Crisi e sfide dell’industria automobilistica tedesca

1. Introduzione

La trasformazione dell’industria automobilistica europea è un processo i cui dinamismi centrali ruotano in larga misura attorno ai colossi tedeschi Volkswagen, Daimler e BMW. L’importanza strategica di questo settore per l’occupazione e il valore aggiunto industriale non è paragonabile a quella di nessun’altra grande economia capitalistica in Europa o a livello globale, fatto che rende la doppia trasformazione, digitale ed ecologica, un tema di dibattito particolarmente acceso in Germania. Inizialmente l’industria automobilistica tedesca aveva tentato di rispondere alle stringenti normative sulle emissioni dell’UE attraverso un perfezionamento tecnologico del motore diesel, una strategia che però si scontrò con limiti oggettivi e che culminò nel cosiddetto Dieselgate del 2015. Lo scandalo, emerso da un’indagine statunitense e inizialmente focalizzato su VW, rivelò successivamente il coinvolgimento di praticamente tutti i principali costruttori e fornitori tedeschi in manipolazioni illegali dei sistemi di scarico, decretando il fallimento su larga scala dell’intera strategia diesel. Il progressivo inasprimento delle direttive europee sulle emissioni di CO₂, con limiti di fleet emission passati da 130 g/km nel 2015 a 95 g/km nel 2021 e un obiettivo di 59,4 g/km per il 2030, unito alle allettanti prospettive di crescita del mercato cinese ha costretto i costruttori tedeschi a un drastico cambio di rotta negli ultimi anni, orientandosi quasi esclusivamente verso i veicoli elettrici a batteria (BEV). L’obiettivo condiviso a livello europeo è mantenere la posizione di secondo polo produttivo mondiale e evitare una marginalizzazione nel cruciale mercato cinese. In questo contesto la Commissione Europea ha implementato un mix di regolamenti e strategie di supporto, tra cui spicca l’European Battery Alliance, un progetto che coinvolge dodici stati membri e che, attraverso lo strumento degli Important Projects of Common European Interest (IPCEI), mira a creare una filiera europea delle batterie, riducendo la dipendenza dai fornitori asiatici con l’aiuto di sussidi pari a 2,9 miliardi di euro. La svolta politica più significativa è stata l’accordo dei ministri dell’ambiente UE nel giugno 2022 di vietare la vendita di nuove auto a combustione interna a partire dal 2035. Le sfide restano formidabili. Da un lato persiste l’interrogativo irrisolto sulla capacità dei tradizionali costruttori di recuperare il vantaggio tecnologico ormai consolidato rispetto a Tesla e i nuovi produttori cinesi. Dall’altro, la questione cruciale per i lavoratori è se e in che misura la qualità dell’occupazione possa essere preservata. Oltre alle perdite di posti di lavoro legate alla semplificazione dei treni motori elettrici, la trasformazione rischia di aggravare una tendenza strutturale già in atto da decenni: la delocalizzazione della produzione e dell’occupazione verso l’Europa orientale che si sta estendendo anche a paesi limitrofi all’UE come Serbia e Ucraina, almeno per quanto le condizioni di quest’ultima lo consentano dopo l’invasione russa. Il profilo dell’industria automobilistica tedesca ne sottolinea l’eccezionale rilevanza. Con una produzione di 15,8 milioni di veicoli nell’UE nel 2019, la regione europea nel suo complesso è il secondo polo produttivo mondiale dopo l’Asia, con circa 3,5 milioni di occupati diretti e 12 milioni considerando l’indotto. La Germania domina questo panorama con circa 919.002 addetti diretti nel 2021 (oltre tre volte quelli della Francia), un fatturato globale di circa 440 miliardi di euro e una quota del 20% sul valore aggiunto industriale totale nazionale, un valore sproporzionatamente alto rispetto a paesi come Corea del Sud, Giappone o Stati Uniti e circa quattro volte superiore a quello di Francia e Italia. Un’analisi di Antje Blöcker mette in luce quattro caratteristiche fondamentali del settore in Germania. In primo luogo una divergenza tra produzione nazionale ed estera divenuta evidente nell’ultimo decennio, per cui i costruttori tedeschi producono ormai più del doppio dei veicoli all’estero (11 milioni) rispetto alla Germania (4,7 milioni). In secondo luogo una struttura piramidale e gerarchica dei rapporti tra costruttori (OEM) e fornitori, dove i grandi Tier 1 (Bosch, Continental, ZF) sono innovation driver ma subiscono forti pressioni sui prezzi che si ripercuotono a valle, verso i livelli inferiori della piramide. Terzo, una forte dipendenza dal settore premium, caratterizzato da veicoli pesanti e ad alto contenuto tecnologico (in particolare diesel), la cui domanda è storicamente legata a flotte aziendali e istituzionali, creando una path dependency significativa. Quarto, un’alta concentrazione geografica nei Länder di Baviera, Baden-Württemberg, Bassa Sassonia e, più recentemente, Sassonia, con il brandeburghese destinato a guadagnare importanza con il nuovo stabilimento Tesla di Grünheide. Un tratto decisivo è il carattere profondamente globale dell’industria tedesca, il cui “punto di non ritorno” nella delocalizzazione del valore aggiunto all’estero si colloca probabilmente durante la crisi finanziaria del 2007-2008. Oltre agli investimenti in Cina e Nord America dettati dalla logica local for local, la regione dell’Europa Centrale e Orientale riveste un’importanza strategica per la prossimità geografica. Dagli anni ’90 paesi come Polonia, Repubblica Ceca, Ungheria e Romania si sono affermati come “best cost country” all’interno delle reti di produzione transnazionali tedesche. Il driver principale sono i costi del lavoro: secondo VDA un operaio in Germania costa circa 56 euro l’ora, contro i 17 della Repubblica Ceca, i 15 della Slovacchia e i soli 9 euro della Romania. Le ricerche del geografo economico Petr Pavlinek mostrano come la quota di produzione automobilistica europea si sia spostata dai paesi core (Europa occidentale esclusa Spagna e Portogallo) verso la periferia integrata (che include Est Europa, Spagna, Portogallo, Turchia, Marocco) e non integrata (Russia, Ucraina), passando dal 26% del 1991 al 46% del 2020. Pavlinek evidenzia come la creazione di nuovi posti di lavoro sia trainata dalle corporation tedesche e francesi ma questi posti sono creati quasi esclusivamente nell’Europa orientale. Parallelamente l’84% dei posti persi dalle aziende tedesche e l’88% di quelli persi dalle francesi si concentrano nei rispettivi paesi d’origine. Secondo Pavlinek l’elettrificazione non stravolgerà questa geografia ma rafforzerà le tendenze esistenti, prevedendo un’introduzione più lenta della produzione di massa di veicoli elettrici nella periferia rispetto all’Europa occidentale. La situazione è ancor più critica nella periferia non integrata. L’importanza dell’Ucraina, ad esempio, è emersa drammaticamente con la guerra, quando carenze di cablaggi (dei quali il paese produceva circa il 7% del totale UE) hanno bloccato linee di produzione in Germania. Queste aree sono attraenti proprio perché fuori dalla giurisdizione UE e soggette a standard ambientali e lavorativi meno stringenti. L’esempio del produttore cinese di pneumatici Linglong in Serbia è emblematico: l’azienda, che rifornisce anche VW, è finita sotto accusa per lo sfruttamento di manodopera migrante vietnamita in condizioni vicine al lavoro forzato, tanto da aver innescato forti proteste locali. In Germania il sindacato IG Metall rappresenta un attore sociale di primaria importanza, tradizionalmente in grado di dettare standard nel dialogo industriale. Il sindacato stima che nel solo settore automobilistico siano a rischio 50.000 posti nel breve termine e altri 180.000 nel medio-lungo periodo. Per contrastare i licenziamenti di massa IG Metall ha elaborato un concetto di trasformazione ecologica, sociale e democratica che insiste su qualificazione, decarbonizzazione, espansione delle energie rinnovabili e dei trasporti pubblici. La mobilità elettrica è vista come lo sviluppo pivotale ma il sindacato chiede che lo Stato garantisca infrastrutture adeguate e promuova i veicoli a combustione efficienti come tecnologia ponte, rifiutando divieti di circolazione finché non esistono alternative valide per i pendolari. La posizione di IG Metall è evoluta da uno scetticismo iniziale a un sostanziale allineamento con le strategie elettriche dei costruttori.

Tuttavia la delocalizzazione nella periferia integrata rappresenta una sfida cruciale anche per il sindacato. Pratiche come il lavoro su chiamata, turni di dodici ore e sistemi salariali opachi, sperimentate in paesi come l’Ungheria, creano un pericoloso benchmarking che mette in competizione i lavoratori dei diversi siti, erodendo i diritti acquisiti in Germania. IG Metall sta tentando di rispondere con iniziative transnazionali, come uffici congiunti con il sindacato ungherese VASAS a Györ e Kecskemét, ma questi sforzi si scontrano con la frammentazione del panorama sindacale locale e una cronica mancanza di risorse. Secondo gli esperti la nuova filiera delle batterie al litio in Europa orientale potrebbe aprire uno spiraglio per l’organizzazione sindacale poiché questi siti, a differenza di quelli asiatici, sono potenzialmente raggiungibili. Resta però aperta la questione se questi tentativi riceveranno le risorse e la pianificazione strategica necessarie per riequilibrare, in modo decisivo e sostenibile, un rapporto di forza ancora enormemente favorevole al capitale.

