume ma ad alta intensità di manodopera di modelli di lusso, un’altra tipica caratteristica delle periferie integrate. Al contrario, lo sviluppo di funzioni ad alto valore aggiunto, come la R&S, è rimasto estremamente limitato. Per analizzare gli effetti di questo modello di sviluppo, la ricerca si è basata su una raccolta dati articolata. Un questionario a livello aziendale condotto nel 2010 ha coinvolto 299 imprese dell’industria automobilistica in senso lato (incluse quindi azie​​nde di settori come gomma e plastica che riforniscono il comparto auto), con un tasso di risposta del 60% che ha fornito 133 questionari completati (68 sussidiarie estere e 65 imprese domestiche). I dati dell’indagine includevano informazioni sulla complessità tecnologica, le competenze, le attività e i linkage di fornitura. A questo si sono affiancate interviste faccia a faccia condotte tra il 2011 e il 2015 con i direttori o top manager di 50 imprese (28 straniere e 22 domestiche), le quali, con questionari personalizzati, hanno permesso di raccogliere informazioni più dettagliate e qualitative sulle singole realtà. L’analisi della quantità dei linkage di fornitura ha rivelato una situazione di debole integrazione interna. I dati mostrano legami backward e forward molto tenui tra le sussidiarie straniere e le imprese domestiche, con una forte dipendenza di entrambe dalle importazioni di parti e componenti. Le sussidiarie estere hanno sviluppato solidi linkage forward quasi esclusivamente con le fabbriche di assemblaggio in Slovacchia, a causa delle esigenze di consegna just-in-time, ma i loro legami con altre sussidiarie straniere nel paese e, soprattutto, con i fornitori domestici sono debolissimi. Invece di integrarsi localmente, queste imprese sono profondamente inserite in reti produttive transnazionali, dipendendo pesantemente dagli approvvigionamenti dall’estero e esportando la quasi totalità della loro produzione, fatta eccezione per i fornitori di primo livello (tier-one) che riforniscono direttamente gli assemblaggi locali. Le imprese domestiche, da parte loro, mostrano legami più forti con altre imprese domestiche ma anch’esse hanno linkage deboli con le sussidiarie straniere e un’alta dipendenza dalle importazioni. Questa scarsità di connessioni dirette significa che la stragrande maggioranza delle imprese domestiche non può beneficiare di potenziali spillover dalle imprese straniere. Le interviste hanno confermato questi risultati e ne hanno identificato le cause profonde: il sistema degli acquisti centralizzati delle case madri (citato dal 79% delle sussidiarie intervistate), volto a massimizzare le economie di scala, la non disponibilità locale di certi componenti e materiali (46%) e la pratica per cui sono gli acquirenti stessi a dettare ai fornitori dove approvvigionarsi, il che avviene quasi sempre all’estero. Anche la relativa giovinezza degli insediamenti e le scarse competenze dei potenziali fornitori domestici, spesso incapaci di soddisfare standard qualitativi e di delivery richiesti, sono state addotte come ragioni per la carenza di linkage. L’analisi della qualità di questi linkage, valutata in base alle motivazioni degli investimenti, alle attività di R&S e alla natura dei componenti forniti, dipinge un quadro ancor più netto di dipendenza. Le ragioni degli investimenti sono state legate al taglio dei costi: follow sourcing (44%), manodopera a basso costo (28%) e incentivi (21%). Anche i vantaggi percepiti della produzione in Slovacchia si concentrano sui bassi costi di produzione (42%) e sulla prossimità geografica ai clienti (25%) mentre fattori come le competenze della manodopera sono risultati marginali. Questa logica costantemente orientata al risparmio espone il paese al rischio di delocalizzazione verso periferie ancor più integrate a basso costo, come la Romania o la Bulgaria, una minaccia concretizzatasi in casi come la delocalizzazione della produzione di cablaggi da parte di Delphi. Le condizioni di lavoro riflettono questa pressione, con salari bassi, ritmi di lavoro elevati e un alto livello di sfruttamento, come emerso dalle proteste operaie in fabbriche come PSA e Volkswagen. Le attività di R&S sono risultate estremamente limitate sia nelle sussidiarie straniere (l’86% di quelle intervistate non ne svolgeva) che nelle imprese domestiche (il 77%), nonostante il potenziale vantaggio dei bassi costi del lavoro per la R&S. Il principale ostacolo identificato è stata la carenza di ingegneri e personale tecnico qualificato che limita fortemente sia il potenziale trasferimento di conoscenza dalle foreign subsidiary sia la capacità di assorbimento (absorptive capacity) delle imprese domestiche. La maggior parte delle imprese domestiche operanti nel settore non fornisce la produzione di volumi elevati di auto ma è relegata alla produzione di nicchia o, quando fornisce componenti standard, questi sono per l’87% dei casi componenti semplici. La classificazione finale della qualità dei linkage, basata su criteri combinati dei dati d’intervista, ha rilevato che, laddove esistevano, tutti i linkage delle sussidiarie estere con i fornitori domestici (backward) e tutti i linkage forward delle imprese domestiche verso le straniere erano di tipo dipendenti. I linkage funzionali ad un certo sviluppo erano virtualmente assenti. Inoltre, metà delle imprese domestiche intervistate ha sperimentato linkage dannosi, soprattutto nel mercato del lavoro, dove la concorrenza delle sussidiarie straniere ha causato la fuga di lavoratori qualificati e l’aumento dei salari, senza però un reale trasferimento di conoscenze utili dai lavoratori assunti, spesso impegnati in compiti di semplice assemblaggio che li “dequalificano” rispetto alle esigenze di produzioni più complesse tipiche delle piccole imprese domestiche.

