Come il neoliberismo ha distrutto la scuola svedese

Analizzando il libro collettivo Neoliberalism and Market Forces in Education. Lessons from Sweden scopriamo, in particolare con il saggio di Magnus Dahlstedt e Andreas Fejes, che la Svezia è stata considerata un faro internazionale per il suo sistema educativo, visto come un motore di mobilità sociale, uguaglianza e formazione di una cittadinanza democratica. Questa immagine idealizzata persiste come un’eco del passato, nonostante la realtà contemporanea racconti una storia ben diversa, segnata da un declino nelle classifiche PISA e da un rapido aumento della segregazione scolastica. La frattura tra questa percezione e lo stato attuale dell’istruzione svedese è profonda. All’origine di questo deterioramento vi è una serie di riforme di stampo marcatamente neoliberale introdotte a partire dai primi anni ‘90 che hanno aperto le porte in massa alle forze di mercato. Sia governi conservatori che socialdemocratici hanno implementato cambiamenti radicali, trasformando il sistema in uno dei più mercatizzati al mondo. Chiunque, oggi, può fondare una free school, le famiglie godono di un’ampia libertà di scelta ed è possibile trarre profitto dall’istruzione pubblicamente finanziata.

Questa trasformazione si inserisce in un fenomeno globale di mercificazione e privatizzazione dell’educazione, accompagnato da un mutamento di paradigma sul ruolo e sul fine della scuola. Se nel dopoguerra i sistemi educativi, incluso quello svedese, puntavano all’uguaglianza e alla giustizia sociale, dagli anni ‘90 si è affermata una visione neoliberale che vede l’istruzione come un investimento individuale per l’occupabilità e la competitività internazionale. L’educazione è così passata dall’essere un diritto sociale e un bene pubblico all’essere una merce, un prodotto da scegliere sul mercato. 

Per comprendere come la Svezia, con la sua forte tradizione egalitaria, sia giunta a questo punto è necessario guardare all’evoluzione del cosiddetto modello svedese. Nel periodo postbellico l’istruzione era un pilastro del welfare state socialdemocratico, basato su principi di universalismo, centralismo e ingegneria sociale, con l’obiettivo di appianare le disuguaglianze e contrastare le polarizzazioni del mercato. Dagli anni ‘80, tuttavia, questo modello ha iniziato a sgretolarsi sotto la spinta di razionalità governative neoliberali che enfatizzavano l’autonomia individuale, la libertà di scelta e la responsabilizzazione dei cittadini, i quali da beneficiari passivi diventavano clienti attivi dei servizi di welfare. La privatizzazione di settori come l’istruzione, la sanità e le pensioni è diventata la nuova norma.

Nel campo educativo questo mutamento epocale ha significato il passaggio dall’educazione come bene pubblico a bene privato. Tre riforme degli anni ‘90 sono state decisive: la decentralizzazione della gestione e del finanziamento ai comuni, l’introduzione del sistema delle scuole charter che ha creato un vero e proprio quasi-mercato scolastico basato su voucher e l’istituzione di un sistema di appalto per l’educazione degli adulti. Il principio guida non era più l’uguaglianza nei risultati ma l’equità nelle opportunità, tradotta in pratica nella libertà di scelta per le famiglie.

Il mercato scolastico svedese contemporaneo è il frutto di quelle scelte. Una quota significativa di studenti (quasi il 15% nella scuola dell’obbligo e oltre il 26% nelle superiori nel 2017) frequenta scuole indipendenti, per lo più gestite da grandi conglomerati a scopo di lucro. I comuni hanno un potere limitatissimo nell’opporsi all’apertura di nuove scuole private, potendo solo valutarne l’impatto economico ma non bloccandole. La conseguenza è che la politica educativa locale diventa reattiva, costretta a gestire gli effetti del mercato (come la chiusura improvvisa di una scuola privata) piuttosto che a pianificare strategicamente.

La ricerca evidenzia come la libertà di scelta, in Svezia come altrove, abbia agito da potente motore di segregazione. Genitori e studenti tendono a scegliere scuole frequentate da persone simili a loro per retroterra socioeconomico e culturale, omogeneizzando la popolazione scolastica e accentuando le disuguaglianze. Le scuole, per sopravvivere in un contesto competitivo, sono spinte a comportarsi come aziende, facendo ricorso al marketing per vendere la propria offerta educativa e per attrarre i “clienti giusti”, ovvero gli studenti con più risorse culturali ed economiche. Questo drena risorse e studenti dalle scuole pubbliche dei quartieri svantaggiati e delle aree rurali, costringendo persino i dirigenti scolastici pubblici ad adottare logiche di mercato pur di competere, in una profonda contraddizione di valori.

Le forze di mercato non solo cambiano l’organizzazione della scuola ma ne ridefiniscono la stessa missione e il contenuto. L’Ocse, pur promotore di questa svolta, ha iniziato a criticare la Svezia per gli eccessi della sua mercificazione, indicando il sistema come in crisi proprio per il suo fallimento nel promuovere l’uguaglianza. Questa “crisi” è un costrutto narrativo plasmato dalle ideologie del tempo: oggi è una crisi letta attraverso la lente neoliberale della competizione e della responsabilità individuale. L’ultima riforma della scuola superiore, ad esempio, segna una battuta d’arresto storica nella parità di status tra percorsi professionali e accademici, orientando i primi alla mera formazione di manodopera “impiegabile” con conoscenze specifiche e decontestualizzate, piuttosto che a fornire gli strumenti critici per una piena cittadinanza.

