Il segretario generale della Cgil Maurizio Landini, dal palco di Piazza San Giovanni a Roma, nel concludere la manifestazione nazionale “Democrazia al lavoro” molto partecipata e a cui come Collettivo Le Gauche abbiamo convintamente preso parte, ha lanciato un attacco durissimo alla manovra economica del governo Meloni, definendola “una finanziaria che rischia di creare danni” e accusando il governo di fare propaganda e di “raccontare delle balle, delle bugie”. Landini ha posto l’accento sul fatto che alla voce cruciale degli investimenti pubblici la cifra stanziata è zero, un approccio che, senza un rilancio degli investimenti, porterà inevitabilmente il Paese “a sbattere”. Ha aggiunto che l’unica voce di spesa pubblica in aumento è quella per le armi, in maggioranza da comprare dagli Stati Uniti, finendo così per “finanziare Trump”. Anche una delle misure simbolo del governo, la detassazione degli aumenti contrattuali, viene smontata da Landini che la definisce un mero “titolo” e, per come è strutturata, “fa sorridere”. La misura, infatti, è limitata ai soli lavoratori del settore privato e a quelli con redditi fino a 28.000 euro l’anno, risultando così applicabile solo a una piccola parte dei lavoratori ed escludendone gran parte, come ad esempio molti metalmeccanici. Ancora più netta è la critica sul taglio della seconda aliquota IRPEF dal 35% al 33% e sul mancato ripristino del fiscal drag, il drenaggio fiscale causato dall’inflazione. Landini fornisce numeri precisi: un lavoratore con un reddito di 30.000 euro avrà “un aumento di appena 3 euro al mese” mentre negli ultimi tre anni, a causa del mancato adeguamento delle soglie al carovita, ha già pagato “oltre 2.000 euro di tasse in più”. Un conto salatissimo che secondo i calcoli del sindacato ammonta a 25 miliardi di euro sottratti complessivamente a dipendenti e pensionati. Landini ha usato toni durissimi, affermando di essere di fronte a un governo che “sta estorcendo con una truffa miliardi al lavoro dipendente e ai pensionati” e per questo, se non verranno ascoltate e non si modificherà radicalmente una legge di bilancio considerata sbagliata, la Cgil “non esclude assolutamente nulla”, incluso lo sciopero generale.
La manifestazione è stata anche l’occasione per fare il punto sulla situazione economica dell’Italia. Dai dati diffusi su Collettiva gli scorsi giorni emerge un paese dove la precarietà è variegata e radicata. Si contano 2,6 milioni di dipendenti a termine e 3,2 milioni di part-time involontari, per la maggior parte donne. Nel 2024 sono state lavorate oltre 6,5 milioni di ore con forme di voucher come Presto e Libretto famiglia. A questo si somma un sommerso stratificato. L’economia non regolare vale 185,3 miliardi di euro e interessa più di 3 milioni di lavoratori nel 2023, con picchi come il 47% di irregolarità nel lavoro domestico, un settore che conta oltre 800.000 occupati. Non va meglio per i 5,2 milioni di lavoratori autonomi, di cui 3,3 milioni sono “autonomi puri” senza dipendenti, spesso privi di tutele adeguate. La Cgil chiede per loro una norma sull’equo compenso, l’estensione dell’Iscro come strumento di sostegno al reddito e l’ampliamento delle tutele sociali. A tutto questo si accompagna una cronica carenza di investimenti nelle politiche attive del lavoro, su cui l’Italia spende solo lo 0,22% del Pil, una percentuale irrisoria. Per la scuola le risorse per il rinnovo del contratto (il CCNL 2022-24, già scaduto) sono giudicate del tutto inadeguate. Sono previsti aumenti di 136 euro lordi ma il 60% di questi è già stato anticipato, lasciando un aumento medio mensile lordo di circa 30,97 euro che si traduce in meno di 20 euro netti in busta paga, coprendo appena un terzo dell’inflazione accumulata del 18% nel biennio. Nella manovra non ci sono piani per assunzioni che azzerino la precarietà, con le supplenze che anche quest’anno saranno almeno 250.000. Viene anche criticata una norma che obbliga i dirigenti scolastici a coprire le assenze fino a 10 giorni utilizzando l’organico dell’autonomia invece di assumere supplenti. Anche per la sanità il quadro è grave. Il Fondo Sanitario Nazionale, nonostante gli annunci, vedrà stanziati solo 2,4 miliardi di nuovi soldi, risorse che non bastano a coprire l’inflazione e che porteranno la quota di Pil destinata alla sanità a scendere al 6%, il valore più basso degli ultimi decenni, per poi calare ulteriormente sotto questa soglia nel 2028. L’OMS certifica che al di sotto del 6,5% sia a rischio la salute pubblica. I cittadini, per sopperire, hanno speso nel 2024 oltre 41 miliardi di euro di tasca propria e 5,8 milioni di persone hanno rinunciato alle cure. Per non far naufragare il Servizio Sanitario Nazionale servirebbero 35.000 assunzioni tra infermieri, Oss e altre figure mentre la manovra ne prevede solo 6.500 (1.500 dirigenti e 5.000 non dirigenti). Viene inoltre