L’industria automobilistica, sebbene sia una delle più globalizzate al mondo con la presenza di grandi costruttori e fornitori in tutti i mercati principali, possiede una struttura geografica fondamentalmente macro-regionale, basata su reti produttive funzionalmente integrate e cluster locali. Questa configurazione permette una divisione territoriale del lavoro più efficiente che sfrutta le economie di scala e le diverse dotazioni territoriali, dai fattori produttivi naturali a quelli socialmente costruiti, favorita dai bassi costi di trasporto e dal libero scambio. Nonostante i significativi riassetti nella geografia globale del settore, l’Europa si conferma una regione produttiva di primaria importanza, rappresentando nel 2022 il 19% della produzione mondiale di veicoli e il 22% di quella di autovetture. Il suo impatto socioeconomico è enorme dato che nel 2020 impiegava direttamente 2,6 milioni di persone nella definizione ristretta del settore, un numero che sale a quasi 13 milioni considerando l’indotto, contribuendo con un attivo commerciale di 101,8 miliardi di euro e investendo 59,1 miliardi in ricerca e sviluppo. A partire dagli anni ’90 la distribuzione geografica di questa industria in Europa è stata profondamente rimodellata da una triplice forza: i cambiamenti nelle strategie produttive e organizzative delle imprese, la liberalizzazione economica e politica dei paesi dell’Europa orientale e la loro progressiva integrazione nell’Unione Europea. Questi processi hanno avuto ripercussioni significative sull’occupazione e sullo sviluppo regionale, non solo all’interno dei confini UE ma anche in paesi adiacenti come Turchia e Marocco. Per analizzare queste dinamiche bisogna soffermarsi sull’andamento della creazione e della perdita di posti di lavoro da parte delle grandi imprese nell’UE, più la Norvegia, tra il 2005 e il 2016 e le logiche alla base delle decisioni di investimento delle aziende straniere nell’Europa orientale. L’obiettivo è comprendere come l’espansione verso regioni periferiche e la loro integrazione nelle reti produttive macro-regionali ridefiniscano la geografia del settore. Petr Pavlínek, seguendo David Harvey, sostiene che le imprese capitalistiche, spinte dalla competizione e dalla ricerca di profitti, sono costantemente alla ricerca di soluzioni spaziali e temporali per contrastare il declino della redditività. Un fix spazio-temporale consiste nel localizzare la produzione in aree con surplus di manodopera e bassi salari, dove è possibile generare profitti in eccesso. Questo processo integra nuove periferie nelle reti produttive ma innesca simultaneamente processi di ristrutturazione, a volte anche di devalorizzazione, nelle localizzazioni esistenti. Il concetto di periferie integrate è una forma specifica di fix spazio-temporale nell’industria automobilistica contemporanea. Si tratta di regioni dinamiche a basso costo, geograficamente prossime ai grandi mercati occidentali, caratterizzate da un alto grado di controllo estero tramite IDE, produzione fortemente orientata all’esportazione e specializzata in veicoli standardizzati e componenti generici, con funzioni strategiche come la R&S limitate. La formazione di queste periferie integrate è resa possibile da una serie di soluzione congiunte: una soluzione tecnologica (nuove tecnologie dei trasporti, sistemi logistici e infrastrutture moderne che riducono tempo e costi), una soluzione organizzativa (la riorganizzazione delle relazioni tra costruttori e fornitori, il follow sourcing, la modularizzazione e la creazione di una filiera a livelli) e una soluzione istituzionale (politiche favorevoli agli IDE, bassa tassazione societaria, incentivi all’investimento e accordi di libero scambio come quelli legati all’allargamento dell’UE). La storia dell’industria automobilistica europea è, in effetti, una storia di continua espansione geografica attraverso la creazione successive di periferie integrate, dal Belgio e dalla Spagna negli anni ’60 e ’80, all’Europa centro-orientale e alla Turchia dagli anni ’90, fino al Sud-est europeo e al Nord Africa negli anni 2000. L’effetto netto di questa espansione, come mostrano i dati produttivi, è stato una crescita tumultuosa delle periferie integrate (la cui produzione è quasi triplicata, passando da 2,8 a 8 milioni di auto tra il 1991 e il 2019) a fronte di una sostanziale stagnazione in Germania e di un marcato declino nel resto dell’Europa occidentale (dove la produzione è crollata da 6,7 a 4,9 milioni di auto), con l’eccezione parziale del Regno Unito. L’analisi empirica, condotta su un database di 2124 eventi di ristrutturazione estratti dall’Osservatorio Europeo delle Ristrutturazioni (ERM), conferma questo spostamento spaziale. Nel periodo 2005-2016 il settore automobilistico dell’UE più Norvegia ha registrato un saldo netto negativo di 16382 posti di lavoro ma questo dato aggregato nasconde una divergenza radicale. L’Europa occidentale ha subito una perdita netta di 254317 posti di lavoro mentre l’Europa orientale ha registrato un guadagno netto di 237935 posti. Romania, Polonia, Repubblica Ceca e Slovacchia sono state le protagoniste della creazione di posti di lavoro mentre Germania, Francia, Regno Unito e Svezia hanno concentrato le maggiori perdite. L’analisi statistica rivela una correlazione negativa e altamente significativa tra la creazione di posti di lavoro e i livelli salariali medi e l’aliquota fiscale societaria media di un paese. In altre parole, più bassi sono i costi del lavoro e delle tasse e maggiore è stato l’aumento dell’occupazione. Le correlazioni per le perdite di posti di lavoro sono meno nette, suggerendo che la decisione di tagliare o mantenere l’occupazione nelle sedi esistenti è influenzata anche da altri fattori, come gli alti costi irrecuperabili (sunk costs) che legano il capitale agli impianti esistenti. Le interviste condotte con 91 manager di filiali straniere in Repubblica Ceca e Slovacchia forniscono il “perché” dettagliato dietro questi numeri. La logica del fix spazio-temporale emerge chiaramente, infatti il motivo principale dell’investimento è stato il taglio dei costi, ottenuto attraverso bassi salari (citato dal 60% delle aziende), il follow sourcing (37%) e gli incentivi agli investimenti (20%). La selezione di un sito specifico all’interno del paese scelto è stata poi dettata dalla necessità di minimizzare i costi logistici, quindi dalla vicinanza ai clienti, dall’accessibilità dei trasporti e dalla disponibilità di infrastrutture. Le interviste rivelano anche che questo processo non è guidato esclusivamente dal costo. Fattori come le competenze della manodopera, la tradizione industriale e la prossimità al mercato tedesco sono stati cruciali nella selezione del paese, anche se secondari rispetto alla variabile costo nella decisione iniziale di delocalizzare. 

Il motore primario di questa trasformazione geografica è stato il capitale straniero proveniente dai paesi centrali storici del settore. In particolare le aziende tedesche si sono distinte come attori dominanti, essendo responsabili da sole del 37% di tutti i posti di lavoro creati nell’area in esame mentre insieme alle imprese francesi raggiungevano il 51% del totale. Complessivamente le imprese di Germania, Francia, Giappone, USA, Corea del Sud e Italia hanno generato l’81% della nuova occupazione. Questo dato contrasta in modo eclatante con il contributo marginale delle aziende dell’Europa orientale che hanno creato solo il 4% dei posti di lavoro, per di più concentrati per metà in Polonia e per un quarto nella Repubblica Ceca, dimostrando così il ruolo periferico delle imprese domestiche locali e la loro mancata internazionalizzazione, con la sola eccezione ceca che ha creato occupazione in Slovacchia. Queste stesse multinazionali dei paesi centrali sono state anche le principali artefici delle perdite occupazionali, con aziende di Germania, USA, Francia, Gran Bretagna e Giappone che hanno causato l’80% dei tagli. Questo duplice ruolo, essere protagonisti sia della creazione che della distruzione di posti di lavoro, sottolinea la natura della ristrutturazione spaziale. Le grandi aziende tedesche e francesi, ad esempio, hanno prevalentemente eliminato posti di lavoro nelle loro economie domestiche (84% e 88% dei tagli rispettivamente) mentre hanno creato la maggioranza dei nuovi posti all’estero (72% e 71%). La destinazione di questa nuova occupazione è stata geograficamente iper-concentrata nella periferia integrata dell’Europa orientale che ha assorbito il 93% dei posti creati all’estero dalle imprese tedesche e il 92% da quelle francesi, supportando l’idea teorica che il capitale in eccesso delle economie centrali cerchi una soluzione spazio-temporale nelle periferie a basso costo, innescando al contempo processi di ristrutturazione e svalutazione nelle sedi originarie. Un’ulteriore dimensione analitica è emersa dall’esame della proprietà aziendale. A livello aggregato le imprese a controllo estero sono state il motore indiscusso della creazione di occupazione, generando il 79% (366020) di tutti i nuovi posti di lavoro al di fuori dei loro paesi d’origine. Questa media nasconde una divergenza fondamentale tra Europa occidentale e orientale. Nell’Est la dipendenza dal capitale straniero è stata schiacciante, con il 95% dei nuovi posti creati da imprese estere, raggiungendo picchi del 99,4% in Romania e del 98,7% in Slovacchia e toccando il minimo (ma pur sempre altissimo) in Polonia (89%) e Slovenia (70,9%). Al contrario, nell’Europa occidentale il 60% dei nuovi posti è stato creato da imprese domestiche ma con differenze marcate che riflettono la geografia del potere industriale. Paesi come Italia, Germania e Francia, cuore tradizionale del settore, hanno mostrato una bassa dipendenza da investitori esteri (2,8%, 6,5% e 13,6% rispettivamente) mentre le vecchie periferie integrate come Belgio, Portogallo, Spagna e la stessa Gran Bretagna hanno registrato una quota di creazione di occupazione da parte di investimenti esteri superiore al 90%, se non del 100%. La destinazione della creazione di posti di lavoro da parte di imprese estere è stata fortemente polarizzata: l’86% è avvenuto in Europa orientale, con l’80% del totale UE concentrato in soli cinque paesi (Romania, Repubblica Ceca, Polonia, Slovacchia e Ungheria), evidenziando uno sviluppo estremamente disomogeneo all’interno della stessa periferia. Le aziende tedesche sono state le più attive in assoluto in questo processo, creando 123273 posti di lavoro fuori dalla Germania, seguite da quelle giapponesi, francesi, americane e sudcoreane. Insieme queste cinque nazionalità hanno generato il 79% di tutta l’occupazione creata da imprese estere nell’area. Al contrario, l’83% dei posti creati da aziende domestiche si è concentrato in Europa occidentale, principalmente in Germania (49% del totale UE) e Francia (20%), segnalando la debolezza strutturale delle imprese locali nelle periferie, sia vecchie che nuove. Il bilancio netto tra creazione e perdita ci dice che le imprese straniere hanno registrato un guadagno netto di 148542 posti di lavoro fuori dal loro paese d’origine mentre le imprese domestiche hanno subito una perdita netta di 164924 posti in patria. Ancor più significativo è il dato che, nonostante il boom netto di quasi 238000 posti in Europa orientale, le aziende domestiche della regione hanno chiuso il periodo con una perdita netta di 6276 posti, confermando il loro mancato accesso alle reti di produzione globali e il fallimento nel beneficiare degli investimenti esteri attraverso significativi spillover positivi.

