Fréderic Lebaron ci ricorda su Le Monde Diplomatique di dicembre 2025 che il 15 novembre 1995 il primo ministro francese Alain Juppé presentava all’Assemblea nazionale le linee guida di una riforma della sicurezza sociale, un intervento strutturale motivato dalla necessità di ridurre i deficit sociali e rafforzare la credibilità finanziaria dello Stato nel contesto della preparazione all’entrate in vigore dell’euro, resa possibile dall’adesione al trattato di Maastricht del 1992. Questo piano Juppé, che implicava un abbassamento della qualità del sistema sanitario pubblico, veniva salutato con favore dall’ampia maggioranza di destra uscita dalle elezioni del 1993 e trovava un clima politico e ideologico apparentemente favorevole. Il presidente Jacques Chirac, eletto pochi mesi prima su una promessa di ridurre la “frattura sociale” e con critiche velate alle politiche di austerità, operava ora una netta giravolta. Il progetto era il risultato di un’alleanza tra tecnocrati e comunicatori e si avvaleva di un perfetto allineamento di forze: il principale sindacato riformista, la CFDT guidata da Nicole Notat, ne lodava il “coraggio”, seguito da un gruppo di intellettuali ed esperti social-liberali. Quest’ultimi formalizzarono rapidamente il loro sostegno pubblicando su Le Monde il 2 dicembre 1995 un appello nato nei locali della rivista Esprit e favorito dalle reti della Fondazione Saint-Michel Simon, un think tank che simboleggiava la fusione ideologica tra destra e sinistra tecnocratiche e mediatiche nel solco del neoliberismo trionfante. All’unisono, i grandi media, in particolare quelli di centrosinistra come Le Monde, Libération e Le Nouvel Observateur, insieme a editorialisti e saggisti influenti, celebravano questa svolta e inquadravano il dibattito nella griglia dominante dagli anni ‘80: la modernità (sinonimo di austerità) contrapposta all’arcaismo (rappresentato dalle conquiste sociali). Il contesto storico sembrava confermare questa narrazione con il crollo dell’URSS, le profezie sulla “fine della storia”, la dichiarazione del Partito Socialista francese che nel 1991 affermava come il capitalismo costituisse “il nostro orizzonte storico”, il declino del Partito Comunista e il rinnovato interventismo militare occidentale. In questo scenario nulla sembrava poter ostacolare Juppé, perfetta incarnazione della tecnocrazia colta francese, nel portare a compimento la svolta neoliberista del decennio. La realtà si rivelò ben diversa. I primi sondaggi e il successo delle prime manifestazioni contro il piano rivelarono i limiti sia dell’unanimismo mediatico che della “globalizzazione felice” teorizzata da figure come Alain Minc. Questo shock inatteso cristallizzò una resistenza popolare insospettata, caratterizzata da una determinazione anche superiore a quella dei riformatori e priva di un piano preordinato. Gli esperti delle riforme austeritarie avevano previsto l’opposizione di sindacati come la CGT e Force Ouvrière ma non immaginavano la portata delle convergenze che il piano avrebbe favorito. Alla protesta si unirono infatti la sinistra interna della CFDT, la neonata Fédération Syndicale Unitaire (FSU) nell’istruzione, i sindacati SUD (Solidali, Unitari, Democratici), il movimento libertario, la nebulosa trotskista e numerosi collettivi di senza documenti, senza casa e senza lavoro emersi all’inizio degli anni ‘90. Il movimento prese rapidamente forma: assemblee generali si moltiplicarono, attirando lavoratori, disoccupati, studenti, liceali e pensionati in un mix generazionale che per alcuni rappresentava il primo grande movimento sociale, per altri un ritorno allo spirito del Maggio ’68. Scioperi nei settori dei trasporti e dell’energia paralizzarono progressivamente l’economia mentre i media denunciavano la “presa in ostaggio degli utenti” e il “pericolo di bancarotta per le imprese”. Questi discorsi non ebbero presa perché nelle strade le persone ritrovavano il senso dell’azione collettiva e dell’entusiasmo condiviso. Per i riformatori al governo questa agitazione poteva essere il prezzo da pagare per una riforma necessaria a garantire la marcia trionfale verso l’euro ma non sospettavano che il movimento in corso avrebbe innescato anche una piccola replica del Maggio ’68 all’interno del campo intellettuale stesso, aprendo nuove prospettive al pensiero critico. A incarnare questo risveglio critico fu indiscutibilmente la figura del sociologo Pierre Bourdieu. In