2. Le sfide della doppia transizione nell’industria automobilistica tedesca

Nel 2022 la Fondazione Rosa Luxemburg ha pubblicato un lavoro specifico sul settore automobilistico tedesco dal titolo Die Automobilindustrie: Es geht um mehr als den Antrieb

Eine Studie im Rahmen des Projekts «Sozial-ökologische Transformation der deutschen Industrie» che riprende il tema del doppio carattere della trasformazione, sottolineando come il cambiamento in corso sia guidato dalla convergenza di due driver principali, ormai inscindibili nelle strategie degli attori principali fino al 2030: l’imperativo della protezione climatica, dettato dal mancato raggiungimento degli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2 del settore trasporti, e la spinta verso una digitalizzazione pervasiva di prodotti e processi che va dalle architetture dei veicoli elettrici alla guida autonoma fino a nuovi servizi di mobilità basati su app. Questo processo investe un settore che ha un’enorme rilevanza sistemica per la Germania, essendo profondamente radicato nell’economia, nella società e nella politica del paese, come dimostrano l’attenzione mediatica, il peso del lobbismo automobilistico e il rinnovato interesse della ricerca sociale e del lavoro. Questa trasformazione avviene in un contesto paradossale. Nonostante le crisi recenti, dalla pandemia alla carenza di chip fino all’interruzione delle catene di approvvigionamento a causa della guerra in Ucraina, i grandi costruttori (OEM) hanno continuato a generare profitti record, concentrandosi sulla produzione di modelli premium ad alto margine. Questa “realtà capovolta”, per cui si realizzano utili enormi nonostante volumi produttivi in calo, ha premiato gli azionisti e, in misura minore, i dipendenti stabili degli OEM attraverso bonus consistenti, contribuendo a calmierare le tensioni sociali e a smorzare, di fatto, la spinta verso una autentica trasformazione socio-ecologica che punti a veicoli più piccoli e meno numerosi. Il vero peso della crisi ricade invece sulla vasta galassia di piccole e medie imprese fornitrici che contribuiscono per oltre il 70% al valore aggiunto della filiera e dove l’uso della cassa integrazione è diventato routine, acuendo lo squilibrio nei rapporti di forza tra capitale e lavoro a favore del primo. La filiera automobilistica tedesca è caratterizzata da una struttura piramidale e gerarchica. All’apice si trovano i pochi grandi OEM (Audi, BMW, Mercedes-Benz, Porsche, Volkswagen, Ford e Opel), seguiti dai grandi fornitori di tecnologia di primo livello (Tier-1) come Bosch, Continental e ZF, per scendere verso i livelli inferiori di fornitura, fino agli assemblaggi Just-in-Time e ai produttori di componenti standardizzati. A questa catena si affiancano settori cruciali come la costruzione di macchine utensili e impianti (ad esempio Schuler, KUKA, Dürr), i servizi di sviluppo ingegneristico (EDL) e l’indotto della vendita e manutenzione che conta circa 440.000 addetti. Un tratto distintivo del settore è la forte concentrazione geografica in Baviera, Baden-Württemberg e Bassa Sassonia, con la presenza di circa 70 cluster regionali, di cui 20-30 sono considerati particolarmente vulnerabili ai cambiamenti in atto. Dal punto di vista occupazionale il settore è uno dei pilastri dell’industria tedesca. Le stime sul numero di dipendenti diretti variano, oscillando tra gli 817.000 (dati ufficiali sul nucleo della produzione) e 1,6-2,2 milioni se si considerano tutte le attività collegate, incluse quelle a monte e a valle spesso non coperte dalle statistiche ufficiali. Dopo un periodo di forte crescita tra il 2010 e il 2018, dal 2019 si registra un calo occupazionale, con la perdita di circa 30.000 posti di lavoro, un trend che non è un mero effetto congiunturale ma segnale di una ristrutturazione più profonda. Il mercato del lavoro nel settore è segnato da forti disuguaglianze. Gli OEM vantano alti livelli di sindacalizzazione, contrattazione collettiva (fino al 90%), salari molto elevati e ampie garanzie occupazionali mentre i livelli inferiori della piramide dei fornitori sono caratterizzati da minore protezione, salari più bassi e minore presenza sindacale. Anche il profilo delle competenze è in evoluzione. Il livello di qualificazione è storicamente alto, con un significativo spostamento verso una maggiore presenza di laureati (quasi il 20% della forza lavoro) e una sostanziale stabilità del lavoro qualificato specializzato (circa il 65%). Tuttavia l’utilizzo di figure altamente specializzate, come i meccatronici, direttamente nelle linee di produzione ha portato a fenomeni di dequalificazione parziale. Le trasformazioni tecnologiche stanno alterando profondamente le professioni, in particolare nel campo della manutenzione e della riparazione, mettendo in discussione il tradizionale e ancora popolare percorso formativo del meccatronico dell’autoveicolo. 

La trasformazione del settore automobilistico tedesco è guidata da un quadro normativo stringente, in particolare dagli obiettivi di riduzione delle emissioni di CO2. Il settore dei trasporti, responsabile di 164 milioni di tonnellate di emissioni di gas serra nel 2019, pari al 20% del totale nazionale, deve affrontare una sfida monumentale: dimezzare le proprie emissioni, portandole a 80 milioni di tonnellate di CO2 equivalenti entro il 2030, come stabilito dal nuovo Klimaschutzgesetz, rivisto dopo che la Corte Costituzionale federale ne ha dichiarato l’insufficienza. Questo obiettivo appare particolarmente ambizioso considerando che, a differenza di altri settori, le emissioni del traffico stradale sono aumentate dal 1990 al 2021, spinte da un parco auto sempre più numeroso, pesante e potente, caratterizzato da una bassa utilizzazione media giornaliera. Tutte le proiezioni, incluso uno studio dell’UBA del 2021, suggeriscono che il settore mancherà l’obiettivo intermedio del 2030 di circa 40 milioni di tonnellate, creando un’enorme pressione all’azione.

Il meccanismo principale per raggiungere questi obiettivi a livello europeo sono i limiti di CO2 per le flotte di veicoli nuovi. Questo sistema presenta diverse criticità strutturali. In primo luogo, l’assenza di tappe intermedie vincolanti fino al 2030 ha portato, nel periodo precedente al 2021, a un massiccio ricorso alle vendite di veicoli plug-in hybrid (PHEV) da parte dei costruttori tedeschi. Questa strategia ha permesso di “aggiustare” i valori medi di CO2 delle flotte, dominate ancora in larga maggioranza da modelli a combustione interna (ICE), senza apportare reali miglioramenti alla loro efficienza. Una debolezza fondamentale di questi limiti di flotta risiede nel loro metodo di calcolo. Solo i veicoli nuovi sono regolamentati, ignorando completamente l’enorme parco auto esistente che continuerà a circolare per anni. Inoltre i valori di CO2 sono misurati in laboratorio, un metodo notoriamente suscettibile di manipolazioni. Soprattutto, i veicoli elettrici a batteria (BEV) sono conteggiati come aventi emissioni zero mentre per i PHEV le emissioni sono calcolate sulla base di una presunta quota di guida elettrica. Ciò crea un perverso incentivo: più BEV un costruttore vende, più può compensare le emissioni di SUV e altri veicoli ICE ad alto consumo. Il sistema non tiene conto del peso, della potenza o del consumo effettivo di elettricità dei BEV, premiando quindi allo stesso modo un’utilitaria elettrica e un pesante SUV elettrico come il Volkswagen ID.4 che di fatto permette alla casa di continuare a vendere SUV a combustione come il Tiguan. L’International Council on Clean Transportation (ICCT) ha dimostrato che, escludendo BEV e PHEV, le emissioni medie delle nuove auto sono scese solo da 120 g/km nel 2015 a 116 g/km nel 2020, da qui la sua richiesta di un taglio del 70% entro il 2030, ben più ambizioso del 37,5% attualmente previsto.

Per sostenere questa transizione, le cosiddette Innovationsprämien (incentivi all’acquisto per veicoli elettrici) in Germania sono state cruciali per accelerare la diffusione dei BEV ma sono anche molto controverse. Hanno generato critiche a livello europeo per il percepito lobbismo tedesco e hanno dato adito a pratiche speculative, come la rivendita dei veicoli dopo soli sei mesi in altri paesi dell’UE per realizzare un profitto, portando a proposte per estendere il periodo minimo di possesso a dodici mesi. Oltre agli incentivi, l’UBA raccomanda misure più drastiche come lo stop alla vendita di veicoli a combustione interna dal 2032-2035, un calcolo più realistico delle emissioni dei PHEV basato sulla guida elettrica reale e l’introduzione di un sistema bonus-malus. Il quadro normativo evita deliberatamente misure impopolari come l’introduzione di un limite di velocità in autostrada, che secondo l’UBA potrebbe far risparmiare da 2,5 a 3 milioni di tonnellate di CO2, o la riduzione dei parcheggi. Per quanto riguarda i combustibili alternativi, i costruttori tedeschi hanno praticamente abbandonato l’idrogeno per le auto passeggeri (con la parziale eccezione di BMW) mentre i combustibili sintetici (e-fuels) non avranno un impatto significativo sugli obiettivi del 2030. Parallelamente alla pressione normativa, la trasformazione è plasmata da profondi processi globali e tecnologici. La globalizzazione ha visto l’industria automobilistica tedesca evolversi da una strategia basata sull’esportazione alla creazione di reti produttive policentriche, prima spinte dalla ricerca di costi inferiori (delocalizzazione in Europa centro-orientale) e poi dall’accesso ai mercati (con impianti high-tech in Cina oppure negli USA). La pandemia di Covid-19 e la conseguente carenza di semiconduttori hanno esposto la fragilità di queste catene di approvvigionamento globali, causando interruzioni produttive e accentuando la dipendenza da fornitori asiatici quasi monopolistici. Ciò ha portato a una rinnovata spinta per la resilienza, con piani per ricostruire competenze e capacità produttive in Europa per componenti critiche, come batterie e chip, e un ripensamento delle strategie di approvvigionamento anche alla luce del Lieferkettensorgfaltspflichtengesetz (LkSG) sulla due diligence delle catene di fornitura.