denunciato il forte ritardo nella realizzazione di case e ospedali di comunità previsti dal Pnrr. Sul capitolo pensioni la Cgil contesta aspramente la manovra che invece di bloccare l’aumento dei requisiti come promesso conferma l’adeguamento all’aspettativa di vita. Questo innalzerà progressivamente l’età pensionabile: dal 2027 si aggiungerà 1 mese, dal 2028 3 mesi e dal 2029 altri 2 mesi, portando la pensione di vecchiaia a 67 anni e 5 mesi e quella anticipata a 43 anni e 3 mesi di contributi (42 e 3 per le donne). Viene cancellata ogni flessibilità in uscita non prorogando né Quota 103 né Opzione Donna, misura quest’ultima definita “l’ennesimo schiaffo al lavoro femminile”. L’unico intervento concreto è la proroga per il solo 2026 dell’Ape Sociale mentre le pensioni minime vengono aumentate di appena 12 euro rispetto all’anno scorso e quelle minime di poco più di 4 euro al mese. Per il pubblico impiego sul Tfs/Tfr, il governo riduce i tempi di liquidazione da 12 a 3 mesi solo per chi va in pensione per limiti di età, lasciando in attesa tutti gli altri. Per quanto riguarda la produzione industriale, si assiste ad un marcato rallentamento confermato dagli ultimi dati che registrano per la manifattura un calo di circa il due percento su base annua. Questo dato è l’indicatore di un progressivo indebolimento del sistema produttivo, già afflitto da costi energetici elevati, una domanda interna stagnante e difficoltà di accesso al credito. Secondo la Cgil questa non è una semplice fluttuazione ciclica negativa ma la diretta conseguenza di un’assenza strutturale di una politica industriale da parte del governo, accusato di essere privo di una visione strategica e incapace di guidare la transizione tecnologica e ambientale, nonché di sostenere un modello di sviluppo che integri impresa, lavoro e innovazione. Il contesto internazionale aggrava la situazione: la guerra commerciale tra Stati Uniti, Cina ed Europa si traduce in una nuova ondata di instabilità per il manifatturiero italiano, la cui fortuna è storicamente legata all’export. I dazi su acciaio, componentistica e prodotti intermedi mettono in seria difficoltà intere filiere, come l’automotive e la meccanica, che dipendono da catene di fornitura globali. Per fronteggiare questa sfida la Cgil ritiene necessario che il governo agisca a livello europeo per promuovere una strategia industriale comune, mirata a rafforzare la sovranità produttiva continentale senza cadere in un controproducente protezionismo. A testimonianza del consolidarsi della crisi il ricorso agli ammortizzatori sociali, come la cassa integrazione ordinaria e straordinaria, è tornato a crescere in modo significativo in tutti i settori. Secondo il sindacato questo aumento evidenzia la mancanza di politiche di prevenzione e riconversione. Gli strumenti di sostegno al reddito, sebbene necessari, non possono sostituire un piano per il rilancio dell’occupazione. La proposta è di legare gli ammortizzatori a percorsi formativi, riqualificazione professionale e investimenti nella transizione verde, per evitare che siano solo un tampone temporaneo. Un altro fenomeno allarmante è quello delle delocalizzazioni. Nonostante gli incentivi pubblici molte imprese continuano a spostare la produzione all’estero, attratte da minori costi del lavoro, con il risultato di erodere competenze, posti di lavoro e valore aggiunto dal territorio nazionale. La Cgil chiede con forza una legge vincolante che impedisca di delocalizzare dopo aver usufruito di fondi pubblici, prevedendo invece piani di reindustrializzazione obbligatori in caso di chiusura di siti produttivi. Anche sul fronte della transizione energetica e ambientale l’Italia è in ritardo. Le imprese faticano a investire in tecnologie pulite, frenate da incertezze normative e da una carenza di incentivi stabili. La Cgil critica l’approccio del governo che delega al solo mercato il compito di guidare la trasformazione, avvertendo che senza un indirizzo pubblico la transizione rischia di diventare un fattore di disuguaglianza. È quindi indispensabile un piano industriale nazionale per la decarbonizzazione che unisca investimenti pubblici, innovazione, formazione e tutela occupazionale, per garantire che la transizione sia “giusta” e generi nuova occupazione di qualità.
In netto contrasto con questa manovra la Cgil avanza una proposta alternativa chiara: l’introduzione di un contributo di solidarietà dell’1,3% sulle grandi ricchezze, applicato a circa 500.000 contribuenti con patrimoni superiori ai 2 milioni di euro. Questa misura, di ispirazione liberale secondo il sindacato, genererebbe un gettito di 26 miliardi di euro. Risorse che potrebbero essere destinate a finanziare seriamente la sanità (portando il FSN al 7,5% del Pil), la scuola con un piano di assunzioni, la lotta alla precarietà e una transizione ecologica e digitale giusta.