L’analisi degli eventi di ristrutturazione ha infine chiarito le modalità di questo processo. La maggior parte dei nuovi posti (59%) è stata creata attraverso l’espansione della produzione in siti esistenti mentre il 39% è derivato da nuovi stabilimenti. La costruzione di nuove fabbriche è stata un fenomeno quasi esclusivamente orientale (438 su 460 totali). Viceversa, l’86% delle chiusure di impianti (181 su 222) e la maggior parte delle rilocalizzazioni si sono verificate in Europa occidentale, in particolare in Gran Bretagna, Francia, Germania, Spagna e Italia. Questo evidenzia come la soluzione spaziale orientale si sia realizzata principalmente attraverso nuove edificazioni e espansioni mentre il continente occidentale ha vissuto un intenso processo di ristrutturazione, razionalizzazione e chiusure. La presenza di chiusure e rilocalizzazioni anche in paesi orientali di prima integrazione come Repubblica Ceca, Ungheria e Polonia segnala la natura temporanea e vulnerabile della stessa soluzione spaziotemporale, con le aziende costantemente alla ricerca di luoghi ancor più vantaggiosi in paesi a salari più bassi come Romania e Bulgaria.

La struttura centro-periferia dell’industria automobilistica europea rappresenta una gerarchia spaziale ben consolidata, basata sulla divisione transnazionale del lavoro, che classifica paesi e regioni in base alle funzioni economiche che svolgono all’interno delle Global Value Chain (GVC) e delle Global Production Network (GPN). Questa struttura non è binaria ma articolata in tre livelli: una parte centrale, una periferia e una semiperiferia intermedia, concetto mutuato dalla teoria dei sistemi-mondo. Le relazioni tra queste aree sono reti di integrazione caratterizzate da asimmetrie di potere e da rapporti di dipendenza, dove il centro esercita un controllo dominante sulla periferia, spesso attraverso il controllo esterno da parte delle multinazionali. Le regioni centrali si distinguono per la presenza di mercati vasti e ricchi, il possesso delle funzioni strategiche più lucrative come la ricerca e sviluppo, il management decisionale, il marketing e lo svolgimento di attività complesse e ad alto valore aggiunto che richiedono manodopera altamente qualificata, come l’assemblaggio di modelli di lusso e componenti ad alta tecnologia. Al contrario, la periferia è tipicamente caratterizzata da mercati più piccoli e meno abbienti, una specializzazione nell’assemblaggio orientato all’esportazione di modelli economici e componenti semplici, una presenza debole o assente di funzioni strategiche e spesso funge da laboratorio per sperimentare nuove forme organizzative o produzioni a basso volume e ad alto rischio. La semiperiferia occupa una zona ibrida, dove coesistono processi sia centrali che periferici, fungendo da cuscinetto e da intermediario tra i due estremi. La collocazione di singoli paesi all’interno di questa gerarchia è stata oggetto di dibattito. Ad esempio, mentre alcuni autori classificano l’Europa dell’Est interamente come periferia, altri sostengono che economie automotive avanzate come quella della Polonia e della Repubblica Ceca abbiano ormai raggiunto lo status di semiperiferia. Dispute simili riguardano la posizione della Spagna. Queste ambiguità derivano principalmente dall’uso di criteri di valutazione differenti e dal riferimento a periodi temporali diversi. Molti di questi studi mancano di una solida verifica empirica. Petr Pavlínek si propone proprio di colmare questa lacuna utilizzando il modello centro-periferia di Friedmann e la teoria del fix spazio-temporale e dello sviluppo diseguale di Harvey, contestualizzandoli all’interno delle prospettive delle GVC e delle GPN. L’obiettivo è spiegare l’espansione geografica delle reti produttive verso le periferie e sviluppare una metodologia per misurare empiricamente la posizione dei paesi nella gerarchia. L’analisi si concentra sul periodo 2003-2017 e, nonostante la profonda ristrutturazione spaziale avvenuta dal 1990, rivela una struttura complessiva sorprendentemente stabile. La metodologia elaborata supera la semplice analisi dei flussi commerciali, ritenuta insufficiente per catturare le dinamiche di potere. Essa combina tre dimensioni fondamentali in un indice aggregato denominato automotive industry power. La prima dimensione è il potere posizionale che misura le asimmetrie di potere nelle reti sulla base dei flussi commerciali bilaterali, calcolando sia il producer-driven power (quanto un paese esporta verso molti partner, rendendoli dipendenti) sia il buyer-driven power (quanto un paese importa da molti partner, rendendoli dipendenti dalle sue importazioni). La seconda dimensione è il potere di proprietà e controllo, misurato dal grado di controllo estero sulla produzione nazionale che riflette il fenomeno del dominio effect e del trasferimento di valore dalla periferia al centro. La terza dimensione è il potere di innovazione, ovvero il tasso di attività innovativa nel settore automobilistico di un paese. Un’analisi cluster di questo indice composito permette di classificare empiricamente i paesi europei in centro, semiperiferia e periferia.

Il dinamismo spaziale di queste reti è alimentato dalla ricerca del profitto da parte delle imprese del centro che cercano continuamente di ridurre i costi di produzione, in particolare quelli del lavoro, investendo in aree periferiche con surplus di manodopera a basso costo. Questo processo, concettualizzato come fix spazio-temporale, è facilitato dal crollo dei costi di trasporto, dalla liberalizzazione degli investimenti e dalle politiche statali che offrono incentivi e infrastrutture. Questa soluzione è temporanea. L’afflusso di investimenti fa salire i salari nella nuova periferia, erodendo il vantaggio di costo e spingendo il capitale a cercare nuove aree vergini, in un ciclo continuo di espansione geografica e di “rimbalzo” della crescita da una regione all’altra. L’integrazione di nuove periferie innesca una complessa ristrutturazione nell’intero sistema. Le regioni del centro, sebbene possano subire la delocalizzazione delle attività a maggiore intensità di lavoro e a basso valore, si specializzano ulteriormente nelle funzioni ad alto capitale e alte skills, rafforzando la loro posizione dominante. Nel contempo le periferie integrate in precedenza (come Spagna e Belgio) possono essere colpite da chiusure e delocalizzazioni verso le nuove periferie a costo ancora più basso, come documentato dai dati sui grandi eventi di ristrutturazione in Europa occidentale tra il 2005 e il 2016 che hanno portato a centinaia di migliaia di perdite di posti di lavoro nette. Il risultato finale è una divisione del lavoro sempre più fine e una specializzazione regionale più marcata all’interno delle GPN europee che riproduce, seppur in forma dinamica, la gerarchia fondamentale tra centro, semiperiferia e periferia.