un panorama intellettuale reso vuoto dalla scomparsa di giganti come Sartre, Foucault e de Beauvoir e dal naufragio dei “nuovi filosofi”, Bourdieu, uno degli scienziati sociali francesi più citati al mondo e professore al Collège de France, mise il suo capitale simbolico al servizio della protesta. Rivedette e firmò una petizione che raccolse ampi consensi, intervenendo con forza, ad esempio, davanti ai ferrovieri in sciopero alla stazione di Lione, dichiarando il suo sostegno a “tutti quelli che lottano contro la distruzione di una civiltà”, associata all’esistenza del servizio pubblico. Il suo impegno ebbe un effetto liberatorio e gioioso, dando vita a una “guerra delle petizioni” che attraversò il mondo accademico e contribuì a delineare una netta separazione tra una sinistra di governo, accomodata con lo stato delle cose, e una sinistra critica desiderosa di trasformazione. Bourdieu smascherò la retorica tecnocratica che opponeva la visione a lungo termine di un’élite illuminata alla miopia popolare, denunciando come questa “nobiltà di Stato” si credesse legittimata dal titolo di studio e dall’autorità di una scienza economica astratta. La resistenza teorica di Bourdieu si strutturò attorno ad assi tratti dalle sue ricerche, in particolare da La misère du monde, dimostrando come le politiche neoliberiste distruggessero metodicamente le istituzioni di protezione sociale e come, nonostante il fallimento del socialismo reale, l’ideale di una Repubblica sociale rimanesse vivo. Per combattere efficacemente la tecnocrazia, sosteneva, bisognava affrontarla sul suo stesso terreno, quello della scienza, opponendo alla conoscenza astratta e mutilata una conoscenza rispettosa delle persone e delle loro realtà concrete. Bourdieu non volle essere un profeta ma un facilitatore di nuove alleanze tra il mondo della ricerca, dell’arte, del sindacalismo e del movimento sociale nella sua più ampia diversità. Da questo sforzo nacquero o presero slancio numerose iniziative: i libretti di Raisons d’agir, gli stati generali del movimento sociale e poi europeo, i forum sociali, la fondazione Copernic, l’associazione di critica dei media Acrimed e il movimento altermondialista Attac, nato attorno a Le Monde diplomatique. In pochi mesi il clima ideologico cambiò, permettendo al pensiero critico e ai movimenti come l’altermondialismo di fiorire per un decennio, lasciando in eredità organizzazioni, reti e strumenti concettuali ancora attivi. Nonostante il ritiro del piano Juppé, il “respiro di dicembre” non bastò ad arrestare la dinamica neoliberista e austeritaria che continuò a dominare in Europa, assumendo forme sempre più autoritarie, etnocentriche e militariste. Le classi popolari, disprezzate dalle sinistre di governo, furono in parte abbandonate a risentimenti nazionalisti e razzisti, aprendo la strada a pericolose regressioni.
1. Dal 1968 al 1995
Per Danielle Tartakowsky in Le pouvoir est dans la rue. Crises politiques et manifestations en France si assiste ad una profonda trasformazione del rapporto tra manifestazioni e Stato in Francia nel periodo che va dal 1968 al 1995, rivelando come la manifestazione di strada abbia progressivamente mutato la sua essenza e la sua funzione nel sistema politico repubblicano. Ogni corteo è, per sua natura, politico in quanto atto di aggregazione sociale e rapporto simbolico con lo spazio della città. Con l’affermazione del sistema repubblicano negli anni 1880 questo carattere politico si precisò ulteriormente: la laicizzazione dello spazio pubblico favorì competizioni simboliche tra gruppi, pur all’interno di un sistema che univa quanto divideva. Le manifestazioni, infatti, mantennero sempre un rapporto obbligato con lo Stato-nazione e i suoi codici, una relazione che non venne meno neppure durante la Resistenza a Vichy o nelle prime proteste dei lavoratori stranieri, le quali aderivano ai modelli dominanti. Il momento cruciale del maggio-giugno 1968 viene interpretato come la sua espressione più parossistica. Nonostante la violenza e il ricorso a simboli rivoluzionari (come le barricate o l’incendio della Borsa), le proteste di quelle settimane rimasero inscritte in un campo di significati condiviso. Gli scontri rispettarono convenzioni tacite, come la rara ricerca del contatto fisico da parte dei contro-manifestanti, il rispetto di certe regole nello scontro con le forze dell’ordine, il basso numero di morti per il bando implicito delle