La normalizzazione della logica di mercato è tale da diventare impercettibile. L’introduzione dell’educazione all’imprenditorialità nel curriculum nazionale del 2011, che ha sostituito i valori di solidarietà collettiva con quelli dell’iniziativa e della responsabilità individuale, è avvenuta senza un vero dibattito politico, segno che tali concetti sono ormai dati per scontati. La competizione, cuore pulsante del sistema, ha avuto effetti profondi e spesso paradossali. Le speranze politiche di maggiore qualità, innovazione pedagogica e riduzione dei costi non si sono realizzate. La libertà di scelta è aumentata ma in modo diseguale, a vantaggio degli studenti urbani e benestanti. La relazione educativa stessa è stata alterata: studenti e genitori diventano clienti e la minaccia implicita di cambiare scuola (portando con sé il voucher) influenza il rapporto con gli insegnanti. 

1. I limiti della libertà di scelta

Per Håkan Forsberg e Mikael Palme con il trasferimento della gestione delle scuole ai comuni nel 1991 e, soprattutto, con l’introduzione del Free School Act nel 1992, il settore è stato deregolamentato aprendo la possibilità ad agenti privati di fondare free school finanziate interamente da fondi pubblici tramite un sistema di voucher assegnati alle famiglie che possono così scegliere liberamente tra scuole comunali e private. La crescita delle free school, soprattutto nelle grandi aree urbane, è stata progressiva e significativa, tanto che nel 2016 esse raccoglievano il 15% degli studenti a livello nazionale nel ciclo obbligatorio e il 25% in quello secondario superiore, con picchi eclatanti nel comune di Stoccolma dove si attestavano rispettivamente al 25% e al 55%. Questo fenomeno ha innescato un intenso dibattito politico e di ricerca, focalizzandosi in particolare su due dinamiche: l’evitamento scolastico e la mercificazione. Le scuole comunali, vincolate dal principio di prossimità che le lega al bacino di utenza locale, hanno visto il proprio profilo sociale e prestazionale rimanere ancorato alle caratteristiche socio-economiche del territorio mentre le free school, potendo ottenere iscritti senza vincoli geografici, sono spesso diventate un’opzione per sfuggire a contesti scolastici percepiti come socialmente eterogenei. La proprietà privata, spesso in mano a grandi conglomerati educativi operanti su scala nazionale e internazionale, ha dato vita a un vero e proprio mercato in cui le scuole competono per accaparrarsi studenti e i relativi voucher, influenzando profondamente le priorità gestionali e l’uso delle risorse, incluso il controverso diritto degli istituti privati a realizzare profitti.

Nell’ambito specifico dell’istruzione secondaria superiore i voti conseguiti nella scuola dell’obbligo sono diventati il principale criterio di selezione per l’accesso alle free school mentre le regole per le scuole comunali andavano evolvendosi. Nella regione di Stoccolma, in particolare, le iniziali limitazioni amministrative alla mobilità degli studenti tra comuni sono state gradualmente smantellate, culminando nel 2011 con l’istituzione di un mercato completamente libero in tutta la contea dove ogni studente poteva scegliere qualsiasi scuola comunale. Questo ha intensificato ulteriormente la competizione, ponendo le autorità comunali in una posizione di duplice e delicato equilibrio perché da garanti tradizionali di un’istruzione di qualità uguale per tutti i residenti si sono trovate a dover anche gestire scuole in concorrenza diretta con agenti privati su un mercato da cui dipendeva la loro stessa sopravvivenza finanziaria. Questa sfida si è manifestata con particolare acutezza nei comuni periferici a sud di Stoccolma, caratterizzati da una composizione socio-demografica eterogenea e svantaggiata, dove le free school sono state estremamente reticenti a stabilirsi, nonostante l’obbligo comunale di garantire un’offerta formativa completa. Questi comuni hanno quindi assistito a un massiccio e crescente deflusso di studenti verso le scuole, sia free school che comunali, attrattive del centro cittadino e delle ricche municipalità a nord. I dati mostrano che, nel periodo 1995-2014, la percentuale di studenti delle municipalità meridionali che frequentavano scuole fuori dal proprio comune è cresciuta costantemente di circa il 2% all’anno, arrivando a coinvolgere la maggior parte della popolazione studentesca. Di fronte a questa forza centripeta che attirava gli studenti verso il centro le autorità scolastiche locali hanno elaborato strategie di sopravvivenza in tre fasi distinte. In una prima fase (1995-2000 circa) hanno reagito con una strategia isolazionista, tentando di limitare la scelta degli studenti alle sole scuole comunali del proprio territorio ma questo ha solo accelerato la fuga verso le free school di Stoccolma. Successivamente (2000-2010) hanno tentato una strategia cooperativa, dando vita alla cosiddetta Cooperazione di Södertörn con l’obiettivo di coordinare l’offerta formativa, specialmente dei costosi programmi professionali, e creare un polo attrattivo regionale. Tensioni interne, interessi divergenti e l’opposizione iniziale della città di Stoccolma ad aprire le sue scuole hanno di fatto neutralizzato questa ambizione, limitando i risultati alla semplice libera circolazione degli studenti tra le scuole comunali della zona.

Con l’istituzione del mercato completamente libero nel 2011 è iniziata una terza fase in cui le municipalità meridionali hanno dovuto pienamente “impegnarsi con il mercato”. In questa fase la cooperazione è stata sostituita da strategie competitive individuali. Una di queste è l’investimento nel rinnovo degli edifici scolastici e in campagne di marketing elaborate, spesso affidate ad agenzie esterne, per migliorare l’immagine pubblica delle scuole e contrastare la percezione negativa del settore pubblico. Questa pratica, sebbene considerata necessaria per la visibilità, è stata accolta con notevole ambivalenza dai dirigenti scolastici che la vedevano come una forma di esternalizzazione dei valori educativi fondamentali e un conflitto con la missione civica della scuola pubblica. Inoltre è emersa con forza la strategia di promuovere l’imprenditorialità come valore centrale. Questo concetto, sostenuto da potenti organizzazioni nazionali, è stato abbracciato come risposta alle esigenze del mercato del lavoro locale e come una riconciliazione tra logica di mercato e responsabilità civica. L’imprenditorialità veniva vista come uno strumento di empowerment per quegli studenti, spesso provenienti da contesti svantaggiati, che rimanevano nei comprensori scolastici locali, offrendo loro una nicchia formativa sostenibile e in linea con la tradizionale missione integrativa della scuola comunale.