Secondo il framework teorico di Friedmann questi sistemi spaziali sono integrati da relazioni di autorità-dipendenza, il che implica la necessità di misurare il potere e il controllo in termini di proprietà e capacità decisionale. La domanda centrale è: chi detiene il potere di decidere cosa viene prodotto, dove, a quale prezzo e come vengono distribuiti i profitti all’interno della GPN? La risposta a questo interrogativo fornisce proxy fondamentali per distinguere le posizioni centrali da quelle periferiche. I paesi centrali sono identificati come quelli che esercitano il controllo sulla produzione in altre nazioni, primariamente attraverso le loro imprese transnazionali (TNCs) che possiedono direttamente impianti produttivi all’estero. Questo controllo si manifesta anche indirettamente, dettando i termini degli scambi commerciali e dominando una rete di fornitori locali “prigionieri” (captive) nelle regioni periferiche. Il cuore decisionale di queste TNCs, e dunque dell’intera GPN, rimane fortemente concentrato nelle sedi centrali situate nel paese d’origine della multinazionale. Al polo opposto i paesi periferici sono caratterizzati da una dipendenza da capitali esteri, dove la loro industria automobilistica è prevalentemente controllata dall’estero attraverso la proprietà diretta degli impianti. Questa dipendenza finanziaria si traduce inevitabilmente in una dipendenza strategica, tecnologica, di know-how e gestionale, come dimostrato empiricamente dai casi dell’Europa orientale, dove le decisioni cruciali sugli stabilimenti di proprietà estera sono prese dalle case madri all’estero. Per quantificare queste dinamiche Petr Pavlínek costruisce un indicatore composito sofisticato. Il punto di partenza è il potere posizionale di un paese, derivato dai dati sul commercio. Per riflettere il reale controllo questo indicatore viene normalizzato attraverso un indice di controllo estero. Questo indice, calcolato per ogni paese e anno tra il 2003 e il 2017, è la media della quota di imprese a controllo estero su cinque indicatori chiave del settore automobilistico (valore della produzione, valore aggiunto, investimenti, occupati e fatturato). Il risultato è un valore compreso tra 0 (controllo domestico totale) e 1 (controllo estero totale). La normalizzazione ha l’effetto di rafforzare la posizione relativa di paesi con un basso indice di controllo estero, come la Germania, e di indebolire quella di paesi con un alto indice, come la Slovacchia. Un ulteriore e decisivo livello di analisi è rappresentato dall’integrazione della dimensione innovativa poiché le aree centrali sono per definizione i principali centri di innovazione del sistema. Viene quindi calcolato un indice di innovazione, basato sulla quota del personale R&S e sulla spesa in R&S rispetto al valore della produzione, normalizzato su una scala da 0 a 1. Il potere posizionale già normalizzato per il controllo estero viene infine moltiplicato per questo indice di innovazione, dando vita al valore finale di potere dell’industria automobilistica. Quest’ultimo passaggio penalizza ulteriormente i paesi con scarse capacità innovative, premiando quelli che uniscono il controllo proprietario a un’elevata intensità di ricerca e sviluppo. I risultati dell’analisi cluster su questi dati, condotta su medie quinquennali per smussare le fluttuazioni annuali, delineano una gerarchia chiara e articolata in cinque categorie spaziali: centro di ordine superiore, centro di ordine inferiore, semiperiferia, periferia e periferia di ordine inferiore. L’analisi rivela l’esistenza di un centro stabile composto da Germania, Francia e Italia. Tra queste la Germania si erge in una posizione di centro di ordine superiore assolutamente dominante, con un potere dell’industria automobilistica che, in media, è 8,4 volte superiore a quello della Francia e 12,5 volte superiore a quello dell’Italia. Questo primato è il frutto della sua incontrastata leadership nel potere posizionale commerciale, del più basso indice di controllo estero (segno di un’industria saldamente in mani nazionali) e del secondo più alto indice di innovazione.

La Francia e l’Italia costituiscono invece il centro di ordine inferiore stabile. La posizione della Francia, seppure solida, ha mostrato un relativo indebolimento nel periodo studiato, attribuibile al declino della sua industria automobilistica e alla parziale delocalizzazione di attività R&S cruciali, come lo sviluppo di intere piattaforme automobilistiche in Romania e India. L’Italia, nonostante un potere posizionale inferiore non solo alla Francia ma anche a Belgio, Gran Bretagna e Spagna, mantiene la sua collocazione di centro grazie a un indice di controllo estero molto basso, simile a quello francese, che testimonia un’alta percentuale di controllo nazionale sul proprio settore automobilistico. Adiacente a questo nucleo stabile si trova il nucleo instabile, rappresentato da Svezia e Regno Unito, le cui posizioni oscillano al confine con la semiperiferia. La posizione della Svezia poggia tradizionalmente sul più alto indice di innovazione in Europa ma è stata erosa dopo la crisi del 2007-2008 dal crollo di Saab e dall’acquisizione di Volvo Cars prima da parte di Ford e poi di Geely. Questi eventi hanno aumentato drasticamente l’indice di controllo straniero del paese (portandolo al settimo posto più alto nell’UE) e ne hanno peggiorato il ranking del potere posizionale. Analogamente il Regno Unito combina un forte potere posizionale (era il quarto produttore europeo fino al 2018) e una solida innovazione con uno dei gradi di controllo straniero più elevati dell’Unione (80% in media). Il calo della produzione osservato dal 2017 suggerisce che l’incertezza legata alla Brexit potrebbe ulteriormente minare la sua posizione relativa nel lungo periodo, orientandola verso la semiperiferia. La semiperiferia stabile è un gruppo geograficamente concentrato in Europa occidentale che include Austria, Paesi Bassi, Spagna, Belgio e Finlandia. Quest’area è caratterizzata da un alto grado di controllo straniero, un potere posizionale generalmente inferiore a quello della Germania e della Francia e una forza variabile nell’innovazione. La Spagna, secondo produttore europeo, è un esempio di vecchia periferia integrata avanzata grazie a investimenti esteri ma il suo potere posizionale è limitato dalla specializzazione in veicoli di piccolo taglio a basso-medio valore aggiunto e da una forte dipendenza dal capitale estero. Il Belgio, un altro caso simile, deve il suo relativo potere posizionale alla specializzazione di due stabilimenti (Audi Brussels e Volvo Car Gent) nella produzione di SUV di lusso ed elettrici ad alto valore aggiunto per l’esportazione ma anch’esso è frenato da un alto controllo straniero e un indice di innovazione debole. L’Austria, nonostante un potere posizionale modesto, vanta la terza migliore capacità di innovazione in Europa, dopo Svezia e Germania, che ne definisce la forza. I Paesi Bassi mostrano una dinamica simile, con un potere posizionale in crescita e un indice di innovazione solido. La Finlandia, infine, completa il gruppo con un bassissimo grado di controllo straniero (dovuto alla presenza di Valmet, un produttore contrattuale di proprietà domestica) e un indice di innovazione rispettabile, nonostante le piccole dimensioni del suo settore. In netto contrasto, la periferia è prevalentemente situata nell’Europa orientale ed è definita dai valori più alti di controllo straniero, dai più bassi indici di innovazione e, con alcune eccezioni, da un basso potere posizionale. Questo divario è il risultato dell’integrazione nella produzione transnazionale guidata dagli investimenti esteri, dove la crescita esplosiva della produzione e delle esportazioni non è stata accompagnata da un parallelo sviluppo delle attività di innovazione né dal rafforzamento del settore domestico. La periferia stabile include Polonia, Portogallo, Romania, Estonia e Lituania. La Polonia mostra i segni più promettenti di progressione verso la semiperiferia, con un potere industriale in rapida crescita che ha raggiunto quello della Repubblica Ceca nel 2016-2017 e un miglioramento relativo nell’innovazione. La Romania, nonostante il secondo più grande miglioramento nel potere posizionale di tutta l’UE grazie a un massiccio afflusso di IDE, ha simultaneamente registrato il secondo più grande calo nel ranking dell’innovazione e il più grande peggioramento nel controllo straniero, consolidando la sua posizione periferica. Portogallo, Estonia e Lituania hanno industrie più piccole ma con un controllo straniero meno pervasivo rispetto al resto dell’Europa orientale. Infine la periferia instabile (o di ordine inferiore) è composta da Irlanda, Ungheria, Lettonia e Slovacchia. Slovacchia e Ungheria, pur avendo industrie automobilistiche molto grandi e in crescita, rappresentano l’apice della periferizzazione. La Slovacchia detiene il triste primato del più alto indice di controllo straniero (95,6%) e del secondo più basso indice di innovazione in Europa mentre l’Ungheria è al secondo posto per controllo straniero. Il loro miglioramento nel potere industriale è stato trainato esclusivamente dall’aumento della produzione per esportazione che ha rafforzato il potere posizionale ma senza apportare benefici significativi in termini di autonomia o innovazione. Le prospettive future indicano una probabile consolidazione di queste posizioni instabili, con Svezia e Regno Unito in trend discendente verso la semiperiferia e paesi come Danimarca, Repubblica Ceca e Slovenia destinati a stabilizzarsi nella periferia piuttosto che risalire. Sebbene il divario di potere industriale tra la periferia avanzata e la semiperiferia si stia restringendo, un vero balzo di qualità richiederebbe uno sviluppo endogeno del settore domestico e un potenziamento radicale delle attività di innovazione, entrambi ostacolati dalla schiacciante predominanza del capitale estero. I prossimi cambiamenti epocali del settore, come l’elettrificazione e la digitalizzazione, rischiano di acuire queste disparità poiché il nucleo e la semiperiferia occidentale, grazie ai loro asset istituzionali, di ricerca e di prossimità al mercato, sono già avvantaggiati nell’implementare per primi queste transizioni, lasciando la periferia orientale in una posizione di dipendenza tecnologica e produttiva.