Il Sole 24 Ore di oggi ci parla di altri problemi da gestire nell’immediato futuro. Sul tavolo dei rinnovi contrattuali ci sono i destini di una platea vastissima, con quasi sei milioni di lavoratori del sistema Confindustria in attesa di definire il proprio futuro contrattuale. Un quadro ancor più ampio è fornito dall’Istat che fotografa come, considerando il totale dell’economia (pubblico e privato per circa 13 milioni di addetti), siano oltre 4 su 10 (il 43,1%) i lavoratori in attesa del rinnovo. Nel solo privato la percentuale è di 3 addetti su 10 (28,1%), circa 3 milioni di persone, di cui la metà rappresentata dal solito gigante, il comparto metalmeccanico. Entrando nel dettaglio dei numeri del sistema Confindustria, su 5,9 milioni di dipendenti interessati dai rinnovi solo 3,3 milioni (il 56,1%) possono al momento contare su un contratto ancora in vigore. Di questi 377mila vedranno scadere il proprio accordo nel secondo semestre di quest’anno. È il caso, ad esempio, del settore gomma plastica, dove le parti sociali sono già al lavoro con una piattaforma che chiede 235 euro di aumento complessivo per il triennio 2026-2028. La stessa cifra, 235 euro, è stata avanzata per il rinnovo del contratto del vetro, lampade e display mentre per le lavanderie industriali la richiesta è di 225 euro e per l’occhialeria e il settore penne e spazzole si parla di 230 euro per il triennio. È prossima alla consegna anche la piattaforma per i 200mila lavoratori del legno arredo. A questa massa di contratti in scadenza si aggiunge un’eredità pesante del passato: 560mila lavoratori (il 9,5% del totale) hanno un contratto scaduto da non più di 12 mesi mentre ben 1,7 milioni (il 29,4%) devono fare i conti con un accordo scaduto da più tempo, tra i 12 e i 24 mesi. In quest’ultimo gruppo la gran parte è rappresentata proprio dal colosso metalmeccanico, il cui contratto è cessato il 30 giugno 2024. Infine i ritardi più gravi, superiori ai 24 mesi, riguardano 300mila lavoratori (il 5,1%). Il negoziato, ripreso in queste settimane, ha nel salario il suo nodo cruciale. Le posizioni sono ancora distanti: da un lato i sindacati (Fiom, Fim, Uilm) chiedono poco più di 280 euro di aumento sui minimi nel triennio giugno 2024-giugno 2027, superando la previsione dell’inflazione Ipca Nei, dall’altro le imprese (Federmeccanica e Assistal) ancorano la propria offerta all’andamento di quell’indice e al welfare, insistendo sulla necessità di un equilibrio complessivo nel solco del Patto della Fabbrica. Nonostante le distanze le parti parlano di margini di convergenza e hanno già calendarizzato nuovi incontri. Altri fronti caldi vedono una situazione di stallo per le farmacie private e di incertezza per il socioassistenziale mentre procedono le trattative nelle telecomunicazioni con l’obiettivo di giungere a una sintesi nelle prossime settimane.
All’origine della centralità della questione salariale c’è l’onda lunga della fiammata inflattiva del 2022 e 2023 che ha eroso il potere d’acquisto e rinsaldato le alleanze sindacali su un approccio fortemente rivendicativo dice sempre Il Sole 24 Ore. I dati Istat sulle retribuzioni contrattuali in termini reali parlano chiaro: a giugno 2025 erano ancora inferiori del 9% rispetto ai livelli di gennaio 2021. Se nel 2024 c’è stata un’inversione di tendenza (retribuzioni +3,1% contro un’inflazione all’1,1%), gli anni precedenti hanno visto gli aumenti contrattuali drammaticamente sotto il tasso d’inflazione: nel 2021 +0,6% contro +1,9%, nel 2022 +1,1% contro +8,7%, e nel 2023 +2,9% contro +5,9%. Il rallentamento della dinamica retributiva nel privato, passata da oltre il 4% al 3% attuale, è in parte attribuibile proprio al mancato rinnovo di contratti importanti come quello metalmeccanico. Sebbene l’inflazione di riferimento per i rinnovi (l’Ipca Nei) sia prevista stazionaria per i prossimi anni (intorno al 2%), il picco del 2022 (+6,6%) e del 2023 (+6,9%) ha creato un divario cumulato di oltre 13 punti percentuali che le parti, soprattutto i lavoratori, chiedono di recuperare. Le imprese, dal canto loro, pur comprendendo l’esigenza del recupero del potere d’acquisto, sperano che ogni rinnovo diventi un’occasione per ragionamenti più ampi sulla crescita, sulla produttività e sull’impatto trasformativo dell’intelligenza artificiale sui luoghi di lavoro.