La digitalizzazione, inseparabile dall’elettrificazione, si manifesta sia a livello di prodotto che di processo. Dal lato prodotto, l’auto si sta trasformando in un “computer su ruote”, con un’enfasi sulla connettività, i sistemi di assistenza alla guida fino al livello 5 di guida autonoma (il cui sviluppo procede più lentamente del previsto) e l’infotainment. Questa evoluzione solleva cruciali questioni di sovranità dei dati e vede l’ingresso di nuovi competitori come Tesla e aziende IT, costringendo gli OEM tradizionali a formare cooperazioni ibride. Il concetto di digital twin e gli aggiornamenti over-the-air stanno ridefinendo il rapporto con il cliente e la manutenzione del veicolo. Dal lato processo, la digitalizzazione della produzione (Industria 4.0) introduce sistemi uomo-macchina più avanzati, sebbene i cambiamenti siano spesso incrementali e in molti stabilimenti manchino strategie di qualificazione adeguate per la forza lavoro. L’elettrificazione sta ridefinendo la catena del valore, spostando l’attenzione verso la produzione interna (insourcing) di componenti come batterie e elettronica di potenza, con piani per costruire fino a 40 nuovi stabilimenti di batterie in Europa. Contemporaneamente emergono nuovi attori a valle, come i fornitori di infrastrutture di ricarica e servizi di mobilità.

Tutto ciò conduce a una profonda evoluzione dei modelli di business. Il tradizionale modello di vendita, sostenuto dai servizi finanziari delle banche automobilistiche che contribuiscono per oltre il 30% alla redditività, è sotto pressione. Gli OEM stanno rispondendo espandendosi verso servizi di mobilità (Mobility as a Service – MaaS), integrando carsharing, ride-hailing e abbonamenti all’auto in pacchetti digitali, spesso attraverso joint venture (ad esempio la fusione dei servizi di BMW e Daimler in ShareNow) o società controllate (pensiamo a MOIA di VW). Questi servizi sono stati finora poco redditizi e sollevano preoccupazioni riguardo alla privatizzazione dello spazio pubblico, alla mobilità sociale e alle condizioni di lavoro nel settore. Modelli di abbonamento “tutto compreso” e, in prospettiva, il riciclo delle batterie e l’economia circolare rappresentano ulteriori fronti di sviluppo, sebbene il riciclo industriale su larga scala diventerà economicamente vantaggioso solo dopo il 2030. 

L’industria automobilistica tedesca rappresenta una vera e propria roccaforte tecnologica, incarnando un modello industriale profondamente guidato dall’ingegneria. Questo sistema poggia su fondamenta accademiche e di ricerca estremamente solide: nelle università tecniche del network TU-9, le facoltà di ingegneria meccanica, elettrotecnica e scienze dei trasporti sono dominate dagli studi sulla tecnica veicolare mentre da circa quindici anni l’informatica è influenzata in modo determinante dal software automotive. A questo si aggiunge il lavoro di numerosi Istituti Max Planck e Fraunhofer focalizzati sulla ricerca sul sistema auto, nonché il ruolo preminente che la tecnica veicolare ricopre all’interno di potenti associazioni professionali come VDE e VDI e industriali come VDA e VDMA. Questo ecosistema dell’innovazione produce un flusso costante di studi, tra cui spiccano per sistematicità gli innovativi confronti annuali del Center of Automotive Management (CAM), i quali analizzano 36 costruttori globali con 90 marchi attraverso 650 indicatori, e i rapporti periodici pubblicati dal VDA. Le innovazioni tecniche che emergono da questo contesto sono di due tipi: incrementali e disruptive. Le prime, che migliorano gradualmente prodotti e processi esistenti, hanno storicamente avuto un impatto limitato sull’organizzazione del lavoro, sebbene il loro outsourcing abbia dinamizzato le società di servizi per lo sviluppo ma parallelamente causato una perdita di competenze nelle divisioni interne di Sviluppo Tecnico, relegate spesso a mere funzioni di coordinamento. Al contrario, le innovazioni disruptive, che vengono esaminate per la loro fattibilità attraverso processi di screening e poi testate in collaborazioni o in laboratori interni dedicati (le cosiddette I-Lab), stanno alterando profondamente i flussi di lavoro e le strutture organizzative, portando alla nascita di consociate IT. Questo fervore innovativo viene trasmesso alle piccole e medie imprese fornitrici attraverso i cluster regionali e i dialoghi strategici dei Länder, come dimostra la dettagliatissima analisi del Strategiedialog Automobilwirtschaft Baden-Württemberg, una lista di competenze tecnologiche che permette ai fornitori di autovalutarsi. Resta aperto il dibattito se questo sistema stia vivendo una frattura, un passaggio da un determinismo puramente tecnico a uno sociale o ecologico, dato che il futuro di tecnologie controverse come i propulsori alternativi e la guida autonoma è oggetto di un acceso confronto pubblico che investe la questione della tecnologia aperta, degli standard e delle normative.

Sul fronte produttivo l’innovazione è indirizzata verso la realizzazione di Smart Factory che vanno ben oltre la semplice robotica per abbracciare ambienti di produzione auto-organizzanti, privi di intervento umano diretto, basati su sensori interconnessi, impianti completamente automatizzati e una logistica a guida autonoma (FTS 4.0). Questi sistemi promettono un netto aumento dell’efficienza lungo l’intera catena del valore e, non da ultimo, significativi risparmi di materiali ed energia grazie all’Internet delle Cose (IoT) e a sistemi di controllo intelligenti, un punto su cui gli investitori OEM insistono molto, annunciando aumenti degli investimenti superiori al 60% nei prossimi anni e sottolineando sempre il collegamento con gli obiettivi climatici. Un altro pilastro della ricerca è il veicolo autonomo, il cui sviluppo, avviato da tempo, mira a trasformare il guidatore in un passeggero. Questo obiettivo richiede il perfezionamento di tutti i sistemi di assistenza alla guida e di comunicazione Car-to-X, nonché lo sviluppo di tecnologie come LIDAR (che mappa l’ambiente con laser), RADAR e sistemi di telecamere. Sebbene vengano attribuiti a questi veicoli potenziali benefici in termini di sicurezza e riduzione delle emissioni di CO₂, permangono grandi incertezze e sfide irrisolte di natura giuridica, etica e soprattutto sulla protezione dei dati.

Alla luce della necessaria trasformazione socio-ecologica, si stanno delineando chiari cambi di accentazione nei campi d’azione tecnologica che includono la sostenibilità del prodotto, una produzione a basse o zero emissioni di carbonio, il riciclo e la partecipazione sociale alla mobilità. Le innovazioni si concentrano quindi sull’efficienza del powertrain elettrico, con ricerche avanzate su motore elettrico, batteria, cella a combustibile e carburanti sintetici (e-fuels). Per il motore elettrico la ricerca si focalizza su tutti i componenti e i processi di assemblaggio, con progetti come AgiloDrive2 che esplorano gemelli digitali e produzione agile, con l’obiettivo di liberare ulteriori margini di efficienza e creare nuovi posti di lavoro. La batteria, componente di altissimo valore, è al centro di uno sforzo per aumentare la densità energetica delle batterie agli ioni di litio (LIB) da 275 Wh/kg nel 2020 a 350 Wh/kg nel 2030, con l’obiettivo a lungo termine di 1.200 Wh/kg, un traguardo che abbatterebbe i costi da 140 €/kWh a 70 €/kWh entro il 2030 e circa 50 €/kWh entro il 2040. Parallelamente si lavora allo sviluppo della batteria a stato solido e a quella al sodio-zolfo che elimina la dipendenza da litio e cobalto. A questo si lega la ricerca sul riciclo delle batterie, da cui ci si attendono significativi effetti occupazionali. La cella a combustibile, tecnologia considerata matura senza attesi balzi in avanti, converte l’idrogeno in elettricità e offre vantaggi in termini di rapidità di rifornimento e autonomia, particolarmente adatta per veicoli pesanti. Il suo reale beneficio climatico dipende dalla disponibilità di idrogeno verde, la cui produzione è ancora limitata e energivora. I carburanti sintetici o e-fuels, prodotti da idrogeno e CO₂, sono oggetto di un intenso dibattito. Sebbene promossi da una lobby potente come l’eFuel Alliance per la loro capacità di immagazzinare e trasportare energie rinnovabili, questi carburanti hanno un’efficienza energetica molto bassa rispetto ai veicoli elettrici a batteria (richiedendo da 5 a 7 volte più energia primaria per chilometro) e la loro produzione su larga scala, come dimostra l’investimento di Porsche in Cile, richiederebbe una massiccia espansione dell’energia rinnovabile, ritardando potenzialmente l’addio al motore a combustione. L’intero sistema d’innovazione automobilistico è quindi sempre più inserito in un più ampio sistema di mobilità che deve fare i conti con il clima e la decarbonizzazione, come evidenziano anche le roadmap tecnologiche di aziende e consulenti. Per sostenere questa trasformazione gli OEM hanno in programma investimenti colossali, stimati in circa 150 miliardi di euro entro il 2025, finanziati anche attraverso una rigorosa razionalizzazione interna che punta a ridurre la complessità dei componenti e a sfruttare piattaforme comuni.

Una premessa fondamentale per questa transizione è lo sviluppo di infrastrutture adeguate. Per l’affermazione dell’e-mobilità la disponibilità di una rete di ricarica capillare è determinante. L’obiettivo è di un milione di punti di ricarica pubblici entro il 2030, alimentati al 100% da energie rinnovabili, ma la realtà è in forte ritardo: all’inizio del 2021, 590.000 veicoli elettrici condividevano solo 39.600 punti pubblici, un rapporto di 1 a 15, ben lontano dall’obiettivo di 1 a 10 considerato sufficiente. La mappa del VDA mostra forti disparità regionali. Il governo sta cercando di correre ai ripari con ingenti finanziamenti, tra cui 300 milioni di euro per la ricarica locale e 2 miliardi per una rete nazionale di 1.000 stazioni di ricarica veloce, oltre a semplificare le norme per i pagamenti alle colonnine. Altre questioni cruciali sono la possibilità di utilizzare le batterie dei veicoli come riserve per la rete elettrica (Vehicle-to-Grid) e la necessità di potenziare le reti elettriche per far fronte a una domanda stimata di 69 TWh entro il 2030. Per l’idrogeno la situazione infrastrutturale è ancora più embrionale, con solo 92 stazioni di rifornimento a fine 2021, il che solleva il problema dei costi di costruire due infrastrutture parallele.