L’industria automobilistica moderna è strutturata attorno a reti di produzione verticalmente integrate, dominate da grandi aziende assemblatrici (lead firms) che esternalizzano la maggior parte della produzione di componenti a una gerarchia di fornitori indipendenti. Questi fornitori sono organizzati in tier, livelli che si distinguono non solo per la complessità tecnologica dei componenti prodotti ma anche per caratteristiche intrinseche come la dimensione aziendale e il potere corporativo che esercitano all’interno della rete. Petr Pavlínek si propone di investigare come queste diverse posizioni nelle GVC e nelle GPN influenzino la capacità delle imprese di creare e, soprattutto, di catturare valore, ponendosi quattro interrogativi fondamentali: se le imprese di tier più elevato creano e catturano più valore di quelle di tier inferiore, se possiedono competenze più solide e diversificate, se importano una quota maggiore o minore di input dall’estero e se le imprese a controllo domestico importano meno input di quelle a controllo estero. L’analisi si contestualizza nell’industria automobilistica ceca, esemplare perfetto di periferia integrata dell’industria europea. Queste regioni periferiche sono state incorporate nelle reti di produzione macro-regionali attraverso massicci afflussi di IDE da parte di multinazionali transnazionali (TNC) attratte dai bassi costi di produzione, dagli incentivi governativi e dai vantaggi dei blocchi economici regionali. La natura periferica della Repubblica Ceca è resa evidente dai dati del 2019 che mostrano un controllo straniero schiacciante. Le imprese estere rappresentavano l’85,6% dell’occupazione del settore, il 95,5% del valore aggiunto, il 95,5% della produzione, il 95,4% del fatturato e il 95,1% degli investimenti lordi. Questo dominio si riflette anche in una presenza limitatissima di funzioni strategiche ad alto valore, come sedi centrali corporate e attività di ricerca e sviluppo che rimangono saldamente localizzate nei paesi d’origine delle TNC. Il cuore metodologico del lavoro di Petr Pavlínek è lo sviluppo di un approccio per misurare la creazione e la cattura del valore a livello aziendale. La creazione di valore è definita come l’insieme delle attività che incrementano il valore del bene finale rispetto a quello degli input utilizzati per produrlo e viene misurata operativamente attraverso due indicatori: il valore aggiunto nella produzione e la produttività del lavoro (valore aggiunto per dipendente). La cattura del valore è un concetto più complesso e geograficamente articolato e si riferisce alla quota di valore creato che viene trattenuta nell’economia regionale ospitante dalla filiale o impresa che l’ha generato, senza essere trasferita all’estero. Essa è composta da due elementi: il valore trattenuto dall’impresa stessa (ad esempio attraverso i reinvestimenti) e il valore che “percola” ad altri attori locali attraverso meccanismi di distribuzione. Per quantificarla l’analisi si avvale di quattro metriche: i salari, le entrate fiscali corporate, i reinvestimenti (misurati indirettamente attraverso la variazione delle attività materiali) e l’approvvigionamento domestico di input.

Il quadro teorico sottolinea come la divisione spaziale del lavoro internazionale sia plasmata dalla capacità delle TNC di frammentare la catena del valore e localizzare le varie funzioni dove è massima la redditività. Gli studi di geografia economica cercano di mappare dove il valore viene creato e catturato per comprendere il contributo delle GPN allo sviluppo economico regionale e come i flussi di valore alimentino lo sviluppo diseguale. Un assunto fondamentale è che nell’economia contemporanea il valore maggiore sia creato e catturato nella produzione di beni immateriali e servizi knowledge-intensive (come R&S, design, marketing e vendite) piuttosto che nelle mere operazioni di manufacturing di beni tangibili. Le imprese capofila, controllando questi segmenti, erigono alte barriere all’entrata e si assicurano la fetta più grande dei profitti, come dimostrato empiricamente nell’industria elettronica, dove i brand owner catturano la maggior parte del valore, lasciando ai manufacturer solo una quota minoritaria. Sebbene l’industria automobilistica differisca da quella elettronica perché gli assemblaggi finali non sono esternalizzati, i fornitori esterni contribuiscono ormai al 75-80% del valore del veicolo finito. Questo non significa che catturino una quota equivalente di valore. Le lead firm e i principali fornitori hanno progressivamente spostato le attività produttive a più basso valore aggiunto verso economie emergenti a basso costo, mantenendo le funzioni ad alto valore e strategiche nei paesi centrali. Questa divisione spaziale del lavoro, strettamente legata ai modelli di proprietà e controllo, fa sì che le filiali periferiche a controllo estero siano spesso “stabilimenti troncati”, specializzati in manufacturing ad alto volume ma con scarse funzioni non produttive, il che limita i loro benefici per lo sviluppo regionale a lungo termine e può persino contribuire al sottosviluppo tecnologico della regione ospitante. Anche i processi di riorganizzazione produttiva e di upgrading funzionale sono risultati estremamente difficili da realizzare per le imprese domestiche delle periferie, relegate sempre più alla base della gerarchia dei fornitori, specializzate in componenti semplici, standardizzati e a basso valore aggiunto.