armi da fuoco e il rispetto della tregua domenicale, come sottolineato da Maurice Grimaud. La crisi, quindi, non fu un’insurrezione paragonabile al 6 febbraio 1934, non fece cadere il governo né cambiò le leggi ma si risolse sul terreno della negoziazione e delle elezioni, confermando l’appartenenza di tutti gli attori al regime e alla cultura nazionale. La vera svolta nell’”essenza” della manifestazione è collegata all’avvento della Quinta Repubblica e all’istituzione del referendum. Già nel 1968 L’Humanité paragonò la grande manifestazione della CGT a un “grande referendum pubblico”. Questa analogia, ripresa più volte nei decenni successivi, giunse a compimento nel novembre 1995 con la creazione del termine “Juppéthon” che assimilava esplicitamente la mobilitazione di piazza a una consultazione popolare. La Costituzione del 1958, con un presidente forte che incarna la sovranità e può ricorrere al referendum, ha modificato potenzialmente il senso della protesta di strada, rendendola un’altra modalità di interpellanza diretta, in grado di esercitare pressione senza mettere in discussione la figura del capo dello Stato.
Dagli anni ’80 si affermano grandi manifestazioni nazionali il cui successo si misura nel raggiungimento del “milione” di partecipanti. Queste mobilitazioni, sempre tollerate, riescono a far ritirare progetti di legge (come la legge Savary o quella Devaquet) o a costringere alle dimissioni ministri, senza per questo innescare una crisi politica di regime. Esse si impongono come un quarto potere, una sorta di referendum di iniziativa popolare non previsto dalla costituzione. Lo Stato, a sua volta, legittima questa forma d’azione. Il presidente Mitterrand partecipa a manifestazioni etiche (come dopo la profanazione del cimitero di Carpentras) e nel 1994 il primo ministro Édouard Balladur la riconosce come una legittima componente del gioco politico con cui confrontarsi.
Questa nuova relazione è resa possibile dal fatto che la manifestazione cessa di essere considerata illegittima. Essa diviene parte di quella che lo storico Philip Nord definisce una “sfera pubblica in pratica”, un concetto che egli applica al Secondo Impero, quando battaglie settoriali per l’autonomia (nelle università o nel commercio) si politicizzarono creando un movimento repubblicano nella società civile prima che nelle istituzioni. Tartakowsky propone un’analogia tra quel periodo e gli anni ‘60 del Novecento: a partire dal 1968 i movimenti di strada smettono di essere solo sintomo di un malfunzionamento del politico parlamentare e iniziano a configurarsi come una modalità nuova del politico che nasce e si struttura nel campo del movimento sociale e della società civile.
È proprio il movimento dell’autunno 1995 a incarnare compiutamente questa nuova modalità. Esso affronta il politico in termini inediti perché i manifestanti contestano il piano Juppé senza fare della caduta del ministro o del presidente un obiettivo esplicito, evitando così di formalizzare la protesta come crisi politica. Questa distanza si riflette anche nei simboli. Al posto di icone federative prevalgono espressioni identitarie e corporative, come l’ostentazione degli abiti da lavoro o il detournement di attrezzi professionali in emblemi della lotta. Per alcuni questo è segno di arcaismo ma per il sociologo Henri Vaquin rappresenta invece qualcosa di stupendo, l’espressione di una crisi della società finalmente svelata.
La mobilitazione del 1995 è intrinsecamente politica perché difende il cuore del contratto repubblicano nato dalla Resistenza (servizi pubblici, sicurezza sociale) opponendo i principi dello Stato regolatore e garante del legame sociale alle logiche liberali del governo. La costruzione di questo politico avviene soprattutto attraverso le manifestazioni che non sono un semplice corollario della lotta sindacale ma il luogo dove si esprime e si costruisce una volontà di “vivere insieme”. A differenza degli anni ’80 non c’è una manifestazione nazionale centrale a Parigi. La mobilitazione è forte in provincia, forse riflettendo la nuova geografia politica del “no” a Maastricht. Lo slogan “Tutti insieme” e i gesti di solidarietà tra confederazioni sindacali storicamente divise, tra scioperanti, studenti e disoccupati, mirano a ricostruire un legame sociale. Il movimento attinge a un ricco patrimonio storico (riferimenti alla Comune, al 1968, alla Resistenza) reintroducendo una dimensione nazionale.