Lo Stato supporta attivamente questa transizione attraverso programmi specifici. Il quadro normativo è definito dalla legge sulla e-mobilità del 2015 che permette ai comuni di concedere privilegi ai veicoli elettrici. L’incentivo principale è il Umweltbonus (premio ambientale), raddoppiato come Innovationsprämie e finanziato per metà dallo Stato e per metà dai costruttori. Questo bonus offre fino a 9.000 euro per i veicoli elettrici puri e 6.750 euro per gli ibridi plug-in, con importi ridotti per vetture di fascia più alta. Altre misure includono l’esenzione dal bollo automobilistico fino al 2030 e agevolazioni fiscali per le auto aziendali elettriche. Nonostante la crescita delle immatricolazioni, la penetrazione di mercato rimane bassa (circa l’1% per i BEV sul totale del parco circolante) e gli incentivi sono criticati perché, essendo destinati spesso a clienti facoltosi come acquirenti di seconde o terze vetture, rappresentano un sussidio costoso all’auto privata che potrebbe essere investito più efficacemente nel potenziamento del trasporto pubblico locale. Per la guida autonoma la Germania ha creato il primo quadro giuridico completo al mondo, aprendo la strada a servizi di shuttle autonomi nel trasporto pubblico.

A causa della doppia transizione in atto, si assiste ad una profonda alterazione dei sistemi produttivi e dell’organizzazione del lavoro, sebbene alcuni elementi ereditino esperienze consolidate della Lean Production, come il principio della riduzione degli sprechi o le forme di gruppo lavoro, aggiornate però attraverso metodologie agile come Scrum. La novità assoluta risiede nel fatto che il software sta diventando un elemento centrale, tanto da spingere le case costruttrici a stabilire proprie organizzazioni dedicate alla Car-IT, segnando una discontinuità con i tradizionali cicli di pianificazione quinquennali o settennali dell’auto, molto più lunghi rispetto ai ritmi frenetici del mondo IT. Mentre in passato le funzioni legate al design o alla smart mobility venivano spesso separate organizzativamente e geograficamente, oggi si assiste alla nascita di Innovationslab direttamente all’interno degli stabilimenti o, sempre più frequentemente, nelle città considerate epicentri della creatività tedesca, come Berlino, Monaco (per VW, BMW e Daimler), Stoccarda (per Daimler, Bosch e Porsche), nonché Lipsia e Colonia. Il modus operandi di questi laboratori si ispira esplicitamente a quello dei centri di innovazione della Silicon Valley, dove tutti i principali costruttori hanno insediato piccole unità operative, e prevede l’adozione di forme di organizzazione agile del lavoro caratterizzate da una maggiore autonomia e responsabilizzazione dei dipendenti, particolarmente nelle funzioni di Ricerca & Sviluppo e IT. Tesla viene costantemente presa a riferimento come benchmark, non solo per i processi produttivi, ma anche per possibili evoluzioni dei sistemi retributivi, avendo questa azienda assunto ingegneri da altri costruttori offrendo pacchetti che comprendono stipendi fissi e quote azionarie. Parallelamente la produzione fisica subisce adattamenti significativi, con scelte strategiche fondamentali che vedono da un lato la costruzione di linee dedicate esclusivamente ai veicoli elettrici, come nel caso dello stabilimento VW di Zwickau, e dall’altro l’integrazione dei modelli elettrici nelle linee di assemblaggio esistenti mentre prendono forma nuovi reparti per la produzione di batterie che impiegano personale proveniente da aree tradizionalmente distanti, come la lavorazione della plastica o il montaggio dei motori.

2. Le conseguenze sull’occupazione

Il saggio di Jörn Boewe e Johannes Schulten Resilient or vulnerable? The double transformation of the German automotive industry and the consequences for employment analizza la resilienza occupazionale dell’industria automobilistica tedesca di fronte alla doppia trasformazione e può esserci utile per tirare le somme essendo un lavoro piuttosto recente e ricco di dati. Gli autori spiegano che la Germania sta entrando nella seconda fase di questa trasformazione. La prima fase, negli ultimi quattro-cinque anni, è stata caratterizzata dagli investimenti miliardari dei costruttori (OEM) e dei fornitori tedeschi nello sviluppo di veicoli elettrici, nell’avvio di nuove aree di business e in programmi di qualificazione, spinti da scandali come il Dieselgate e da quadri normativi come l’accordo di Parigi. La seconda fase, favorita dalla fine della pandemia di Covid-19 e dalla normalizzazione delle catene di approvvigionamento, testerà la competitività di questi nuovi prodotti in un mercato ormai affollato di nuovi concorrenti. Le sfide per l’industria tradizionale tedesca sono enormi. La batteria, il componente più prezioso di un’auto elettrica, è un campo in cui la competenza produttiva non appartiene ai costruttori tradizionali ma è dominata da produttori asiatici specializzati. La decisione del fornitore Bosch di abbandonare la ricerca sulle celle delle batterie nel 2018, ritenendo impossibile competere con i vantaggi di costo asiatici, è esemplare di questo ritardo strategico. Questo divario è problematico perché aree come batterie, software e chip offrono margini di profitto molto più elevati (fino al 30% per il software) rispetto ai prodotti tradizionali dei fornitori, i cui margini sono scesi dal 10% pre-pandemia a circa il 4-5%. La riconfigurazione della catena del valore è quantificata dal confronto tra la Volkswagen Golf 8 e l’ID.3. Per la Golf il 60% dei componenti proviene dalla Germania mentre per l’ID.3 questa quota crolla al 27%, con un terzo dei componenti ora proveniente dall’Asia. Anche nel software e nei semiconduttori, essenziali sia per la trazione elettrica che per le funzioni digitali, l’expertise risiede al di fuori dell’industria automobilistica tradizionale, in aziende statunitensi o cinesi. Viene citato l’esempio di Amazon che attraverso investimenti in startup come Rivian, acquisizioni come Zoox e la fornitura di servizi cloud con AWS, sta penetrando in modo pervasivo nel settore, illustrando la natura multidimensionale della nuova concorrenza. La doppia trasformazione ha drasticamente abbassato le barriere all’ingresso, esponendo l’industria tedesca a una duplice minaccia: la concorrenza diretta di nuovi OEM come Tesla e i costruttori cinesi (BYD, SAIC, Geely), e l’ascesa di nuovi player nelle catene di fornitura che, specializzati in componenti ad alto valore, ambiscono a posizioni dominanti e autonome piuttosto che a un ruolo subordinato. La domanda centrale della ricerca è se l’occupazione nel settore, stabile per oltre un decennio nonostante le crisi, possa resistere a questi shock. Metodologicamente, lo studio combina l’analisi di report aziendali e studi di settore con 14 interviste qualitative a rappresentanti dei consigli di fabbrica e del sindacato IG Metall, costruendo anche su un precedente lavoro degli autori. L’obiettivo è comprendere, attraverso casi di studio aziendali, dove e perché si stanno verificando perdite di posti di lavoro e quali strategie sindacali e contrattuali vengono messe in atto per governare questi sviluppi. 

La strategia dell’industria automobilistica tedesca, prima dello scandalo Dieselgate, si basava su un approccio conservativo volto a ottimizzare il motore a combustione interna per rispettare i limiti emissivi europei. La crisi del Dieselgate ha rivelato che questi miglioramenti erano in parte frutto di una deliberata inganno tecnico, costringendo il settore a un drastico cambio di rotta. Questa seconda fase della doppia trasformazione è caratterizzata da piani ambiziosi per l’uscita graduale dalla tecnologia a combustione, il lancio di nuove flotte di veicoli elettrici e un deciso ingresso nella produzione di componenti chiave del powertrain elettrico, come motori e batterie. Parallelamente le case automobilistiche hanno avviato alleanze strategiche con nuovi attori, tra cui aziende IT, produttori di batterie e costruttori cinesi emergenti, con l’obiettivo di condividere risorse e competenze in ambiti in cui non disponevano di una sufficiente expertise interna. Questo complesso processo di riconversione industriale è stato influenzato e in parte sostenuto da un rinnovato attivismo della politica industriale tedesca. La crisi pandemica del 2020, con il crollo della domanda e delle catene di approvvigionamento globale, ha portato all’approvazione di un ampio pacchetto di sostegno, il cui elemento centrale erano gli incentivi all’acquisto di veicoli elettrici. Questi prevedevano un premio di 9.000 euro per i veicoli elettrici puri (BEV) e 4.500 euro per gli ibridi plug-in (PHEV). La coalizione di governo insediatasi nel 2022 ha progressivamente ridotto questi incentivi. Da gennaio 2023 gli ibridi plug-in sono stati esclusi e sono stati introdotti scaglioni di prezzo, con sussidi più bassi per vetture oltre i 40.000 euro e l’esclusione di quelle sopra i 65.000 euro. Da settembre 2023, gli incentivi sono stati limitati ai soli privati, escludendo le auto aziendali, cruciali per il mercato tedesco, per poi essere soppressi anticipatamente nel dicembre 2023 a seguito della sentenza della Corte Costituzionale sul “freno al debito”, lasciando così il settore senza più sostegni statali all’acquisto. Analizzando le strategie dei principali costruttori, Volkswagen si è posta obiettivi molto ambiziosi: ridurre la quota di veicoli a combustione al 50% entro il 2030, con un’uscita completa prevista tra il 2033 e il 2035, almeno in Europa. Dopo aver lanciato diversi modelli sulla piattaforma modulare MEB, il Gruppo punta sulla nuova piattaforma standardizzata SSP (Scalable Systems Platform), il cui debutto è atteso non prima del 2028. Per internalizzare la produzione di componenti critici, VW ha annunciato piani per sei fabbriche di batterie in Europa, con l’obiettivo di coprire autonomamente l’80% del proprio fabbisogno di celle entro il 2030, e ha investito in miniere di nickel e rame in Brasile per garantire l’approvvigionamento delle materie prime. Analogamente, in ambito software, ha fondato la sussidiaria Cariad con l’obiettivo di aumentare la quota di software sviluppato internamente dal 10% al 60%. La realtà operativa ha mostrato significative difficoltà. Le vendite di BEV, pur crescendo del 35% a 771.000 unità nel 2023, non hanno colmato il divario con Tesla e BYD. La mancata competitività in Cina, mercato dove gli EV rappresentano oltre il 30% delle vendite, ha portato alla perdita della leadership e a tentativi di recupero tecnologico attraverso collaborazioni con Xpeng e SAIC. Anche in Europa le vendite deludenti hanno causato sovracapacità e tagli produttivi a Zwickau. I problemi della Cariad, con software rivelatosi più complesso del previsto, hanno causato ritardi nel lancio di nuovi modelli, come il progetto Trinity, rinviato al 2028, e l’abbandono della costruzione di un nuovo stabilimento a Wolfsburg. Di conseguenza VW ha rivisto al ribasso i suoi piani, ridimensionando l’obiettivo delle gigafactory a tre siti certi (in collaborazione con Northvolt in Norvegia e due di PowerCo in Germania e Spagna), annunciando invece un impianto in Canada, e abbandonando l’obiettivo di autosufficienza software a favore di partnership, ad esempio con Google. Per far fronte a queste criticità, è stato avviato un piano di tagli dei costi da un miliardo di euro. 