La misurazione del valore catturato deve quindi andare oltre il semplice profitto, un indicatore volatile e facilmente manipolabile attraverso strategie di profit-shifting e transfer pricing con cui le TNC possono allocare gli utili verso subsidiary in paradisi fiscali. Il valore aggiunto lordo viene quindi preferito come indicatore più stabile e territorialmente radicato della creazione di valore. La cattura del valore a livello regionale viene concettualizzata come la somma del valore trattenuto dall’impresa per la propria competitività futura (reinvestimenti, competenze, innovazione) e del valore distribuito localmente (salari, tasse, indotto). Salari, tasse, reinvestimenti e sourcing locale sono i quattro canali misurabili, sebbene interconnessi e a volte in tensione tra loro (ad esempio, salari più alti possono erodere gli utili e quindi la base imponibile). Le ipotesi guida dell’analisi empirica sono quindi che: i salari siano più alti nelle imprese di tier superiore grazie al loro potere di mercato e alle competenze, le entrate fiscali seguano la distribuzione dei profitti, presumibilmente più alti nei tier superiori, ma con una propensione al profit-shifting più marcata nelle imprese estere, i reinvestimenti siano un indicatore di radicamento territoriale e infine la propensione all’approvvigionamento domestico sia influenzata in modo complesso dal tier. La prossimità geografica è cruciale per i fornitori di primo livello (tier-1) che riforniscono just-in-time, suggerendo un alto sourcing locale attorno agli impianti di assemblaggio. La globalizzazione ha relegato molti fornitori domestici a produrre componenti semplici, rendendo necessario per i tier-1 e gli assembler importare componenti ad alta tecnologia non disponibili localmente. Focalizzando lo sguardo sull’industria automobilistica ceca notiamo che il settore è stato trasformato da massicci afflussi di IDE a partire dal post-1990, integrandola profondamente nelle reti produttive europee. Questo processo ha catapultato la produzione da 197000 veicoli nel 1991 a 1,46 milioni nel 2019, posizionando la Repubblica Ceca come il secondo paese dell’Europa dell’Est per stock di IDE nel settore, con 10 miliardi di euro nel 2019. La struttura industriale che ne è emersa è rigidamente gerarchica e piramidale, composta da un esiguo numero di grandi assembler (9), da un gruppo limitato di fornitori di primo livello o tier-one (49), da una cerchia più ampia di fornitori di secondo livello o tier-two (148) e da una base larghissima di fornitori di terzo livello o tier-three (269). Le disparità dimensionali sono eclatanti. Gli assembler sono in media quattro volte più grandi dei tier-one, undici volte più grandi dei tier-two e quasi venti volte più grandi dei tier-three, con una media di 3581 dipendenti per assemblatore contro appena 184 per un fornitore tier-three. Questa gerarchia si riflette in modo netto negli indicatori economici aggregati. Sebbene rappresentino solo il 20,9% dell’occupazione totale del settore, gli assembler contribuiscono per il 40% della produzione, il 33,4% del valore aggiunto, il 25,1% dei salari ma ben il 52,6% delle entrate fiscali societarie e il 59,2% della spesa in R&S dell’intero settore automobilistico ceco. Questi dati aggregati sono distorti dalla presenza schiacciante di Škoda Auto, un caso atipico definito “tier-two lead firm” che, pur essendo di proprietà di Volkswagen, conserva più funzioni strategiche di un tipico impianto di assemblaggio greenfield e da sola rappresenta il 27% della produzione, il 25% del valore aggiunto e addirittura il 67% della spesa in R&S di tutto il settore. Su questa struttura Petr Pavlínek testa cinque ipotesi, servendosi di un database unico di 475 aziende con almeno 20 dipendenti, i cui dati finanziari sono stati integrati con un sondaggio telefonico del 2009 (con un tasso di risposta del 34,6%) e 100 interviste sul campo condotte tra il 2009 e il 2011. La prima ipotesi, che le imprese di livello superiore creino un valore maggiore per dipendente, trova piena conferma. La produttività del lavoro, misurata in valore aggiunto per dipendente, è nettamente scalare. Nel periodo 2006-2008 un assembler generava in media 952000 CZK per dipendente, un fornitore tier-one 670000, un tier-two 559000 e un tier-three 474000. Questo divario è aumentato tra il 1998 e il 2010, con la produttività cresciuta del 93% per gli assembler e addirittura del 108% per i tier-one, contro un 61% per i tier-two e un 88% per i tier-three. In un paradosso solo apparente la quota di valore aggiunto sul valore totale della produzione è in realtà più bassa per i tier alti (16,6% per gli assembler nel 2010) che per quelli bassi (22,6% per i tier-three). Ciò non indica un downgrading ma il modello di business degli assembler e dei grandi tier-one che esternalizzano massicciamente la produzione, destinando la stragrande maggioranza dei loro ricavi all’acquisto di componenti, materiali e servizi mentre i costi salariali rappresentano meno del 10% del valore della produzione. Il loro vantaggio deriva quindi dall’intensità capitalistica (1397000 CZK di asset tangibili per dipendente contro i 461000 dei tier-three) e dal potere contrattuale che permette loro di spremere i fornitori, come dimostrato in modo drammatico durante la crisi del 2007-2008, quando la redditività è crollata del 59% per i tier-one, del 73% per i tier-two e del 71% per i tier-three ma solo del 19% per gli assembler. La seconda ipotesi, che i fornitori domestici importino una quota minore di input dall’estero, è solidamente confermata dai dati del sondaggio. Nel 2009 i fornitori domestici si approvvigionavano localmente per il 62,3% dei componenti, contro il 44,2% dei fornitori stranieri, vincolati dalle strategie di sourcing centralizzato delle loro case madri. La terza ipotesi, che i tier superiori importino meno dei tier inferiori, è confermata solo per le imprese straniere. Tra queste gli assembler si approvvigionano in Repubblica Ceca per il 67,6% dei componenti, i tier-one per il 49,5%, i tier-two per il 37,2% e i tier-three per appena il 34,6%. Questo gradiente è dettato dalle esigenze della produzione just-in-time e modulare che costringono gli stabilimenti finali a una forte integrazione locale mentre i tier-three, producendo componenti standardizzati, possono più facilmente importare da paesi a basso costo. L’analisi sulla cattura del valore rivela una dinamica cruciale per l’economia ceca. Se la creazione di valore è aumentata enormemente, la sua ritenzione in patria è stata limitata. La quota delle imposte societarie sul valore della produzione è crollata dall’1,6% del 1998 allo 0,6% del 2009, a causa della riduzione dell’aliquota fiscale dal 35% al 21%, dei generosi incentivi agli investitori e, soprattutto, del massiccio rimpatrio degli utili. I dividendi trasferiti all’estero sono esplosi, passando da 2,5 milioni di euro nel 2000 a 813 milioni nel 2008, per poi stabilizzarsi su livelli elevatissimi (1,9 miliardi nel 2019). Il dato cumulativo è impressionante poiché tra il 1998 e il 2021 delle aziende straniere hanno generato utili per 20,9 miliardi di euro ma ne hanno reinvestiti in loco solo 5,6 miliardi (il 27%), rimpatriandone 15,2 miliardi (il 73%). Questo significa che il valore catturato attraverso i profitti è diminuito nonostante l’aumento degli IDE. La cattura avviene invece attraverso i salari, cresciuti in media del 99% tra il 1998 e il 2010, con gli aumenti più consistenti proprio nei tier-one (+123%), e attraverso il gettito fiscale, dove però il contributo è estremamente squilibrato. Gli assembler, con il 18,2% dell’occupazione, generavano il 49,8% delle entrate fiscali societarie grazie alla loro capacità di concentrare i profitti. Le ipotesi quattro e cinque, le più teoriche, vengono categoricamente respinte dai dati del sondaggio, rivelando una fondamentale specificità del modello ceco. Contrariamente all’aspettativa non sono i tier superiori a possedere più funzioni strategiche non produttive (R&S, design, marketing, pianificazione). In media i tier-one stranieri sono quelli che svolgono meno funzioni in loco (solo il 53% delle funzioni indagate), seguiti dagli assembler stranieri (40%). Queste competenze sono saldamente custodite nelle sedi centrali all’estero. Sono invece le imprese domestiche, indipendentemente dal loro tier, a svolgere la stragrande maggioranza delle funzioni strategicamente in Repubblica Ceca (dall’88% al 100%). Di conseguenza la quinta ipotesi è anch’essa respinta: i tier superiori catturano sì più valore (con salari più alti e maggiori entrate fiscali) ma non a causa di un maggior numero di funzioni non produttive, bensì a causa della loro maggiore dimensione, del potere di mercato, dell’intensità capitalistica e della produttività, tutti fattori derivati in gran parte dal trasferimento di tecnologia dall’estero piuttosto che da competenze immateriali sviluppate in loco.

L’industria automobilistica europea è impegnata in una transizione epocale dalla produzione di veicoli con motore a combustione interna a quella di veicoli elettrici, una trasformazione resa inevitabile dall’adozione di standard stringenti sulle emissioni di CO₂ da parte della Commissione Europea e, in particolare, dal pacchetto Fit for 55 che di fatto vieterà la vendita di nuovi veicoli a combustibile fossile a partire dal 2035. Petr Pavlínek prova ad analizzare l’impatto di questa transizione nell’Europa dell’Est, sostenendo che il suo percorso sarà profondamente condizionato dalla posizione storica e strutturale che la regione occupa all’interno delle GVC e delle GPN dell’automotive europeo. Lo sviluppo dell’industria automobilistica nell’Europa dell’Est è un fenomeno relativamente recente, avviato a seguito dell’apertura della regione a investimenti e commercio negli anni ’90. Fattori cruciali come i bassi costi di produzione, il potenziale di mercato, la prossimità geografica, l’adesione all’UE e, soprattutto, l’abbondante surplus di manodopera e gli ingenti incentivi statali hanno attirato massicci IDE. Il risultato è stato una crescita esponenziale. Lo stock di IDE nel settore ristretto della fabbricazione di autoveicoli (NACE 29) ha raggiunto i 45 miliardi di euro nel 2019, con una concentrazione geografica marcatissima in cui Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Slovacchia da sole rappresentano l’80% del totale. Questo afflusso di capitali ha portato la produzione di veicoli a moltiplicarsi di 6,6 volte tra il 1991 e il 2019, toccando 4,4 milioni di unità e arrivando a costituire il 24,9% della produzione totale dell’UE, una quota salita ulteriormente al 26,2% nonostante il crollo produttivo dovuto alla pandemia nel 2020.