La manifestazione si afferma come un “fascio di miti” divenendo un sostituto simbolico della rivoluzione, un principio etico e d’azione. Questa prospettiva permette una rilettura del 1968 come la prima crisi di una nuova era, in cui si posero per la prima volta con tale forza i nuovi rapporti tra Stato e società civile. Nel 1968 coesistevano ed erano in tensione due culture politiche: una ancora radicata nell’accezione classica e repubblicana della crisi, l’altra, in crescita nella società civile, ancora in cerca di una sua forma espressiva. Questa “non-contemporaneità”, per usare un termine di Ernst Bloch, spiega l’apparente paradosso degli esiti elettorali di giugno. La crisi fu risolta sul piano politico tradizionale (con le elezioni) forse per l’ultima volta, prima che la nuova modalità di fare politica attraverso la piazza, maturata nella società civile, trovasse la sua piena espressione nelle manifestazioni del 1995.
2. La lettura di Toni Negri
Anche per Toni Negri, nel libro The winter is over, le lotte del dicembre 1995 in Francia sono un evento epocale che segnano la prima grande frattura nel regime politico, economico e ideologico neoliberista che si era consolidato nei vent’anni precedenti. Dopo aver assorbito le lotte degli anni ‘70 e la sconfitta in Vietnam il capitale multinazionale aveva infatti rilanciato il suo progetto di sviluppo attraverso la modernizzazione post-industriale e le politiche neoliberali. La forza di rottura di queste manifestazioni deriva da una combinazione di fattori: la crescente consapevolezza dell’intollerabilità dei processi di globalizzazione e della costruzione europea nella specifica accelerazione francese, il senso di tradimento della “promessa repubblicana” da parte della nuova presidenza Chirac e l’impatto delle nuove forme di organizzazione del lavoro sociale (mobilità, flessibilità, rottura del mercato del lavoro, esclusione) unite alla crisi del welfare state. Ciò che è fondamentale, secondo Negri, è la definizione del nuovo contesto in cui si inscrivono le rivendicazioni, ovvero un contesto biopolitico, nel senso che la lotta si scontra con l’insieme di regole che disciplinano o controllano la totalità delle condizioni di riproduzione del proletariato. La lotta, perciò, assume un senso universale, diventa una lotta “di interesse generale” rifiutando il diktat “liberalismo o barbarie” e indicando una nuova soglia di possibilità per il desiderio di un mondo nuovo.
Per comprendere appieno la radicalità di questa frattura è necessario però interrogarsi su chi ne sia stato l’attore egemonico. La prima risposta, apparentemente semplice, è il lavoratore dei servizi pubblici (ferrovie, metropolitana, telecomunicazioni, poste, ospedali, scuole, energia), colui che ha innescato, guidato e dato un senso unitario alle rivendicazioni settoriali. La risposta ha senso solo se si analizza il nuovo ruolo che questi settori rivestono nell’apparato politico e produttivo del capitalismo maturo. In passato la capacità di bloccare la circolazione delle merci (come negli scioperi ferroviari) era già fondamentale per innescare scontri politici. Oggi, però, all’interno dell’organizzazione del capitale post-fordista, è la capacità di investire con forza politica l’intero sistema produttivo a diventare decisiva e questa capacità risiede proprio nei lavoratori dei servizi pubblici e del trasporto, delle comunicazioni, della formazione, della salute e dell’energia. Thatcher e Reagan lo avevano ben compreso, scegliendo come avversari esemplari i controllori di volo e i minatori. La ragione profonda è che nell’architettura del capitalismo post-fordista la totalità dei mezzi di trasporto, comunicazione, formazione ed energia, cioè il grande sistema dei servizi pubblici, non rappresenta più solo un momento della circolazione delle merci o un elemento della riproduzione della ricchezza ma ne costituisce il “contenitore strutturale”. Se la produzione è diventata essa stessa circolazione, un lavoro just-in-time dove il lavoratore è un anello di una catena sociale, i lavoratori dei servizi pubblici in sciopero hanno dimostrato che, toccando un anello della circolazione, si fa tremare l’intera catena produttiva. Agendo sul contenitore si costringe a reagire tutto il contenuto e poiché si parla non solo di strutture produttive ma di forze soggettive è chiaro che la loro lotta ha rappresentato fin dall’inizio la totalità dei lavoratori, cogliendo immediatamente la natura globale del sistema produttivo e le sue nuove dimensioni sociali e politiche. Da un punto di vista oggettivo, quindi, questi attori sono centrali e decisivi per il nuovo modo di produzione, avendo elevato lo scontro al livello più alto della “riforma” capitalistica e, per questo, l’hanno temporaneamente fermata.