Mercedes-Benz Group AG, dopo la scissione da Daimler Truck, ha inizialmente annunciato una transizione ancora più netta, puntando a vendere solo veicoli elettrici puri dal 2025 e a diventare fully electric entro la fine del decennio, sebbene con la clausola “dove il mercato lo permette”. All’inizio del 2024 ha corretto la rotta, prevedendo che BEV e PHEV rappresenteranno al massimo il 50% delle vendite totali entro il 2030. La società sta perseguendo una strategia focalizzata sulle auto di lusso, concentrandosi su modelli high-margin e dismettendo segmenti più piccoli come le classi A e B. A differenza di VW Mercedes sta aumentando l’integrazione verticale, producendo internamente gran parte del powertrain elettrico per le nuove generazioni di veicoli, una scelta dettata anche dalle lezioni apprese durante le crisi della supply chain. Per le batterie, pur non producendo le celle in proprio, pianifica di farlo attraverso joint venture, come la collaborazione con Stellantis e TotalEnergies nell’Automotive Cells Company (ACC) per costruire stabilimenti in Francia e a Kaiserslautern, e con il colosso cinese CATL per un impianto in Ungheria. In ambito software Mercedes ha ottenuto un importante successo con l’approvazione del sistema di guida automatizzata di Livello 3 Drive Pilo, sviluppato internamente. Anche in questo ambito sta virando verso collaborazioni, in questo caso con Nvidia, con cui ha stipulato un inedito accordo di revenue sharing per i componenti software, segnando un cambiamento negli equilibri di potere a favore dei fornitori di tecnologie.

BMW rappresenta un caso particolare, con una strategia di transizione più graduale e pragmatica. È l’unico costruttore tedesco a non aver fissato una data di uscita dal motore a combustione e mantiene aperta l’opzione della cella a combustibile. Dopo l’esperienza pionieristica ma non soddisfacente con la BMW i3, nel 2023 ha registrato una forte crescita delle vendite di BEV (+90,2%, per un totale di 340.000 unità, pari al 15% del totale). BMW non intende internalizzare la produzione delle celle di batteria, che continuerà ad acquistare da fornitori esterni, ma organizza l’assemblaggio dei pacchi batteria secondo il principio local for local, costruendo nuovi impianti in Ungheria, Messico, USA e Germania (Irbach-Straßkirchen). Anche nello sviluppo software, a differenza di VW, BMW privilegia da sempre la cooperazione con aziende tech internazionali, approccio che le ha permesso di ottenere, dopo Mercedes, l’approvazione per un sistema di guida di Livello 3.

La situazione per i fornitori tedeschi, che impiegano circa 290.000 persone, è ancor più complessa. Sebbene l’80% delle aziende abbia intrapreso passi verso la transizione, la quota di fatturato legata ai componenti elettronici è ancora solo del 15%. Molte piccole e medie imprese specializzate nella componentistica per motori a combustione faticano a sostenere gli ingenti investimenti richiesti. Bosch, il leader mondiale, sta investendo massicciamente nei semiconduttori (3 miliardi di euro entro il 2026) e nel software (10 miliardi entro il 2026) ma ha comunque abbandonato lo sviluppo di tecnologie costose come i sensori Lidar. ZF Friedrichshafen ha diversificato il suo portafoglio, riducendo la dipendenza dalla combustione, ma affronta problemi di debito e margini bassi che hanno portato alla vendita di parte del business assali e all’uscita da progetti avanzati. Continental, in gravi difficoltà, ha scorporato il suo business powertrain in Vitesco e punta su software e sensori ma fatica a trovare le risorse per investire in modo autonomo. Mahle, infine, è un buon esempio per analizzare i fornitori più esposti alla componentistica per motori a combustione. L’azienda, pur avendo diversificato in aree come la termoregolazione per EV, non dispone delle risorse finanziarie necessarie per competere in settori capital-intensive come le batterie o il software, trovandosi in una posizione particolarmente critica.

La capacità e la volontà dell’industria automobilistica tedesca di localizzare in Germania lo sviluppo e la produzione di batterie, in particolare delle celle delle batterie, sono individuate come fattori cruciali per scongiurare gli effetti negativi della doppia trasformazione digitale ed ecologica sull’occupazione. Per raggiungere l’obiettivo strategico di rendersi indipendenti dalla leadership tecnologica asiatica nel medio-lungo termine, l’Unione Europea promuove dal 2017 una produzione interna di batterie per trazione attraverso la Battery Alliance (EBA), un’iniziativa che riunisce 14 stati membri, la Banca Europea per gli Investimenti e circa 500 aziende e istituzioni scientifiche. L’ambizioso traguardo è di produrre entro il 2025 celle delle batterie sufficienti per sette-otto milioni di veicoli all’anno. Un audit della Corte dei conti europea del 2022 fornisce un giudizio intermedio contrastante: se da un lato riconosce i meriti nell’aver creato piattaforme di stakeholder e aumentato il supporto finanziario, dall’altro segnala come la minaccia più grave per i produttori UE sia la carenza di materie prime, aggravata dall’aumento della domanda globale e dalla limitata e inflessibile offerta interna europea, una situazione che la Commissione ha tentato di affrontare nel 2023 con una proposta di regolamento sulle materie prime critiche.

Nonostante gli alti costi energetici e un contesto di mercato volatile, diversi produttori di batterie si sono insediati in Germania, incluso il leader mondiale CATL. Secondo l’Associazione dei Costruttori Automobilistici, alla fine del 2022 la Germania contava dodici stabilimenti per batterie, un numero superiore a qualsiasi altro paese europee (la Spagna, in seconda posizione, ne aveva cinque), sebbene non sia specificato quanti di questi producano effettivamente le complesse e ad alta intensità di lavoro celle delle batterie anziché semplici moduli. Se si considerano le capacità produttive, è l’Ungheria che sembra destinata a diventare il centro dell’industria europea delle celle, grazie ai massicci investimenti di giganti cinesi come CATL e SK Innovation. Un elenco dettagliato dei progetti in Germania mostra una scena in evoluzione: CATL ad Arnstadt, già operativa dal 2023 con una capacità prevista di 14 GWh (espandibile a 24) e un potenziale di 2000 occupati, Tesla a Grünheide, operativa ma con piani di espansione per le celle temporaneamente cancellati, PowerCo SE a Salzgitter, in costruzione per una produzione che partirà nel 2025 con una capacità tra 16 e 40 GWh e oltre 2000 posti di lavoro pianificati, Northvolt a Heide, con i lavori iniziati per un impianto da 60 GWh e fino a 3000 dipendenti previsti a partire dal 2025, ACC a Kaiserslautern che punta ad arrivare fino a 2000 occupati e SVolt, con due siti previsti in Saarland e Brandeburgo, sebbene con ritardi annunciati. Completano il quadro un centro di competenza per le celle di BMW a Parsdorf e lo stabilimento BASF a Schwarzheide, già avviato, specializzato nella produzione di catodi e nel riciclo che impiega 175 persone.

La resilienza del sistema produttivo automobilistico tedesco è un tratto distintivo a livello europeo. Nei primi vent’anni del secolo la Germania è riuscita a mantenere stabili sia la produzione nazionale di auto, attestata su 5-6 milioni di veicoli annui, sia i livelli occupazionali che hanno toccato il picco di 838.172 unità nell’ottobre 2018, un trend in netto contrasto con il declino registrato in nazioni come Francia, Spagna e Italia. I ricercatori individuano due ragioni principali per questa stabilità. La prima è il successo internazionale dei produttori premium tedeschi, Mercedes e BMW, che, a differenza dei costruttori di veicoli volume, hanno potuto mantenere la produzione dei loro modelli ad alto margine in patria per esportarli verso mercati come Cina e USA. Nel 2022 circa il 92% di tutti i modelli di lusso venduti globalmente dai marchi del gruppo tedesco erano prodotti in Germania. La seconda ragione risiede nella parallela delocalizzazione di significative quote produttive, specialmente i fornitori, verso paesi a basso costo del lavoro dell’Europa centro-orientale che alla fine degli anni 2010 rappresentavano circa la metà del valore dei componenti importati in Germania. A queste strategie si affiancano l’articolazione della forza lavoro in core e marginale, la creazione di nuovi sottosettori come i servizi industriali e la logistica contrattuale e l’adozione di modelli flessibili come la “fabbrica che respira”. Nonostante ciò, è evidente una divergenza tra produzione interna ed estera. Nel 2008 metà delle auto dei costruttori tedeschi era prodotta in Germania, nel 2019 questa quota era crollata al 29%.