Questa crescita è stata trainata principalmente dalla produzione di autovetture, aumentata di quasi sette volte, e concentrata in stabilimenti orientati all’esportazione situati in pochi paesi cardine, con Repubblica Ceca e Slovacchia che da sole rappresentano il 63% della produzione regionale. Il valore della produzione del settore automobilistico è aumentato di otto volte tra il 1999 e il 2020 mentre quello dei componenti è addirittura cresciuto di quattordici volte, segno di un indotto profondo e ramificato, pur se geograficamente concentrato nelle stesse nazioni. Questo modello di crescita basato sugli IDE ha iniziato a mostrare i suoi limiti strutturali già prima della pandemia. Il rapido sviluppo ha progressivamente esaurito il surplus di manodopera che ne era il fondamento, portando a carenze di lavoro acute e spingendo i salari verso l’alto. Paesi come la Repubblica Ceca, con tassi di disoccupazione cronicamente sotto il 3% e tassi di posti vacanti in manifattura tra i più alti d’Europa (4,7% nel 2022), ne sono l’esempio più lampante. Questa scarsità di manodopera, particolarmente critica nei distretti industriali dove gli stabilimenti sono clusterizzati, è ormai identificata come il principale ostacolo agli investimenti in tutta la regione, costringendo le aziende a ricorrere massicciamente a lavoratori stranieri e al lavoro interinale. In linea con le teorie dello sviluppo geograficamente disuguale, questo sta già innescando una prima delocalizzazione degli investimenti più labor-intensive verso nuove periferie con surplus di manodopera ancora disponibile, come Serbia, Bosnia ed Erzegovina, Macedonia del Nord o addirittura fuori dal continente, come nel caso degli impianti in Marocco. La natura della integrazione nell’industria europea ha inoltre definito una precisa divisione del lavoro. Gli investitori stranieri hanno perseguito principalmente una strategia di taglio dei costi, delocalizzando in Europa dell’Est le funzioni produttive mentre mantenevano saldamente in patria le funzioni a più alto valore aggiunto come la R&S, il design e il marketing. Nel tempo si è indubbiamente verificato un significativo upgrading di processo e di prodotto. Gli stabilimenti dell’Europa dell’Est sono oggi moderni e tecnologicamente avanzati, producono veicoli di alta qualità e i fornitori hanno aumentato la loro sofisticazione. Tuttavia l’upgrading funzionale è rimasto molto limitato. Il controllo straniero del settore è schiacciante, con indici che superano il 90% in Slovacchia, Ungheria, Romania e Repubblica Ceca. Sebbene il basso costo della manodopera specializzata abbia attratto alcuni investimenti in R&S, la quota dell’Europa dell’Est negli impieghi in R&S del settore automobilistico UE è rimasta bassissima (8,7%) e ancor più irrisoria è la sua quota nella spesa per R&S, ferma a un mero 3,6%, a testimonianza di una dipendenza strutturale dalle case madri per l’innovazione e lo sviluppo tecnologico. Ne consegue che il percorso dell’Europa dell’Est nell’elettromobilità non sarà autonomo ma sarà largamente determinato dalle strategie delle case madri straniere e dalla loro volontà di allocare investimenti in veicoli elettrici e, crucialmente, nella filiera delle batterie, nella regione. La transizione è quindi intrinsecamente vincolata e condizionata dall’eredità del modello di sviluppo di periferia integrata che continuerà a plasmare le opportunità e le sfide della regione in questo nuovo panorama industriale.

La narrazione prevalente sullo sviluppo dell’industria automobilistica nell’Europa dell’Est, spesso celebrata come un successo incondizionato da agenzie governative, politici e media, si rivela, quindi, notevolmente semplicistica e acritica. Questa visione, esemplificata dal caso della Slovacchia che si autoproclama “superpotenza” automobilistica globale basandosi esclusivamente sul picco della produzione pro capite, si concentra su indicatori quantitativi a breve termine, come afflussi di capitale estero, creazione di posti di lavoro e volumi di produzione, ignorando deliberatamente le profonde implicazioni strutturali di questo modello di crescita. Il fulcro del problema risiede nel fatto che questa espansione è un fenomeno quasi interamente esogeno, pilotato dagli IDE, e ha un legame minimo con la natura e il livello di sviluppo endogeno delle economie nazionali. Queste narrazioni ottimistiche tendono a sottovalutare o addirittura a ignorare del tutto le conseguenze a lungo termine, che si materializzano in nuove e pervasive dipendenze di capitale, tecnologiche, finanziarie e decisionali oltre che in una massiccia emorragia di valore sotto forma di rimpatrio di dividendi e profitti, fattori che minano alla base la capacità di questi paesi di migliorare la loro posizione nella divisione internazionale del lavoro e di colmare il divario di sviluppo con l’Europa occidentale. L’emblema di questa contraddizione è la Slovacchia, dove, nonostante il primato produttivo, l’indice di controllo straniero del settore automobilistico raggiungeva il 97,9% nel 2019, il più alto dell’Unione Europea, con quote di capitale estero sul valore della produzione, sul valore aggiunto e sul fatturato che superavano stabilmente il 99%. Tutte le vetture sono assemblate in fabbriche di proprietà estera, basate su tecnologia, organizzazione del lavoro, management e attività di ricerca e sviluppo decise altrove. Questo settore controllato dall’estero risulta perlopiù isolato dall’economia slovacca, caratterizzato da legami tenui e fragili con le imprese domestiche, il che vanifica il potenziale di spillover tecnologici e conoscitivi. Il contributo primario e più significativo che la Slovacchia, e per estensione l’intera regione, apporta alla filiera è il fattore lavoro a costo relativamente basso rispetto all’Europa occidentale. Ciò configura non il profilo di una superpotenza ma una posizione periferica e subordinata all’interno del sistema produttivo europeo, controllato da lontano dalle aree centrali globali. Questa condizione di periferia integrata è condivisa, seppur con alcune gradazioni, da tutti i principali paesi automobilistici dell’Europa dell’Est, intrappolati in una posizione di alta dipendenza all’interno delle Global Value Chains e delle Global Production Networks. Il concetto di periferia integrata, fondamentale per inquadrare analiticamente la regione, definisce un’area dinamica di produzione a basso costo, geograficamente adiacente a un grande mercato (l’Europa occidentale) e integrata all’interno di una rete produttiva macro-regionale basata sul centro attraverso il veicolo degli IDE, dove le funzioni produttive, organizzative e strategiche sono controllate esternamente attraverso la proprietà straniera. Le sue caratteristiche distintive e interconnesse sono molteplici: costi del lavoro sostanzialmente più bassi, sebbene il divario salariale si sia ridotto rispetto agli anni ’90, la presenza iniziale di un surplus di manodopera che, a causa della crescita trainata dagli IDE, si esaurisce nel tempo, generando carenze che minano le prospettive future, la prossimità geografica ai mercati lucrativi centrali, in primis la Germania, favorita da moderne infrastrutture di trasporto, l’appartenenza all’UE che garantisce accesso senza dazi, un grado elevatissimo di proprietà e controllo estero che nei principali paesi supera il 90%, una produzione fortemente orientata all’esportazione di vetture standardizzate e componenti generici, con oltre il 90% della produzione destinata ai mercati esteri, una specializzazione regionale in compiti produttivi a basso valore aggiunto e ad alta intensità di manodopera, una presenza debolissima di funzioni strategiche ad alto valore aggiunto come la R&S e il decision-making che determina uno “sviluppo troncato” del settore, politiche statali amichevoli verso gli IDE e grandi incentivi che innescano una “corsa al ribasso” tra i paesi competitor, un ambiente sindacale più debole e codici del lavoro più liberali e flessibili e, infine, un’industria domestica sottosviluppata e integrata in posizione subordinata nelle GVCs come fornitore di terzo livello di prodotti di nicchia e componenti semplici. Nel contesto della transizione epocale verso la mobilità elettrica questa posizione periferica e dipendente è destinata a influenzare profondamente e a limitare il percorso dell’Europa dell’Est. In primo luogo la regione non è e non diventerà un centro di innovazione per l’electromobility. La R&S per i veicoli elettrici rimane saldamente concentrata nei paesi di origine delle case madri e dei grandi fornitori globali di livello tier-one, situati in Europa occidentale, Nord America e Asia orientale. I dati sono inequivocabili: la spesa in R&S business rispetto al valore della produzione nel 2020 era in Slovacchia solo il 3% di quella tedesca, nella Repubblica Ceca il 12,8% e in Ungheria il 17,3%. Allo stesso modo, la quota di personale di R&S sul totale degli occupati nel settore era drammaticamente più bassa (7,6% in Slovacchia, 11,5% in Romania) rispetto alla Germania (16,68%) o alla Svezia (18,61%). Eccezioni parziali, come Škoda Auto o Dacia, che agiscono come tier-two lead firm con una certa autonomia, non alterano questo quadro generale di dipendenza tecnologica. In secondo luogo il ritmo della transizione sarà intrinsicamente più lento rispetto all’Europa occidentale. In Germania e altrove si avviano fabbriche totalmente dedicate alla produzione su larga scala di veicoli elettrici (pensiamo a Zwickau, Emden, Grünheide) mentre negli stabilimenti dell’Est si adotta per lo più una strategia di “produzione mista”, assemblando veicoli elettrici e a combustione interna sulle stesse linee. Questo approccio, sebbene possa essere compensato nel breve periodo da bassi costi e alta flessibilità, rende più difficile raggiungere economie di scala e rischia di rivelarsi un grave svantaggio competitivo nel lungo termine rispetto all’efficienza delle fabbriche full-EV. I casi di BMW a Debrecen, Volvo in Slovacchia e BYD in Ungheria, che prevedono stabilimenti interamente dedicati, rimangono per ora eccezioni. In terzo luogo la produzione di veicoli e motori a combustione interna (ICE) avrà un declino più lento e graduale nella periferia integrata. Diversi fattori concorrono a questo outcome. Gli stabilimenti sono più moderni, le tecnologie mature permangono più a lungo in periferia secondo il modello del ciclo di vita del prodotto, i bassi costi produttivi costituiscono un vantaggio comparato, la produzione continuerà per servire i mercati non UE e la domanda interna di veicoli elettrici è fiacca a causa dei prezzi elevati e dei sussidi all’acquisto limitati o assenti. Questo ritardo strategico, sebbene possa apparire vantaggioso nel breve periodo con il trasferimento di alcune produzioni ICE dall’ovest, è però carico di rischi, in quanto una specializzazione prolungata in una tecnologia destinata all’obsolescenza potrebbe pregiudicare irrimediabilmente la competitività a lungo termine della regione. Quarto, e forse punto cruciale, l’alto grado di controllo estero significa che il futuro dell’industria automobilistica dell’Europa dell’Est, incluso il destino della sua transizione elettrica, sarà deciso nelle boardroom delle multinazionali straniere. I governi nazionali hanno di fatto abdicato a un ruolo strategico, limitandosi per lo più a un ruolo di facilitatori attraverso la generosa erogazione di incentivi finanziari per accaparrarsi gli IDE, inclusi quelli per le gigafactory di batterie (con contributi che raggiungono centinaia di milioni di euro), in una sorta di “cattura corporativa” delle istituzioni dove gli interessi delle TNCs prevalgono spesso su quelli delle imprese domestiche e delle comunità locali. Il supporto statale per la costruzione di infrastrutture di ricarica e per gli incentivi all’acquisto è stato disomogeneo e largamente inadeguato. L’ostilità di alcuni governi, come quello ceco, verso i regolamenti UE che impongono la transizione, sottolinea ulteriormente questa mancanza di una visione strategica autonoma. L’unico tentativo notevole di rompere questa dipendenza, il progetto dell’auto elettrica nazionale polacca Izera, rimane anch’esso fortemente dipendente da tecnologia e piattaforme straniere (Geely, Pininfarina) e ha già subito ritardi. 