Tuttavia gli attori della lotta non furono solo i lavoratori ma anche i milioni di utenti delle città francesi che, per raggiungere il posto di lavoro o semplicemente muoversi, si sono sottomessi a condizioni quasi belliche. I media hanno dapprima tentato di strumentalizzare la rivolta degli utenti contro gli scioperanti per poi esaltarne la civiltà una volta fallito questo tentativo. L’ideologia neoliberista e postindustriale aveva per anni sostenuto che, nell’era postindustriale, gli utenti stessi sono i produttori del servizio. In effetti gli utenti sono co-produttori dei servizi pubblici, secondo figure differenziate che vanno da un massimo di consumo passivo (ad esempio, l’energia) a un massimo di interattività (telecomunicazioni, formazione, salute). All’interno della lotta questa co-produzione ha preso coscienza di sé: gli utenti hanno riconosciuto la lotta dei lavoratori come un proprio interesse. Se il servizio è una co-produzione, la sua essenza è pubblica. Le contraddizioni tra domanda e offerta di servizio restano ma si collocano all’interno di questa dimensione pubblica. Quando i lavoratori dei servizi hanno trasformato la loro lotta in un riconoscimento, una difesa e un’affermazione del carattere pubblico della loro produzione, gli utenti sono stati pienamente riconosciuti come co-produttori di questa lotta. Le marce nella neve, l’autostop, le lunghe file divennero così episodi della stessa lotta. Lo sciopero si manifestò soprattutto nelle marce festive quotidiane. Non fu uno sciopero per procura ma uno sciopero diffuso nel sociale, parte della vita quotidiana, per il quale Negri conia il termine sciopero metropolitano. Questa co-produzione metropolitana identifica un concetto di pubblico dal valore rivoluzionario, cioè nella corresponsabilità che gli utenti sentono si riconosce un vero e proprio atto di “riappropriazione dell’amministrazione”, diretto e sovversivo. Questo atto rimanda ai suoi presupposti: l’identificazione del servizio pubblico, della sua gestione e delle sue funzioni produttive più generali, come un bene comune, comune come tutti i prodotti della cooperazione, dal linguaggio all’amministrazione democratica. È una definizione di pubblico che non ha più nulla a che fare con quella statale.
Lo Stato, infatti, rivela il suo carattere capitalista proprio quando cerca di privatizzare i servizi pubblici. Le lotte, al contrario, rivelano un carattere sovversivo che va oltre lo Stato e la sua funzione di guardiano del capitale, anche quando alcuni attori continuano a difendere il “servizio pubblico alla francese”. Quel modello, residuo anacronistico del compromesso fordista, non è plausibile. Le lotte indicano che se un “servizio pubblico alla francese” resiste, sarà espresso in termini completamente nuovi, come prima esperienza di ricostruzione del servizio pubblico all’interno di una dinamica democratica di riappropriazione dell’amministrazione e di co-produzione democratica del servizio. Si aprono così problemi costitutivi: comprendere il significato del carattere pubblico dei servizi che, sottraendosi alla privatizzazione e alle regole del mercato mondiale, si sottrae anche alle mistificazioni ideologiche che nascondono la funzione globalizzante e direttamente capitalistica dello Stato nazionale. Questa consapevolezza è implicita nelle lotte e ne rappresenta il potenziale sovversivo. Poiché i servizi costituiscono ormai l’involucro di ogni forma di produttività e dimostrano in modo centrale ed esemplare il ruolo della cooperazione, questo nuovo concetto di pubblico diventa il paradigma di ogni nuova esperienza di produzione socializzata. Il pubblico inteso come totalità delle attività custodiali dello Stato finalizzate alla riproduzione del sistema capitalistico e all’accumulazione privata cessa di esistere. Ci troviamo invece di fronte a un nuovo concetto di pubblico, una forma di produzione organizzata sull’interattività dove sviluppo della ricchezza e sviluppo della democrazia diventano indistinguibili, così come l’allargamento del legame sociale e la riappropriazione dell’amministrazione da parte dei soggetti produttivi. Qui l’eliminazione dello sfruttamento diventa visibile come possibilità concreta.