La stabilità di questo sistema, tuttavia, non dipende solo dalla doppia trasformazione ma anche da fattori globali. La produzione internazionale di auto, dopo il picco del 2018 (70 milioni di veicoli), è crollata a 57 milioni nel 2020 a causa della crisi Covid-19, senza aver ancora pienamente recuperato i livelli pre-crisi. In Germania la produzione del 2021 è scesa a 3,1 milioni di auto, il livello più basso dal 1975. È ormai chiaro lo spostamento del centro dell’industria automobilistica verso l’Asia orientale, in particolare la Cina, la cui quota di produzione mondiale è passata dal 31% del 2000 al 60% del 2022, mentre quella europea è calata dal 38% al 19,1%. La Cina è vitale per i tedeschi sia come mercato di vendita per i veicoli elettrici (nel 2023 sono stati venduti 6,68 milioni di BEV e 2,8 milioni di ibridi plug-in), sia come concorrente sempre più agguerrito in Europa, con marchi cinesi che hanno fatto il loro ingresso in Germania nel 2023, facendo registrare un +73% nelle immatricolazioni di auto made-in-China a luglio 2023. In questo contesto il dibattito a Bruxelles su eventuali dazi per i veicoli elettrici cinesi è visto con apprensione dai costruttori tedeschi, preoccupati da possibili ritorsioni di Pechino data la loro forte dipendenza dal mercato cinese.

La valutazione delle conseguenze occupazionali della doppia transizione nell’industria automobilistica tedesca si basa su un panorama di studi eterogeneo e in evoluzione, i cui risultati variano notevolmente a seconda della metodologia e del periodo di riferimento. In generale le ricerche si possono distinguere in due categorie principali, quelle focalizzate sulla tecnologia, le quali analizzano meticolosamente gli effetti diretti sulla produzione dei powertrain, e quelle che adottano una prospettiva macroeconomica più ampia, utilizzando modelli input-output per valutare gli impatti sull’intera economia nazionale. Un esempio emblematico del primo approccio è lo studio ELAB 2.0 del Fraunhofer Institute (2017-2018), il quale, presupponendo una produzione costante di powertrain ma tenendo conto degli aumenti di produttività, ha previsto un calo occupazionale compreso tra il 37% e il 53% nella filiera dei propulsori, tradotto in termini assoluti in una perdita fino a 125.000 posti di lavoro, con lo scenario più moderato che indicava un minimo di 74.000 dipendenti in meno.

D’altro canto, gli studi basati su modelli macroeconomici giungono a conclusioni molto disparate, con le ricerche più datate che tendevano a prevedere una crescita dell’occupazione mentre quelle più recenti segnalano perdite. Anche tra quest’ultime la forbice delle previsioni è ampissima: si passa dal minimo di un calo di soli 5.000 posti entro il 2040 prospettato dal TECH Scenario della European Climate Foundation (2017), alla stima di 50.000 posti persi di Mönning et al. (2018), fino al picco di 130.000 unità in meno entro il 2035 di Kaul et al. (2019). In netto contrasto, Schade et al. (2020) considerano possibile, nel loro Scenario e-road, un lieve aumento netto di 7.000 occupati, a patto che una parte significativa della produzione di batterie venga localizzata in Germania. Un problema fondamentale sollevato dal paper è l’obsolescenza di molti di questi studi, risalenti a prima del 2019-2020. Come sottolineato da una ricerca regionale sul Baden-Württemberg, gli eventi successivi, la crisi Covid-19 e la ripresa del 2022, hanno alterato profondamente il contesto, rendendo difficilmente trasferibili alle condizioni attuali le analisi condotte con dati pre-pandemici.

Tra le indagini più recenti a livello nazionale spicca lo studio dell’ifo Institute commissionato dalla VDA (maggio 2021), il quale conclude che il declino occupazionale legato alla trasformazione non sarà completamente compensato dal turnover demografico. I calcoli indicano che entro il 2025 sono minacciati almeno 178.000 posti di lavoro, numero che sale a 215.000 entro il 2030. Sebbene si prevedano 75.000 pensionamenti entro il 2025 e 147.000 entro il 2030, rimarrebbe un divario significativo di 103.000 dipendenti i cui posti sono a rischio di estinzione prima che raggiungano l’età pensionabile. Una visione ancora più drastica proviene dallo studio Automobile Value Creation 2030-2050, commissionato dal Ministero dell’Economia, che stima fino a 300.000 posti a rischio nell’industria automobilistica, nel commercio e nell’assistenza entro il 2040, con un’ulteriore contrazione di 40.000-70.000 posti nei settori metalmeccanici e della gomma/plastica entro il 2030. Questo studio attribuisce le cause al progresso tecnico e a un strutturale calo della domanda di auto in Germania ed Europa occidentale. Inoltre si esprime esplicitamente contro i sussidi industriali per la produzione di batterie in Europa, giudicandola un’iniziativa non mirata, data l’intensa capitalizzazione del settore che genera pochi posti di lavoro e la prevista riduzione futura del peso della batteria sul valore del veicolo.

Una ricerca focalizzata sul Gruppo Volkswagen prevede un calo del 12% nell’occupazione nella produzione veicoli mentre la situazione nei servizi interni rimarrebbe stabile o in moderato calo. L’unico aumento significativo, fino al 7%, è atteso nel settore IT. È interessante notare che, secondo gli autori, l’impatto occupazionale diretto dell’elettrificazione del powertrain è marginale rispetto agli effetti dell’ottimizzazione generale dei processi lavorativi. Allargando lo sguardo all’Europa, uno studio per l’associazione dei fornitori CLEPA (2021) stima la scomparsa di 501.000 posti tra i fornitori a causa dell’elettrificazione, parzialmente compensati da 226.000 nuove assunzioni per le tecnologie elettriche, con una perdita netta di 275.000 occupati entro il 2040.

Le analisi regionali più recenti offrono un livello di dettaglio maggiore. Lo studio strutturale per il Baden-Württemberg (Friesk et al., 2023) prevede un calo occupazionale tra l’8% e il 14% entro il 2030 che potrebbe superare il 30% entro il 2040 con la scomparsa del motore a combustione. Un’indagine condotta dall’IG Metall tra i rappresentanti sindacali dei fornitori della stessa regione rivela che il 40% si aspetta un calo occupazionale entro il 2025 (percentuale che sale al 60% entro il 2030) e che un terzo delle aziende è ancora altamente dipendente dal motore a combustione. Cruciale è il dato sulle delocalizzazioni: il 58% delle aziende intervistate ha in corso o pianifica di trasferire capacità produttive all’estero e il 41% sta facendo lo stesso con attività di ricerca e sviluppo. Uno studio qualitativo sull’area di Berlino (Thiel e Jahn, 2023) dipinge un quadro contraddittorio. Nonostante il 92% degli intervistati giudichi buona la situazione aziendale corrente e il 47% delle imprese stia assumendo, la percezione della fragilità è alta, con un terzo degli stakeholder che si aspetta riduzioni di personale nei prossimi 5-10 anni.

Una sfida cruciale spesso trascurata dalle previsioni puramente tecnologiche è la perdita di quote di mercato dei costruttori tedeschi ed europei. Una ricerca McKinsey (Cornet et al., 2023) indica che dal 2017 i costruttori europei hanno perso oltre un quarto della loro quota di mercato globale (considerando tutti i tipi di alimentazione), a vantaggio di nuovi produttori specializzati in veicoli elettrici. Questo contesto di crescente competizione internazionale si inserisce in un andamento occupazionale già negativo a seguito della crisi Covid-19. Tra il 2019 e il 2023 la produzione europea di auto di marchi come Volkswagen, Audi, BMW e Mercedes ha registrato cali significativi, fino al 31% per Mercedes, parzialmente compensati da una strategia di focalizzazione sui modelli premium e SUV più redditizi. In questo scenario l’occupazione totale nel settore automobilistico tedesco è scesa a circa 774.000 unità nel 2022, circa 60.000 in meno rispetto al picco del 2018. Questo calo ha colpito in modo sproporzionato i fornitori, il cui livello occupazionale è sceso al minimo degli ultimi 17 anni, mentre i costruttori (OEM) hanno visto un lieve aumento dell’1% tra il 2021 e il 2022. Nonostante il recente declino, il dato del 2022 rimane storicamente elevato, paragonabile a quello del 2014 e superiore di circa il 10% rispetto al periodo immediatamente successivo alla crisi finanziaria del 2007-2008, indicando una resilienza di fondo ma anche l’inizio di una contrazione strutturale in un panorama industriale in profonda e tumultuosa trasformazione.