Secondo Dennis Beach e Marianne Dovemark la riforma scolastica svedese ha plasmato uno dei sistemi educativi più esposti alle logiche di mercato al mondo, in una posizione analoga a quelle di Cile e Nuova Zelanda. Questo sistema ibrido è presentato ufficialmente come una fusione tra privatizzazione, competizione e meccanismi di controllo statale, con l’obiettivo dichiarato di promuovere inclusione, efficienza, qualità ed equità attraverso una gestione di tipo aziendale e una presunta libertà di scelta, il tutto all’insegna di un concetto definito “privatizzazione equa”. Se andiamo oltre tutta questa retorica la Commissione Scolastica del 2017 ha evidenziato un fallimento sostanziale: il luogo di residenza, la classe sociale e il genere rimangono i determinanti più forti del successo scolastico, rivelando una persistente e marcata riproduzione sociale. Il quasi-mercato scolastico regolato dallo stato, dove attori pubblici e privati competono, non solo non ha alleviato le disuguaglianze educative ma, secondo una consolidata letteratura di ricerca, le ha in molti casi aggravate.

Vengono esaminati gli effetti di questo sistema su uno dei gruppi più vulnerabili: gli studenti dei programmi introduttivi della scuola secondaria superiore. Questi programmi, istituiti nel 2011 in sostituzione di percorsi precedenti, sono destinati a quei giovani “a rischio” che non possiedono i requisiti per l’accesso ai programmi nazionali regolari, con l’obiettivo di integrarli in percorsi accademici o professionali. Un aspetto cruciale della loro governance è la differenza tra settore pubblico e privato. I comuni sono obbligati a fornire questi programmi nelle loro scuole, le free school hanno la facoltà di scegliere se offrirli o meno. Questo “diritto di rinuncia” ha prodotto un panorama profondamente squilibrato, infatti i programmi introduttivi sono erogati quasi esclusivamente da istituzioni pubbliche municipali. Essi soffrono di uno status percepito come basso e, quando raramente offerti dal privato, mostrano scarsi livelli di raggiungimento degli obiettivi.

Questa dinamica ha conseguenze dirette e gravi sui destinatari, in particolare sui nuovi arrivati. L’esempio dell’azienda educativa AcadeMedia è emblematico perché nel suo ampio portafoglio di oltre 100 scuole secondarie nessuna offriva il programma introduttivo linguistico nell’anno scolastico 2016-2017, inviando un implicito ma chiaro messaggio di esclusione. La ricerca conferma che la promessa di libertà di scelta e integrazione insita nelle riforme di mercato non si è materializzata. Gli attori privati hanno agito in modo selettivo, evitando di investire in determinate aree geografiche (come le zone rurali o le periferie metropolitane territorialmente stigmatizzate) e in specifici segmenti curricolari a basso status. Il risultato è che per molti studenti, specialmente quelli iscritti ai programmi introduttivi, le opzioni di scelta sono minime o nulle, precludendo di fatto la piena integrazione sociale attraverso l’istruzione.

I programmi introduttivi sono caratterizzati da una classificazione e una regolamentazione nazionale deboli, lasciando ampio spazio di interpretazione e adattamento alle autorità locali, alle singole scuole e agli insegnanti. Lo studio etnografico di Dennis Beach e Marianne Dovemark, condotto in tre grandi scuole pubbliche (Alpha, Beta e Gamma), attraverso osservazioni, interviste a studenti, insegnanti e dirigenti, e l’analisi di documenti, rivela come questa flessibilità si traduca in pratiche molto diverse. I curricula formali includono materie come matematica, inglese e svedese, oltre a tirocini, ma l’assenza di standard rigidi rende difficile persino valutare l’efficacia dei programmi nel promuovere l’integrazione. Altri studi suggeriscono che essi contribuiscono poco a questo fine, favorendo invece la formazione di identità studentesche “vaghe e incerte” che rischiano di rafforzare percezioni negative.

I dati quantitativi illustrano l’entità della segregazione. Nell’anno scolastico 2015-2016 solo 12 scuole private in tutta la Svezia offrivano il programma introduttivo linguistico, tutte in aree urbane o periurbane, a fronte di 297 scuole municipali in 229 comuni. Questo modello di “segregazione positiva” del settore privato è confermato anche nella scuola dell’obbligo. Le scelte scolastiche, lungi dall’essere guidate da criteri di performance o orientamento pedagogico, riflettono e approfondiscono i background socio-economici e culturali delle famiglie. Le statistiche mostrano che in gran parte dei comuni la proporzione di studenti con background straniero o con genitori non universitari è significativamente più alta nelle scuole pubbliche che in quelle private. Nel 2016 il 95% degli studenti non eleggibili per un programma nazionale, tipicamente figli di genitori con bassa scolarizzazione, frequentava una scuola municipale. Il programma introduttivo linguistico, in particolare, è rivolto ai nuovi arrivati di età compresa tra 16 e 19 anni e si è notevolmente espanso dopo l’autunno 2015, arrivando a rappresentare il 44% degli iscritti ai programmi introduttivi. Nonostante questa crescita l’interesse del settore privato è rimasto nullo, persino di fronte a incentivi al profitto. I tassi di successo sono problematici. Dopo due anni solo il 40% degli studenti passa a un programma nazionale o a un altro introduttivo mentre il 41% abbandona il sistema scolastico superiore. Inoltre, per un allarmante 20% degli studenti che iniziano il percorso, non esiste alcun dato sul loro destino dopo tre anni.