L’Europa orientale è destinata a mantenere forti vantaggi competitivi per l’industria automobilistica all’interno del contesto dell’Unione Europea, fondati principalmente sui salari significativamente più bassi rispetto all’Europa occidentale, in particolare alla Germania, sulla sua posizione geografica prossima ai ricchi mercati di consumo occidentali e sull’appartenenza all’UE che garantisce l’assenza di barriere doganali. Questi fattori continueranno a renderla una localizzazione attraente per nuovi impianti di assemblaggio di veicoli elettrici, nonché per la produzione di celle e componenti per batterie poiché la spinta al profitto delle multinazionali automobilistiche prevarrà, orientando gli investimenti dove i costi sono più contenuti. Questo potenziale positivo può essere seriamente compromesso dall’esaurimento del surplus di manodopera, un fenomeno già in atto in Europa Centrale e in Romania, dove, nonostante i bassi costi del lavoro, iniziano a manifestarsi carenze di personale. Un caso emblematico che illustra la complessità delle decisioni di localizzazione è quello della corporation giapponese Nidec che nel dicembre 2021 ha avviato la costruzione di un grande stabilimento per motori elettrici a Novi Sad, in Serbia, scegliendola nonostante la minore esperienza del paese nella manifattura di motori rispetto a Polonia o Ungheria. La decisione è stata dettata dalla combinazione vincente dei bassissimi salari serbi, da un ancora cospicuo surplus di manodopera (con un tasso di disoccupazione sceso dal 19,4% del 2014 al 9,1% nel 2020) e dalle prospettive di una futura adesione all’UE. Al contrario, Polonia e Ungheria, pur essendo più vicine al mercato e più esperte, sono state scartate a causa dei salari relativamente più alti e delle carenze di manodopera, dimostrando come, una volta soddisfatte le precondizioni basilari di stabilità politica e accesso al mercato, siano il costo e la disponibilità della forza lavoro a fare la differenza nelle scelte concrete degli investitori. A complicare questo quadro relativamente positivo si aggiungono però rischi geopolitici e economici di grande portata, emersi con la guerra in Ucraina del 2022 e la conseguente crisi energetica. I costi dell’energia in Europa orientale si sono moltiplicati, minacciando di erodere uno dei vantaggi competitivi fondamentali della regione. Paesi come la Repubblica Ceca, la Slovacchia e l’Ungheria presentano infatti una pericolosa dipendenza dal gas naturale russo. Questa vulnerabilità ha spinto gruppi come Volkswagen a valutare seriamente il riposizionamento della produzione verso i propri stabilimenti nel sud-ovest dell’Europa o nelle aree costiere del nord, più vicine ai terminali di gas naturale liquefatto, mettendo quindi a rischio il futuro produttivo dell’intera regione. Inoltre la prossimità geografica al conflitto ucraino potrebbe aumentare la percezione del rischio investimento per le multinazionali, influenzando negativamente le decisioni future.

La transizione verso la produzione di veicoli elettrici avrà effetti profondamente disomogenei all’interno dell’industria automobilistica orientale. Il settore più colpito sarà quello della produzione di parti e componenti che impiega la stragrande maggioranza dei lavoratori (78%, pari a 671590 persone nel 2020). In particolare i fornitori specializzati in componenti per i powertrain a combustione interna (come motori, cambi e sistemi di scarico) vedranno i loro prodotti diventare obsoleti, dato che un motore elettrico richiede solo 143 componenti forgiati contro i 1018 di uno a combustione. Anche l’assemblaggio finale dei veicoli elettrici è meno laborioso, il che potrebbe tradursi in una riduzione del personale. Le proiezioni per il periodo 2020-2040 indicano che quasi il 50% dei posti di lavoro legati al powertrain andrà perso in paesi come Repubblica Ceca, Polonia e Romania, con un calo complessivo di un quarto entro il 2040. L’impatto sarà geograficamente differenziato: Polonia e Ungheria, grandi esportatrici di motori e loro componenti, sono più vulnerabili, mentre altri paesi potrebbero avere più tempo per convertire gli impianti esistenti alla produzione di motori elettrici, come nel caso di Audi Hungária a Győr, o continuare a produrre motori a combustione per mercati extraeuropei in ritardo nella transizione. Attrarre investimenti nel settore delle batterie diventa una strategia cruciale per compensare le perdite occupazionali e ancorare la produzione di veicoli elettrici al territorio, sfruttando il vantaggio logistico del peso delle batterie. L’UE sta supportando attivamente la creazione di una filiera europea con sussidi ingenti e requisiti di contenuto locale. Tuttavia lo sviluppo della gigantesca industria delle batterie in Europa orientale è ancora limitato, concentrandosi per ora soprattutto in Ungheria (con grandi investimenti di aziende cinesi come CATL) e in Polonia, forse perché questi paesi, più esposti al rischio di perdite di posti di lavoro nel motore a combustione, hanno offerto incentivi più aggressivi. La Repubblica Ceca, nonostante possieda il più grande giacimento di litio d’Europa e una potente industria automobilistica, non è ancora riuscita ad attrarre una gigafactory, venendo penalizzata dal limitato supporto statale alla transizione e dagli alti costi energetici. Altri paesi, come la Slovacchia con la startup InoBat, stanno cercando di ritagliarsi nicchie specializzate. La produzione di celle batteria è estremamente energivora, quindi la crisi energetica e la dipendenza dal gas russo rappresentano una minaccia esistenziale per lo sviluppo futuro di questo settore nella regione.

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