Questa nuova dimensione soggettiva del pubblico non tocca solo i lavoratori sociali perché comprende tutti i co-produttori dei servizi, cioè tutti i cittadini che lavorano. Lo slogan “Tutti insieme” presentava una nuova comunità, una comunità sociale produttiva che chiede riconoscimento. Questo riconoscimento è la dinamica di ricomposizione che attraversa il movimento, la comunità di lotta a cui tutti i lavoratori sono richiamati da coloro che, per la loro posizione strategica, danno forma al tessuto essenziale della cooperazione produttiva ed è anche la riappropriazione del servizio da parte della comunità in lotta o di chi, lavorando, utilizza i servizi per produrre ricchezza. In questo modo la lotta funziona come una prefigurazione del suo obiettivo: il metodo, l’essere insieme per vincere, è la prefigurazione della finalità, l’essere insieme per costruire ricchezza, fuori e contro il capitale. Ciò che è interessante è che in questa lotta, soprattutto dove erano in gioco i servizi pubblici, il concetto di comunità si è arricchito di articolazioni essenziali. Appare per la prima volta una comunità estremamente articolata, una Gemeinschaft che contiene in sé tutte le caratteristiche della molteplicità e che, come totalità sociale e produttiva, si oppone al potere. La riflessione di Negri conduce quindi a porre il problema della transizione verso un livello superiore di organizzazione produttiva, dove il pubblico possa essere considerato come un’unità di funzioni sociali che, articolandosi riccamente, non richiedono la separazione tra livelli di produzione e livelli di potere. La riappropriazione del potere all’interno della funzione produttiva e la costruzione del legame sociale, al contrario, diventano un continuum. Il problema della transizione verso una comunità sociale autonoma, verso il comunismo, risiederà essenzialmente nella definizione dei tempi e delle forme in cui sarà possibile la riappropriazione delle funzioni produttive da parte della comunità. “Tutti insieme” è un piano di transizione al comunismo che permette di ricominciare a nominare il movimento reale di trasformazione dello stato di cose presente.
Possiamo quindi ritornare a identificare il soggetto della lotta di dicembre. A un livello superficiale è il lavoratore dei servizi pubblici, in un altro appare come lavoratore sociale, produttore di relazioni sociali e di ricchezza tramite queste relazioni, in un terzo questa identificazione è rafforzata dalla co-produzione della lotta da parte degli utenti-cittadini, in un quarto è evidente che la natura pubblica del servizio è il luogo strategico dello sfruttamento e delle nuove contraddizioni, in un quinto è chiaro che anche gli operatori dei servizi nel settore privato saranno attratti da questo ciclo di lotte. I lavoratori sociali sono lavoratori immateriali, sono altamente istruiti e il loro lavoro è essenzialmente intellettuale e cooperativo. Una produzione fatta di attività linguistiche è ormai al centro della società e del suo sistema di potere. Questa nuova natura intellettuale del lavoro è bios, l’intera vita di generazioni e singolarità. Il soggetto della lotta ha mostrato, attraverso la lotta e i suoi obiettivi, l’intera dimensione complessa della vita come produzione di soggettività e quindi come rifiuto della subordinazione della cooperazione intellettuale sociale allo sviluppo del capitale. Telecomunicazioni ed educazione rappresentano i settori più significativi da questo punto di vista. Qui il General Intellect di Marx si rivela come bios. Nei processi educativi la forza lavoro è costruita e ricostruita continuamente, in piena interattività. Le telecomunicazioni rappresentano la totalità della circolazione dei segni produttivi e dei linguaggi cooperativi. È attraverso questi settori che i processi di produzione della soggettività si confrontano con i processi di assoggettamento e di costruzione del plusvalore. La lotta si focalizza quindi sulla forma di appropriazione poiché educazione e telecomunicazioni rappresentano il punto più alto e la struttura più esplicita della produzione come servizio pubblico.