La panoramica sullo sviluppo occupazionale presso i principali costruttori e fornitori rivela strategie e esiti differenziati, in cui i negoziati tra management, rappresentanti dei lavoratori e il sindacato IG Metall hanno giocato un ruolo determinante. Presso Mercedes Benz Group AG, la sicurezza del posto di lavoro è garantita fino al 2029 grazie a un accordo vincolante nato in seguito alla scissione di Daimler Trucks, un impegno che la direzione non ha finora messo in discussione, escludendo programmi di licenziamento e prevedendo eventuali riduzioni esclusivamente attraverso il meccanismo del doppio prepensionamento volontario. Un successo cruciale, dalla prospettiva dei rappresentanti dei dipendenti, è stato la negoziazione conclusa nell’estate del 2022 per l’assegnazione dei modelli basati sulle nuove piattaforme elettriche agli stabilimenti tedeschi di Sindelfingen, Bremen e Rastatt. La chiave è stata un’innovativa strategia negoziale: invece di condurre trattative separate per ogni sito, i tre stabilimenti hanno agito in blocco coordinato, presentando linee rosse comuni per evitare una competizione interna e assicurando che tutti i prodotti fossero allocati in Germania, distribuendoli in modo equo tra gli impianti. La situazione è più complessa negli stabilimenti dedicati alla produzione di motori e cambi, la cui attività sarà gradualmente eliminata entro la metà del decennio. Per compensare questa dismissione, le rappresentanze dei lavoratori hanno perseguito con successo una maggiore integrazione verticale, ancorando in Germania parti cruciali della produzione del powertrain elettrico, come i motori, che saranno prodotti in futuro internamente nella rete internazionale di propulsori, con gli stabilimenti di Amburgo e Untertürkheim che rimarranno i centri principali per l’assemblaggio. Altri siti minori come Kamenz e Kölleda sono destinati all’assemblaggio delle batterie mentre a Kuppenheim è iniziata la costruzione di un impianto per il riciclo. Questa riconversione comporterà la chiusura di reparti come le fonderie, con la sfida di riqualificare il personale o offrire incentivi all’uscita. I negoziati non sono stati privi di conflitti, come dimostra il caso dello stabilimento di Berlin-Marienfelde, dove la decisione della direzione di sospendere gli investimenti nel 2021 ha innescato forti proteste operaie, riuscendo infine a scongiurare la chiusura e a stabilire un centro di competenza per l’e-mobility che produrrà motori per la subsidiary AMG a partire dal 2025. Nonostante ciò, i rappresentanti sottolineano la necessità di ulteriori componenti per preservare tutti i posti di lavoro. Guardando al futuro, i portatori d’interesse di Mercedes si dichiarano relativamente tranquilli riguardo alla crescita occupazionale, citando una ridotta pressione alla delocalizzazione e un approfondimento della catena del valore, con assunzioni in crescita nel campo dello sviluppo software, come i 1.000 specialisti assunti a Sindelfingen per il sistema operativo MBOS o i 600 sviluppatori della subsidiary Mbtion a Berlino. La minaccia principale ai posti di lavoro non è identificata nella transizione elettrica, bensì nell’attuale congiuntura economica, nelle influenze geopolitiche e nella prospettiva della concorrenza cinese, i cui primi effetti si sono già materializzati con il licenziamento di 2.000 lavoratori temporanei dal 2022, gestiti per ora attraverso strumenti di flessibilità che proteggono il personale interno.

La situazione presso BMW, il secondo costruttore tedesco nel segmento premium, appare altrettanto positiva. Contrariamente all’annuncio della direzione del 2021 di tagliare 6.000 posti, l’occupazione globale nel gruppo è aumentata da 113.791 nel 2019 a 137.000 nel 2022, con piani di creare ulteriori 6.000 nuovi posti, molti dei quali in Germania, trainati dall’espansione dello sviluppo software e della rete produttiva globale per soddisfare la domanda di nuovi modelli elettrici. Un rappresentante del consiglio di fabbrica intervistato smentisce le previsioni di pesanti perdite occupazionali a causa della doppia trasformazione, sottolineando come l’installazione di motori elettrici richieda lo stesso numero di dipendenti delle motorizzazioni tradizionali. La sfida principale, al contrario, è riempire i posti vacanti, tanto che BMW ha limitato la tradizionalmente alta percentuale di lavoratori temporanei al 10%. La riconversione dello storico stabilimento di Monaco, dove la produzione di motori a combustione è cessata, procede senza licenziamenti: i 1.200 dipendenti dell’ex reparto motorizzazione sono stati riqualificati e reinseriti in altre aree del gruppo e sul sito sorgerà una nuova hall di assemblaggio per i modelli elettrici. Anche per BMW si prevede un aumento dell’integrazione verticale, con nuovi ambiti di business nella produzione di batterie e nel riciclo che compenseranno i posti persi nella componentistica tradizionale, pur non optando per una produzione interna delle celle.

Per Volkswagen, invece, il quadro è in fase di significativo cambiamento. Il numero di dipendenti del gruppo in Germania è rimasto largamente stabile negli ultimi anni, attestandosi a 289.440 unità nel 2022 (pari al 44,1% della forza lavoro globale), un dato solo lievemente inferiore ai 290.757 del 2018. Questa stabilità è destinata a mutare radicalmente in seguito all’approvazione, nel giugno 2023, di un ampio piano di risparmio voluto dal consiglio di supervisione per aumentare la redditività. L’obiettivo è risparmiare dieci miliardi di euro, di cui quattro già nel 2024, riducendo i costi del personale di due miliardi, il che comporterà un consistente ridimensionamento organico stimato in almeno 10.000 dipendenti. I negoziati con il consiglio di fabbrica, conclusi a dicembre 2023, hanno stabilito che questo aggiustamento avverrà senza licenziamenti operativi, ricorrendo invece a regolazioni dell’orario di lavoro e accordi di cessione volontaria, misure che interesseranno prevalentemente il personale impiegatizio. In cambio, l’accordo prevede una garanzia di sopravvivenza per tutti i siti produttivi e investimenti per 180 miliardi di euro. È stata inoltre definita la futura distribuzione dei prodotti: lo stabilimento madre di Wolfsburg, con i suoi 50.000 dipendenti, sarà radicalmente riconvertito per produrre una versione elettrica della Golf, dopo l’abbandono del progetto di una nuova fabbrica a Warmenau. Lo stabilimento di Zwickau, già riconvertito all’elettrico, sarà destinato al progetto di punta Trinity e ad altri modelli sulla piattaforma SSP, mentre quello di Emden sarà anch’esso riadattato. Resta invece incerto il destino del piccolo impianto di Dresda, dove l’ID.3 è assemblato in piccoli numeri e per il quale si sta studiando un concept di riutilizzo. Informazioni più recenti fornite dalla Fondazione Rosa Luxemburg sostengono che l’obiettivo dell’azienda non è evitare le perdite ma raggiungere un margine del 6,5% (e del 10% per il gruppo), pari a circa 30 miliardi di euro. La domanda in Europa e Germania è in calo dal 2016, influenzata da guerre, competizione globale, clima internazionale volatile e dibattiti sulla transizione elettrica, creando un eccesso di capacità produttiva che Volkswagen ha recentemente ammesso essere pari a 500.000 veicoli, l’equivalente della produzione di due grandi fabbriche. Investimenti faraonici e sbagliati, come il progetto Trinity da oltre 2 miliardi di euro per una gigafactory a Wolfsburg, poi annullato, hanno contribuito ad aggravare il problema. La risposta di Volkswagen a questa crisi di sovrapproduzione è stata un drastico strappo al modello di cogestione tedesco. A settembre 2024 il consiglio di amministrazione ha unilateralmente abolito gli accordi collettivi che garantivano la sicurezza del posto di lavoro, gli stipendi, l’assunzione degli apprendisti e le regole per il lavoro temporaneo. Questa mossa, giustificata dalla necessità di tagliare i costi per riportare la redditività ai livelli desiderati, è in realtà una minaccia di licenziamenti di massa e chiusure di stabilimenti, non dettata dalla sopravvivenza ma dall’avidità, come dimostra il pagamento di 4,5 miliardi di euro di dividendi nel 2023, quasi la metà dei quali è finita direttamente alla famiglia Porsche-Piëch. La reazione dei lavoratori è stata di rabbia e protesta. Durante le assemblee aziendali di settembre 2024 migliaia di dipendenti hanno contestato platealmente il CEO Oliver Blume mentre la presidente del comitato aziendale centrale, Daniela Cavallo, ha rivendicato con forza i diritti di proprietà morale dei lavoratori sull’azienda, ricordando le origini storiche di VW, fondata dai nazisti con i capitali confiscati ai sindacati e parzialmente privatizzata nel 1960 con la legge Volkswagen che sancì proprio i diritti di partecipazione dei lavoratori. Daniela Cavallo ha calcolato che il valore di quel capitale sottratto, rivalutato, ammonterebbe oggi a oltre un miliardo di euro, sostenendo che “il turbo-capitalismo non avrà mai posto alla Volkswagen”. Questo clima di scontro sociale rischia di avere pesanti ripercussioni politiche nella società tedesca. L’impennata dei consensi per l’AfD proprio nelle regioni a forte vocazione automobilistica come Sassonia, Baden-Württemberg e Bassa Sassonia è un segnale preoccupante. Esiste il pericolo concreto di un rigetto reazionario della transizione ecologica, fomentato da forze anti-ecologiche che mettono in discussione persino l’addio al motore a combustione, mettendo a rischio sia il clima che la mobilità futura. 

Anche la situazione occupazionale presso i fornitori dell’industria automobilistica tedesca sta attraversando una fase di grande complessità, resa più difficile dalla doppia trasformazione. Questo cambiamento epocale sta erodendo i tradizionali modelli negoziali tra sindacati e datori di lavoro. In passato il carattere incrementale dell’innovazione permetteva ai consigli aziendali di giocare un ruolo decisivo, facendo leva sull’alta qualificazione della forza lavoro locale e sulle avanzate infrastrutture tecnologiche dei siti tedeschi per assicurare investimenti e posti di lavoro. Oggi, tuttavia, l’imperativo della doppia trasformazione introduce prodotti radicalmente nuovi, come il powertrain elettrico e i sistemi software che richiedono impianti ex-novo e profili professionali differenti, annullando di fatto il tradizionale vantaggio competitivo della Germania. A ciò si aggiunge l’enorme pressione sui costi che grava sia sui costruttori che sui fornitori, costretti a finanziare ingenti investimenti in nuove tecnologie. Questa pressione finanziaria si traduce a sua volta in una maggiore richiesta di redditività per gli stabilimenti ancora legati alle tecnologie tradizionali, accelerando le spinte alla delocalizzazione.