I giovani intervistati dimostrano ambizioni chiare ed elevate, sognando professioni come medico, infermiere, psicologo o dentista. Scelgono i corsi introduttivi (ad esempio, quello in “salute e assistenza sociale”) come un ponte strategico verso i programmi nazionali e l’istruzione superiore. Si scontrano però con ostacoli percepiti come insormontabili, principalmente i rigorosi test di lingua svedese e il limite d’età per l’accesso ai programmi nazionali (18 anni). Sperimentano una profonda frustrazione quando, nonostante gli sforzi, vengono trattenuti nei programmi introduttivi con la motivazione che il loro svedese “non è ancora abbastanza buono” o quando vengono indirizzati verso corsi professionalizzanti che divergono dai loro obiettivi accademici. Emerge una chiara dissonanza tra le alte aspirazioni degli studenti e le più basse aspettative che a volte il personale scolastico sembra avere verso di loro.

Crucialmente le opportunità di successo non sono uniformi ma variano drasticamente a seconda della scuola e dell’approccio pedagogico adottato. Nelle scuole Beta e Gamma il personale ha costruito un modello incentrato sul transito rapido verso i programmi nazionali, considerando l’apprendimento della lingua come parte integrante del curriculum e le competenze multilingue degli studenti come una risorsa preziosa per il futuro mercato del lavoro. La prossimità fisica e didattica con le classi dei programmi nazionali viene sfruttata per favorire l’integrazione. Al contrario, nella scuola Alpha, il programma è concepito come un’istruzione linguistica di base e separata che precede un possibile passaggio a corsi professionalizzanti. Questo approccio “graduale” spesso fa superare agli studenti il limite d’età, trasformando la competenza linguistica da strumento abilitante a barriera burocratica. Gli studenti nelle scuole Beta e Gamma si sentono supportati e vedono un futuro possibile mentre quelli nella scuola Alpha si sentono ingannati e bloccati in un circuito senza uscita.

2 Le forze del mercato e la scuola

Anders Trumberg afferma che il sistema scolastico svedese, sin dalla sua istituzione formale nel 1842, ha riflesso le trasformazioni della società, evolvendosi nell’idea di scuola pubblica per poi essere rimodellato da correnti di pensiero neoliberali. Questa trasformazione è all’interno di un movimento globale in cui l’Ocse ha svolto un ruolo cruciale. Negli anni ’50 e ’60 l’Ocse iniziò a costruire un quadro teorico per la pianificazione educativa fondato su un approccio economico. Attraverso programmi come l’Educational Investment Program creò reti e gruppi di pianificazione tra i paesi membri, fungendo da forum per lo scambio di conoscenze. L’organizzazione promuoveva una visione democratica dell’istruzione, vista come leva per lo sviluppo sociale ed economico, e considerava i sistemi scolastici dei paesi nordici, con la loro forte enfasi sull’uguaglianza e sull’accesso universale, come modelli ideali da seguire. Il clima politico ed economico cambiò radicalmente negli anni ’70. Con l’avvento di governi conservatori in molti paesi membri e l’aumento della disoccupazione l’Ocse adottò un approccio sempre più neoliberale. L’enfasi si spostò dalla democratizzazione alla riduzione dei costi, dall’espansione del sistema alla sua efficienza nel rispondere alle esigenze del mercato del lavoro. Concetti come il capitale umano e la gestione per obiettivi divennero centrali. Questo cambiamento fu guidato in particolare da Stati Uniti, Regno Unito e, in una fase successiva, dal Cile, che negli anni ’80 divennero alfieri di un’agenda politica che promuoveva la mercificazione, la privatizzazione, la scelta e il ridimensionamento del settore pubblico. L’Ocse perfezionò il suo metodo di influenza in questo periodo. A differenza di leggi e regolamenti vincolanti l’organizzazione esercita la sua influenza attraverso la produzione di rapporti, valutazioni comparative e processi di revisione tra pari. Questo metodo opera su quattro dimensioni: cognitiva (condivisione di valori di base come democrazia liberale ed economia di mercato), normativa (creazione collettiva di quadri di riferimento e soluzioni), legale (pressione tra pari attraverso monitoraggio e raccomandazioni) e palliativa (fornitura di analisi e spazi di discussione per questioni globali complesse). La creazione del programma PISA è l’esempio più lampante di questo potere normativo, capace di orientare i dibattiti politici nazionali attorno a classifiche e indicatori di performance. La Svezia, che negli anni ’60 era considerata dall’Ocse un modello per il suo sistema scolastico uniforme, centralizzato e volto a creare cittadini democratici e cooperativi, fu profondamente influenzata da questo cambio di paradigma globale. A partire dalla fine degli anni ’70 la critica al welfare state, giudicato burocratico e inefficiente, e il diffondersi di idee neoliberali posero le basi per le riforme. La svolta decisiva avvenne all’inizio degli anni ’90 quando un governo conservatore introdusse il sistema dei voucher, liberalizzò la creazione di free school (private ma finanziate con fondi pubblici) e permise alle scuole comunali di differenziarsi attraverso profili tematici. L’obiettivo era creare un mercato educativo dove i genitori, visti come clienti, potessero scegliere liberamente, stimolando così la competizione tra istituti e, in teoria, l’efficienza e l’innovazione pedagogica. I governi socialdemocratici successivi non invertirono questa rotta. In pochi anni la Svezia passò da uno dei sistemi più uniformi a uno dei più deregolamentati al mondo, dove l’enfasi collettiva sui valori democratici fu in parte sostituita da una logica individualistica di investimento nel proprio capitale umano. Le conseguenze di queste riforme, come documentato da numerosi studi, sono state un significativo aumento della segregazione socioeconomica ed etnica tra le scuole. La libertà di scelta, in assenza di regole stringenti, ha consentito una sorta di selezione sociale dove le famiglie più abbienti e istruite hanno sfruttato meglio il sistema, portando alla creazione di scuole ghetto e scuole d’élite. Questo fenomeno non è isolato. Il Cile, sotto la dittatura di Pinochet negli anni ’80, attuò riforme quasi identiche con risultati simili in termini di segregazione, nonostante successivi tentativi di correggere il sistema di finanziamento. La Nuova Zelanda tra gli anni ’80 e ’90 introdusse riforme di mercato che portarono a pratiche di selezione da parte delle scuole, costringendo poi lo stato a ripristinare dei bacini di utenza per garantire una maggiore equità. In tutti e tre i paesi è in corso un acceso dibattito su come mitigare le disuguaglianze senza rinunciare completamente alla libertà di scelta. Il paradosso finale è che l’Ocse, dopo aver promosso per decenni l’agenda della scelta e della competizione, oggi critica apertamente la Svezia per essere andata troppo oltre. Il drastico calo dei risultati svedesi nelle indagini PISA tra il 2000 e il 2012 ha portato l’organizzazione a pubblicare nel 2015 un rapporto esplicito, Improving Schools in Sweden, in cui indica proprio la scelta scolastica totalmente libera e la decentralizzazione eccessiva come cause principali dell’aumento delle disuguaglianze e del declino della performance. Il rapporto avverte che un sistema di scelta privo di una solida cornice regolatoria rischia di segregare gli studenti per background socioeconomico senza migliorare i risultati. Queste critiche sono state recepite e hanno fortemente influenzato la Commissione scolastica svedese istituita dal governo le cui conclusioni del 2017 ricalcano in gran parte le raccomandazioni Ocse. 