Le lotte di dicembre presentano una sfida formidabile alla teoria rivoluzionaria. In esse i lavoratori stessi, dei servizi materiali e immateriali, cioè i lavoratori sociali nella pienezza dei loro attributi produttivi, sono gli attori egemonici. Queste lotte si pongono dunque al livello del capitale maturo, postmoderno e postindustriale. I lavoratori dei servizi danno un primo piano della produttività sociale e mostrano le contraddizioni che essa rivela. I problemi dell’emancipazione dalla domanda capitalistica e della liberazione dal modo di produzione capitalistico si pongono ora in una nuova dimensione. L’industria manifatturiera e i suoi lavoratori perdono definitivamente il ruolo centrale che avevano avuto nella lotta di classe mentre i lavoratori dei servizi, anche e soprattutto nel settore privato delle economie mature, sono fortemente chiamati a entrare nel gioco della lotta rivoluzionaria. La teoria deve quindi confrontarsi con questa nuova realtà, lavorando in generale sul rapporto tra General Intellect (lavoro immateriale e intellettuale egemonico) e bios (la dimensione in cui il lavoro intellettuale, come capitale costante riappropriato, si oppone alla domanda capitalistica ormai totalmente parassitaria). Soprattutto deve lavorare sul nesso che unisce interattività sociale e sue forme politiche, produzione e politica, potere produttivo e potere costituente. Lenin aveva già posto il problema del rapporto tra appropriazione economica da parte del proletariato e forme politiche di questa appropriazione e il realismo del suo tempo lo portò a considerare decisivo il termine dittatura. L’utopia di liberazione di Negri si distacca radicalmente dal suo punto di vista perché oggi la produzione è un mondo di relazioni interattive che solo la democrazia può costituire e sostenere. Una potente democrazia dei produttori è oggi al centro dell’interesse investigativo. Costruire un pubblico contrapposto allo Stato, pensare la democrazia dei produttori contro il parassitismo del capitale, individuare le forme in cui l’interattività della produzione (rivelata dallo sviluppo dei servizi) può articolarsi con le forme (rinnovate) della democrazia politica per scoprire il tessuto materiale della co-produzione politica del sociale: questi sono i nuovi compiti della teoria, urgenti e vivi come le lotte che li hanno introdotti. Molti teorici della riproduzione sociale nell’epoca postmoderna esaminano problemi analoghi ma le lotte di dicembre vanno oltre perché per Negri pongono il problema non solo come possibilità ma come necessità, anticipando una soluzione che mostra come la democrazia della moltitudine sia un fatto rivoluzionario. Un altro tema non secondario è cosa significhi rivoluzionare la cooperazione sociale, riappropriandosi democraticamente dell’amministrazione per gestire la totalità della produzione e riproduzione della società.
Con le lotte di dicembre siamo entrati in una nuova fase della pratica politica. Per Negri il primo problema è quello di riaprire la lotta dopo la sua sospensione, ampliando e sostenendo il fronte del lavoratore sociale, nei servizi pubblici e soprattutto nel settore privato, ed esprimendo nel modo più ampio e potente i contributi dei soggetti dell’educazione e delle telecomunicazioni alla costruzione del movimento rivoluzionario, co-producendo queste lotte insieme ai cittadini lavoratori. Qui emerge il secondo problema fondamentale: definire una forma per la lotta e l’organizzazione coerente con il nuovo concetto di pubblico emerso dalle lotte di dicembre. Si cerca una forma di organizzazione che possa collegare sempre più le rivendicazioni categoriali a quelle generali del salario biopolitico, dell’estensione del servizio pubblico, della riappropriazione dell’amministrazione. La capacità rivelata dai lavoratori in lotta di riorganizzarsi sul territorio, spezzando la tradizionale divisione professionale del sindacalismo francese, può essere accettata come paradigma della ricomposizione unitaria degli obiettivi di lotta e della forma generale di gestione della lotta. Queste forme di organizzazione prefigurano infatti nuove istanze politiche (non più meramente sindacali), sia di massa che di base. Esse rivelano, legandosi paradossalmente alle origini del movimento operaio, un elemento centrale dell’organizzazione della produzione post-fordista: la sua diffusione sociale. Questa localizzazione unitaria sembra essere la base per una generalizzazione dell’interesse operaio salariale e della lotta sulle condizioni di riproduzione sociale ma, allo stesso tempo, è l’unica base per la possibilità di passare a quell’iniziativa di riappropriazione dell’amministrazione e dei servizi pubblici che, da sola, può aprire un orizzonte di lotte verso la democrazia.