La gravità di questa tendenza è confermata dai dati di un sondaggio condotto da IG Metall nel Baden-Württemberg, secondo cui il 44% delle 115 aziende fornitrici intervistate ha già parzialmente delocalizzato la produzione, con un ulteriore 14% che ha in programma di farlo. Un dato particolarmente significativo è che questo fenomeno non riguarda più solo la produzione manifatturiera ma si estende ormai anche alle attività a più alto valore aggiunto: il 25% delle aziende ha già delocalizzato in parte attività di ricerca e sviluppo e un altro 16% prevede di farlo. Questa allarmante tendenza è stata recentemente denunciata anche dai consigli aziendali di grandi gruppi come ZF Friedrichshafen, Bosch e Mahle, i quali hanno parlato esplicitamente di una nuova pericolosa ondata di delocalizzazioni verso l’Europa dell’Est.

Di fronte a questa sfida esistenziale, la strategia di IG Metall e dei consigli aziendali nelle negoziazioni si concentra sull’obiettivo di guadagnare tempo per gestire la transizione senza traumi sociali. Uno strumento cruciale in questo contesto sono i “contratti collettivi orientati al futuro”. Questi accordi innovativi si distinguono dalle tradizionali intese sul sito che semplicemente scambiano concessioni su salari e condizioni di lavoro con investimenti e la rinuncia ai licenziamenti forzati. I contratti orientati al futuro, invece, estendono la codeterminazione, coinvolgendo formalmente il sindacato e il consiglio aziendale in consultazioni congiunte sulla pianificazione strategica futura degli stabilimenti, cercando di influenzare attivamente le decisioni sugli investimenti e la destinazione dei nuovi prodotti.

Un caso emblematico è quello di Bosch. Per i 80.000 dipendenti della divisione fornitrice (Bosch Mobility), è stata negoziata a metà 2023 una garanzia occupazionale fino alla fine del 2027, frutto proprio di uno di questi accordi orientati al futuro. L’iniziativa sindacale era stata motivata dal timore di una potenziale perdita di fino a 17.000 posti di lavoro, anche perché il presidente del consiglio aziendale Bosch aveva pubblicamente denunciato l’intenzione della direzione di trasferire la produzione di componenti per l’elettromobilità nella Repubblica Ceca, dove l’azienda sta infatti espandendo lo stabilimento di Jihlava per avviare la produzione in serie di assali per auto elettriche. La pressione dei dipendenti è stata tale che a febbraio 2023 oltre 17.000 lavoratori di nove siti tedeschi hanno partecipato a una speciale assemblea per fare pressione sul consiglio di amministrazione. Tuttavia, nonostante l’accordo siglato, la direzione Bosch ha annunciato alla fine del 2023 un consistente taglio occupazionale in Germania che secondo il sindacato coinvolgerà oltre 4.000 dipendenti. Come spiegato da un rappresentante del consiglio aziendale intervistato, il problema di fondo è che la produzione dei nuovi prodotti richiede impianti greenfield che possono essere costruiti ovunque nel mondo e la direzione tende a localizzarli in Europa orientale. Inoltre, la pressione alla delocalizzazione si è estesa dalla produzione allo sviluppo, in particolare software, dove la logica local for local e la possibilità di sviluppare in qualsiasi parte del mondo, come in India, mettono in seria difficoltà i siti tedeschi. Di recente, segnala Le Monde, Bosch ha annunciato un drastico piano di ristrutturazione che prevede l’eliminazione di 13.000 posti di lavoro entro il 2030 all’interno del suo dipartimento Mobilità. Questo provvedimento, reso noto giovedì 25 settembre, si configura come il secondo massiccio taglio del personale in pochi mesi, a seguito di un primo programma avviato già dal 2024 che aveva già portato alla soppressione di 9.000 posizioni, di cui la metà è stata già concretamente realizzata. Il peso di questa nuova ondata di licenziamenti ricade in maniera particolarmente gravosa sui siti produttivi in Germania. Durante una conferenza stampa il direttore del dipartimento Mobilità, Markus Heyn, ha dipinto un quadro preoccupante della situazione del gruppo spiegando come l’ambiente economico, già estremamente difficile da tempo, si sia ulteriormente deteriorato, trascinando con sé le prospettive commerciali del cuore pulsante di Bosch. Questo dipartimento, infatti, con un fatturato di 55,8 miliardi di euro nel 2024, rappresenta i due terzi del fatturato totale del gruppo e impiega 230.000 dei 418.000 dipendenti globali, di cui circa 130.000 sono localizzati in Germania. Per riconquistare la competitività perduta Heyn ha quantificato in 2,5 miliardi di euro lo sforzo di risparmio che dovrà essere realizzato entro la fine del decennio. Bosch attribuisce le difficoltà al crollo generalizzato della domanda di veicoli, particolarmente accentuato nel mercato europeo, e alla transizione verso la mobilità elettrica che sta procedendo a un ritmo molto più lento di quanto previsto. L’azienda ha investito ingenti risorse in questo segmento ma tali investimenti si sono rivelati finora scarsamente redditizi. Una prova tangibile di questa debolezza della domanda elettrica è arrivata sempre il 25 settembre, con la notizia riportata dal Frankfurter Allgemeine Zeitung che Volkswagen avrebbe ridotto la produzione in due dei suoi stabilimenti tedeschi dedicati ai veicoli a batteria. A questo scenario già complesso si aggiunge l’intensificarsi di una temibile concorrenza cinese, i cui fornitori sono in grado di proporre prezzi inferiori del 30% rispetto a quelli europei. Sebbene Bosch, essendo un’azienda non quotata in Borsa e controllata da una fondazione, non subisca la pressione diretta dei mercati finanziari, la sua sopravvivenza a lungo termine è legata al raggiungimento di una redditività annua di almeno il 7%, un traguardo che appare lontano visto che il margine operativo nel 2024 si era attestata solo al 3,8%, senza segnali di miglioramento imminenti. Heyn ha anche evidenziato come l’incertezza generata dagli sviluppi geopolitici e dalle barriere commerciali, come i dazi, stia ulteriormente complicando il panorama. Il sindacato IG Metall, attraverso il suo rappresentante Frank Sell, ha definito il piano come “il più grande licenziamento della storia dell’azienda” accusando la direzione di aver calpestato i valori di affidabilità, responsabilità e cooperazione equa che hanno storicamente contraddistinto Bosch. Il sindacato ritiene che la crisi sia in parte auto-inflitta, a causa di errori strategici come gli enormi investimenti in ricerca e sviluppo per l’idrogeno, una tecnologia che non è riuscita ad affermarsi sul mercato come alternativa al diesel. Inoltre IG Metall chiede con forza l’instaurazione di protezioni contro la concorrenza cinese, sostenendo che non si possa competere se i costruttori tedeschi continuano ad approvvigionarsi da fornitori che operano con condizioni diverse. Il sindacato riconosce che la portata del problema va ben oltre le scelte di Bosch, configurando una crisi sistemica che colpisce in particolare la regione del Baden-Württemberg, tradizionale cuore dell’automotive tedesco. In questa zona del paese la situazione è drammatica: i subappaltatori hanno visto i propri organici ridursi dell’11,5% in soli due anni, con una perdita complessiva di 55.000 posti di lavoro nel settore. Simbolicamente, anche Porsche, vicino di casa di Bosch a Stoccarda, è stato estromesso dall’indice DAX a metà settembre dopo un crollo del suo titolo in Borsa ed è stato costretto a annunciare una costosa riconversione della sua strategia verso i veicoli termici a causa delle deludenti vendite di modelli elettrici. 

Anche in ZF Friedrichshafen, che conta oltre 50 stabilimenti in Germania e più di 53.000 dipendenti, la strategia sindacale si è basata su un accordo per il futuro (TVtrans) concluso nel 2020, che ha garantito l’occupazione fino alla fine del 2022 ed è considerato una delle ragioni per cui i drastici annunci di tagli di 12-15.000 posti di lavoro a livello globale fatti nel 2019 non si sono materializzati, anzi, l’occupazione in Germania è addirittura aumentata di 500 unità. La riconversione verso prodotti per veicoli elettrici è proceduta con successo in siti principali come Friedrichshafen e Schweinfurt, dove viene celebrata la produzione del due-milionesimo motore elettrico. La situazione è più critica a Saarbrücken, specializzato in cambi per segmento premium che, nonostante una garanzia occupazionale fino alla fine del 2025 ottenuta grazie all’accordo, vede il proprio futuro incerto poiché i volumi di produzione per i nuovi componenti elettrici non saranno sufficienti a compensare il previsto declino della trasmissione tradizionale. Anche per ZF la pressione a localizzare in Europa dell’Est è aumentata, come dimostrano l’apertura di uno stabilimento in Serbia per la produzione di propulsori elettrici e importanti investimenti negli Stati Uniti.

Infine, la situazione alla Mahle appare ancor più critica. Un rappresentante del consiglio aziendale ha dichiarato che la maggioranza dei 50 stabilimenti in Germania è ancora fortemente dipendente dal motore a combustione e risulta estremamente difficile introdurvi nuovi prodotti, anche a causa dell’incertezza della domanda. Nonostante un accordo per il futuro che garantisca i 10.500 dipendenti fino alla fine del 2025 e preveda negoziati per definire dei “processi di immagine target” per i vari siti, la prospettiva è comunque di una contrazione occupazionale. La delocalizzazione è percepita come una minaccia concrete e crescente: tutti i nuovi prodotti di Mahle, come i compressori elettrici dall’Ungheria o i piccoli motori per bici dalla Slovenia, vengono sistematicamente destinati ai siti in Europa orientale, dove si trova peraltro il più grande stabilimento produttivo del gruppo in Polonia. La percezione è che, per Mahle, il futuro produttivo sia ormai destinato a radicarsi sempre più a Est, lasciando gli stabilimenti tedeschi in una posizione di grande difficoltà nel competere per l’assegnazione delle nuove commesse.

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