Mattias Nylund esamina la trasformazione della politica educativa svedese per l’istruzione secondaria superiore, passata da un principio cardine di integrazione e uguaglianza a uno market relevance, e le profonde implicazioni di questo cambiamento sulla distribuzione sociale della conoscenza. Nella Svezia del dopoguerra l’ideale politico-educativo dominante era quello che Basil Bernstein definisce “bringing together”, ovvero un avvicinamento e una fusione dei percorsi formativi per attenuare le divisioni sociali. Questo principio si incarnò in due riforme fondamentali: la scuola comprensiva del 1962 e la creazione del liceo integrato nel 1971 che unificò per la prima volta i percorsi accademici e professionali in un unico curriculum (Lgy70). L’aspirazione era quella di contrastare il legame troppo stretto tra origine sociale e destino formativo-professionale degli studenti e di garantire a tutti i giovani, indipendentemente dall’indirizzo scelto, una solida base di conoscenze comuni necessarie per la vita individuale e civica. Il contenuto dell’istruzione e formazione professionale (VET) divenne progressivamente meno legato a contesti lavorativi specifici e più permeato da contenuti generali, rendendo il sistema svedese, in una comparazione internazionale, relativamente poco differenziato da quello accademico. Questa tendenza integrativa e egualitaria, però, è stata ampiamente marginalizzata a partire dagli anni ‘90 dall’affermarsi di principi di stampo neoliberale che hanno spostato il focus su competizione, domanda dei datori di lavoro e occupabilità immediata degli studenti. L’apice di questa svolta è la riforma Gy11 del 2011 che ha rimodellato l’intero sistema della scuola superiore, in particolare i programmi professionali, secondo un principio di market relevance. L’analisi dei documenti preparatori alla riforma mostra una schiacciante prevalenza lessicale di concetti come “individuo”, “competenza”, “mercato” e “occupabilità” mentre termini come “pensiero critico”, “democrazia”, “uguaglianza” e “collettivo” sono pressoché assenti. L’architettura stessa della riforma istituzionalizza questo principio, stabilendo una stretta collaborazione tra l’Agenzia Nazionale per l’Istruzione e i rappresentanti del mondo del lavoro (attraverso consigli di programma a vari livelli), dando ai datori di lavoro un’influenza decisiva sulla definizione degli obiettivi formativi in funzione delle loro necessità percepite. Per comprendere gli effetti di questa svolta sull’organizzazione del sapere Nylund si avvale della teoria di Bernstein sulla contestualizzazione della conoscenza. Bernstein distingue tra un sapere profano o quotidiano, concreto e vincolato a contesti specifici (discorso orizzontale) e un sapere sacro o esoterico, astratto, teorico e sistemico (discorso verticale). Mentre il primo è potente nel risolvere problemi contingenti, il secondo, organizzato in sistemi concettuali, è essenziale per generalizzare, criticare, spiegare e immaginare alternative ed è quindi fondamentale per la partecipazione democratica e la trasformazione sociale. La domanda centrale diventa: quale tipo di conoscenza viene ora distribuita attraverso il nuovo curriculum?

Il Gy11 rivela una netta e sistematica divaricazione tra i percorsi professionali e quelli propedeutici all’università. Gli obiettivi di diploma, che sostituiscono i precedenti obiettivi di programma, sono formulati in modo da legare strettamente ogni competenza a contesti professionali specifici. L’analisi dei verbi della conoscenza mostra come nei percorsi accademici si privilegino “comprendere”, “spiegare”, “analizzare” e “interpretare” mentre in quelli professionali “fare”, “usare” o “lavorare”. Questa differenziazione si approfondisce nell’analisi dei piani di studio delle materie generali. Materie come svedese, scienze sociali, scienze naturali e storia hanno ora sillabi diversi per i due percorsi. Nei programmi accademici si studiano strutture testuali, economia nazionale e internazionale, ideologie politiche, metodi di indagine sociale e critica delle fonti. Nei programmi professionali questi contenuti strutturali, concettuali e critici sono assenti o fortemente ridotti. L’insegnamento è contestualizzato all’ambito professionale, privilegiando abilità pratiche di comunicazione e conoscenze operative. La stessa matematica perde il suo carattere disciplinare per diventare strumentale al settore di riferimento. Il quadro si completa con l’esame dei criteri di valutazione per le materie professionali specifiche. Qui emerge con chiarezza un principio di adattamento. Anche quando nei contenuti del corso compare qualche elemento più generale, questi spesso non rientrano nella valutazione che si concentra invece sulla capacità di eseguire procedure, seguire norme di sicurezza e igiene oppure organizzare il posto di lavoro. La valutazione per il massimo voto premia chi “lavora secondo i requisiti” e “spiega in dettaglio leggi e regolamenti”, non chi problematizza o analizza le condizioni di quelle leggi. Il contrasto è marcato con materie contestuali dei percorsi accademici, come economia aziendale, dove si richiede agli studenti di “valutare l’usabilità dei modelli” e di “spiegare fenomeni” utilizzando concetti, in un’ottica di comprensione critica e non di mera esecuzione. 

Agli studenti dei percorsi professionali, in larga parte provenienti da famiglie della classe lavoratrice, viene sistematicamente negato l’accesso al discorso verticale, quel sapere potente, decontestualizzato e critico che permette di comprendere, interrogare e plasmare la società. Vengono invece preparati all’adattamento, all’esecuzione e alla subordinazione alle condizioni date, sia sul posto di lavoro che nella società. 

La spinta verso un sistema educativo basato sulla libertà di scelta e sulla competizione prese forma in Svezia attraverso una serie di decisioni parlamentari. Per Ann-Sofie Holm e Lisbeth Lundahl l’intenzione dichiarata era duplice: garantire a genitori e figli la massima libertà possibile nella scelta della scuola e, al contempo, utilizzare questa scelta e la conseguente competizione tra istituti come leve per rivitalizzare e sviluppare l’intero sistema scolastico. I proponenti, come la ministra dell’Istruzione conservatrice Beatrice Ask, sostenevano che stimolare la competizione tra scuole diverse, con diversa impostazione e diverse forme di proprietà, potesse contribuire ad elevare la qualità, rendendo il sistema più efficiente sotto il profilo dei costi e permettendo alle scuole “buone” di sopravanzare quelle “cattive”. La libertà di scelta veniva presentata come un prerequisito per realizzare il diritto di tutti a una buona educazione. L’eguaglianza educativa veniva così riformulata come una questione di eguali opportunità di scegliere la scuola, nella fiducia che questa dinamica avrebbe anche generato una varietà di scuole e di metodi didattici.

Dopo un avvio piuttosto lento la situazione di mercato divenne particolarmente evidente all’inizio degli anni 2000, soprattutto nelle regioni delle tre maggiori città svedesi. In questi contesti urbani l’offerta di scuole indipendenti esplose letteralmente nel giro di pochi anni, un fenomeno particolarmente marcato a livello di scuola secondaria superiore. Verso la fine degli anni 2010 circa un quarto di tutti gli studenti delle superiori studiava in una free school, una percentuale che nella città di Stoccolma sfiorava il 55%. Questo sviluppo estremamente rapido e unico nel confronto internazionale fu alimentato da una congiuntura demografica favorevole (coorti giovanili numerose) e, soprattutto, dall’introduzione nel 1996 di voucher pubblici che coprivano il 100% dei costi. Un ulteriore fattore che spiegò l’espansione fu la riforma del 2008 che rafforzò la possibilità per i giovani di accedere a scuole superiori al di fuori del proprio comune di residenza. Il settore delle free school si trasformò profondamente, diventando un vero e proprio settore corporate dominato da società a responsabilità limitata, con una significativa presenza di grandi gruppi, capitali di rischio e aziende orientate al profitto.

Se, dal punto di vista dell’ampliamento formale della libertà di scelta, le riforme liberali degli anni ‘90 possono essere considerate un brillante successo, almeno nelle aree urbane, la ricerca successiva ha seriamente messo in discussione il raggiungimento degli altri benefici attesi, come l’eguaglianza, la qualità e il rinnovamento pedagogico. Gli studi evidenziano come la libera scelta e la competizione per gli studenti e le risorse si siano rivelati strumenti di governo che influenzano potentemente sia le dinamiche del mercato scolastico che quanto avviene all’interno delle scuole, spesso con effetti opposti a quelli dichiarati.

Il mercato della scuola secondaria superiore presenta caratteristiche peculiari che lo differenziano da quello della scuola dell’obbligo. La scelta, in questo caso, è compiuta direttamente dai giovani e non dai genitori, e non riguarda solo l’istituto ma anche il tipo di programma (teorico o professionale) e, in prospettiva, la carriera. Per adolescenti di 15-16 anni questa decisione si carica di significati identitari, diventando un modo per confermare chi si è o chi si vuole essere. La dispersione geografica delle possibilità è maggiore poiché gli studenti non sono vincolati al quartiere e possono essere ammessi in scuole in tutto il paese, trasformando spesso la scelta della scuola in una scelta del luogo. La riforma degli anni ‘90, permettendo profili locali, aveva inizialmente generato un’ampia varietà di programmi poi parzialmente ridotta dalle riforme del 2011. La situazione di mercato accentuata, specialmente nelle regioni urbane, ha portato a una crescente nicchizzazione dell’offerta rivolta a diversi gruppi di studenti, rafforzando e complicando le storiche divisioni basate su genere e classe sociale.

La ricerca, sia internazionale che svedese, converge nel dimostrare che la libertà di scelta, lungi dal promuovere l’equità, ha contribuito ad accentuare le differenze tra scuole, comuni e regioni. Questo esito è il risultato dell’intreccio tra scelta scolastica, decentralizzazione e segregazione abitativa crescente. I meccanismi di segregazione nel contesto competitivo sono stati approfonditi da studi qualitativi: la libertà di scelta degli studenti, combinata con la necessità delle scuole di distinguersi e rafforzare il proprio “brand” per attrarre allievi, agisce come una forza trainante per la differenziazione e l’omogeneizzazione interna alle scuole. La scuola finisce per rafforzare le differenze esistenti invece di compensarle.

La geografia della libertà di scelta è estremamente diseguale. I mercati scolastici locali variano profondamente in termini di composizione sociale degli studenti, offerta formativa, collegamenti e distanze. Questa disparità contraddice il principio dell’equivalenza educativa sancito dalla legge. I vincitori in questo panorama sono principalmente gli studenti urbani provenienti da famiglie con risorse culturali ed economiche che possono contare su supporto e consigli familiari. I potenziali perdenti sono i giovani delle aree suburbane dense, privi di risorse, specialmente quelli con storie di insuccesso scolastico, che si trovano disorientati dall’offerta sovrabbondante, compiono scelte sbagliate, cambiano scuola e programma, aumentando il rischio di abbandono e i giovani delle aree extra-metropolitane, costretti a scegliere se commutare (o trasferirsi) verso le città, con la loro ricca offerta, o rimanere in scuole locali con opzioni più limitate. Questa dinamica di concentrazione verso i grandi centri metropolitani mette in difficoltà le comunità rurali nel mantenere un’offerta completa, rischiando di portare alla chiusura di plessi. I sobborghi territorialmente stigmatizzati vedono spesso un drenaggio degli studenti più motivati, innescando una spirale negativa che aumenta le differenze nei risultati e la segregazione tra scuole, un problema che i riformatori dei primi anni ‘90 non avevano previsto.

L’incontro tra i giovani e il mercato delle scuole superiori può essere travolgente. Per attrarre studenti in un contesto dove il prezzo non è un fattore di competizione le scuole, sia pubbliche che private, investono significative risorse in marketing, utilizzando canali come open day, siti web, fiere scolastiche e visite. Il loro messaggio pubblicitario si adatta per rivolgersi a gruppi specifici. Scuole a orientamento teorico enfatizzano i voti alti e i contatti con l’università, quelle professionali sottolineano le attrezzature e i legami con il mondo del lavoro. Molti studenti percepiscono questa abbondanza di offerta come confusa e il marketing come poco serio. Le scelte vengono spesso compiute sulla base di fattori che vanno al di là della qualità didattica percepita: l’atmosfera della scuola, la sua reputazione e, soprattutto, il tipo di studenti che la frequentano. Questo comportamento, unito alle strategie di profilazione delle scuole, produce una crescente omogeneizzazione sociale all’interno degli istituti e una polarizzazione tra di essi, alimentando stereotipi e etichette (“quella scuola è di sinistra”, “quell’altra è piena di immigrati”, “quella è per maschi”) che finiscono per separare i giovani piuttosto che favorire incontri trasversali.

Le conseguenze della mercatizzazione si estendono profondamente all’interno della vita scolastica. La logica di mercato ha portato a una gestione sempre più aziendalista, con un lessico che include “quota di mercato”, “profitto”, “efficienza” e “performance”. I dirigenti scolastici si trovano a dover dedicare sempre più tempo ed energie a questioni economiche e di budget, a scapito della leadership pedagogica. L’instabilità generata dalla concorrenza (nuove scuole che aprono, altre che falliscono, fluttuazioni nelle iscrizioni) crea un clima di incertezza e “stress da opportunità” che complica la pianificazione e assorbe risorse preziose che potrebbero essere destinate allo sviluppo didattico. Anche il lavoro degli insegnanti si intensifica sotto le pressioni della documentazione, della visibilità e del marketing. Il rapporto educativo si trasforma, assumendo talvolta i tratti di una relazione cliente-fornitore, dove le valutazioni professionali possono essere messe in discussione da richieste di studenti e genitori, con il rischio percepito di mettere in pericolo la propria posizione o la sopravvivenza della scuola stessa. Gli studenti stessi diventano al contempo “clienti” e “merci”. Quelli con rendimento elevato sono particolarmente ambiti perché innalzano la media dei voti della scuola e ne migliorano la posizione nelle classifiche, acquisendo così un più alto “valore di scambio”.

Per quanto riguarda l’obiettivo chiave del miglioramento della qualità e del rinnovamento pedagogico, le evidenze sono deludenti. L’assunto razionale alla base delle riforme, ovvero che individui informati sceglierebbero le scuole di qualità più alta, costringendo le altre a migliorare o a chiudere, non trova conferma nella realtà. La qualità, nel mercato scolastico, tende a essere definita dalla popolarità dell’istituto, spesso legata a fattori non strettamente didattici. Scuole situate in contesti svantaggiati possono avere ottimi risultati e personale competente ma incontrare comunque grandi difficoltà a competere con scuole cittadine più “alla moda”. Riguardo all’innovazione pedagogica, la ricerca internazionale suggerisce che la competizione tende a stimolare il rinnovamento soprattutto nel marketing e nella gestione, non nei metodi di insegnamento, e può anzi portare a una maggiore uniformità. Anche in Svezia gli studi empirici forniscono pochi esempi di vera innovazione didattica generata dalla concorrenza. Molte free school fanno parte di grandi conglomerati a scopo di lucro che propongono concetti formativi standardizzati mentre altre enfatizzano pedagogie tradizionali o codici di comportamento rigidi. La critica, come emerge da interviste con operatori del settore, è che la logica del mercato ha finito per privilegiare sistematicamente lo sviluppo dell’economia rispetto a quello della pedagogia, anche all’interno del sistema pubblico, minando la possibilità di investimenti educativi a lungo termine.

Per Linda Rönnberg le riforme degli anni ‘90 hanno creato le condizioni per l’emergere di una vera e propria industria educativa nazionale a scopo di lucro. Un aspetto più recente di questa evoluzione, che ha ricevuto minore attenzione accademica, è proprio la globalizzazione di queste aziende scolastiche commerciali svedesi che stanno entrando nell’industria dell’educazione globale attraverso varie vie. Oltre alla loro consolidata espansione nel mercato domestico, dove nel 2015 i comuni hanno acquistato servizi educativi per circa 4 miliardi di euro da fornitori privati, queste aziende hanno intrapreso rotte commerciali internazionali. Kunskapsskolan Education, ad esempio, opera o ha operato tramite le sue scuole in Inghilterra, Stati Uniti, Paesi Bassi, India e Arabia Saudita, Internationella Engelska Skolan (IES) è presente in Inghilterra e Spagna, AcadeMedia gestisce asili in Norvegia e Germania. Un ulteriore esempio è NordicEd, specializzata in servizi di consulenza e gestione scolastica nei paesi in via di sviluppo, fondata da ex dirigenti di Kunskapsskolan. 

Kunskapsskolan, fondata da attori con forti legami politici (come Peje Emilsson e Anders Hultin), ha basato la sua espansione sul KED Program, un modello di educazione personalizzata supportato da una piattaforma tecnologica. La sua prima tappa internazionale fu l’Inghilterra nel 2008, vista come un trampolino di lancio. Figure come Hultin sono state attive anche nel marketing del “modello svedese” nel dibattito pubblico britannico. Oggi, attraverso partnership e joint venture (ad esempio con Saab in Arabia Saudita), Kunskapsskolan adatta il suo KED Program ai curricula nazionali di diversi paesi mantenendone la filosofia di base ma rimodellandone l’implementazione e promuove scambi tra studenti e staff delle sue scuole globali per facilitare la circolazione delle idee.

Internationella Engelska Skolan (IES), una delle maggiori catene svedesi, è focalizzata su tre principi cardine: padronanza dell’inglese, ambiente scolastico ordinato e sicuro (“tough love”) e alte aspettative accademiche. Di proprietà di fondi di private equity come TA Associates e quotata in borsa, IES ha sfruttato le intense relazioni di policy tourism tra Svezia e Inghilterra all’epoca dell’introduzione delle free schools inglesi. La sua scuola in Inghilterra, gestita in partnership con il Sabres Educational Trust, ripropone i valori del brand ma si adatta anche a specifiche richieste locali, come la promozione esplicita dei “valori britannici”. In Spagna l’espansione è avvenuta nel 2016 attraverso l’acquisizione di un gruppo scolastico privato locale, con l’obiettivo dichiarato di condividere conoscenze e interazioni tra i due sistemi.

AcadeMedia, il più grande operatore educativo del Nord Europa, si è concentrata sull’espansione internazionale più tardi, dedicandosi esclusivamente al segmento prescolare. Dopo aver acquisito il principale operatore norvegese di asili, Espira, nel 2014 è entrata in Germania promuovendo attivamente un “modello prescolare scandinavo” basato su valori come la natura, il movimento fisico e la democrazia, vedendo nel mercato tedesco, ancora frammentato, un’opportunità di crescita significativa.

In tutti questi casi si osserva una strategia di branding che utilizza selettivamente immagini stereotipate della “svedesità” o “scandinavicità”, come l’uguaglianza, l’inclusione, la democrazia e l’individualizzazione, per legittimarsi e differenziarsi sui mercati globali. Tutto ciò viene bilanciato da un’attenta adattabilità al contesto locale, sia a livello normativo che culturale. 

3. Valutazione

Secondo Jonas Vlachos nel sistema scolastico svedese un modello di valutazione fondato sulla fiducia e sull’alta discrezionalità professionale degli insegnanti convive con un’architettura di mercato che incoraggia la scelta, la concorrenza e l’ingresso di fornitori privati finanziati da voucher, molti dei quali sono corporation a scopo di lucro. Lo scopo di Vlachos è esaminare come attori con diverse logiche (pubblica, privata non profit, privata for-profit) rispondano a un sistema in cui la misurazione della performance, affidata in ultima istanza ai giudizi degli insegnanti, è al tempo stesso cruciale per il futuro degli studenti e per la reputazione delle scuole. L’ipotesi di partenza è che, mentre tutti i fornitori sono sensibili agli incentivi del sistema, le loro risposte possano differire in modo significativo a causa degli obiettivi divergenti. La logica di mercato presuppone che i fornitori privati siano più reattivi alle preferenze delle famiglie, il che può essere un vantaggio ma diventa problematico quando gli interessi privati entrano in conflitto con il bene pubblico, in particolare con l’integrità del sistema di valutazione e classificazione.

Questa riflessione si inserisce in un dibattito economico di lunga data. Autori come Friedman, Shleifer e Hoxby hanno sostenuto che i voucher e i fornitori privati, attraverso la concorrenza e una maggiore sensibilità alla domanda, migliorerebbero la qualità dell’istruzione anche nel settore pubblico. Queste teorie poggiano su due assunzioni spesso fragili: che le famiglie siano ben informate sulla qualità reale della scuola (un compito arduo persino per i ricercatori, dato che è difficile separare la scuola dalla composizione del corpo studentesco) e che le loro preferenze siano allineate con l’interesse pubblico. La scelta può innescare meccanismi di segregazione sociale o indurre le scuole a competere su “amenità di consumo” piuttosto che sulla sostanza educativa, creando un divario tra benessere individuale e collettivo.

Il sistema di valutazione svedese è il terreno dove questi conflitti potenziali si concretizzano. Si basa su voti per materia assegnati dagli insegnanti che confluiscono in un Grade Point Average (GPA) decisivo per l’accesso alla scuola secondaria superiore e all’università. I test nazionali standardizzati, somministrati in materie fondamentali, servono principalmente da strumento di calibrazione per aiutare gli insegnanti a uniformare gli standard ma non c’è un vincolo formale tra il voto del test e il voto finale della materia. Questo disegno crea un paradosso. Essendo il sistema intrinsecamente fiduciario, offre ampio margine di discrezionalità e quindi è relativamente facile da manipolare e gli incentivi a farlo sono fortissimi, sia per gli studenti (il GPA è high-stakes) sia per le scuole (il GPA medio è la metrica di performance più visibile e utilizzata nei ranking). La domanda di ricerca diventa, quindi, esplorare la compatibilità tra un simile sistema valutativo e un mercato scolastico liberalizzato.

L’analisi empirica si concentra specificamente sulle differenze tra tipologie di fornitori, piuttosto che sull’impatto generale della concorrenza, perché queste differenze sono significative di per sé. Il quadro normativo svedese, con il voucher universale introdotto nel 1992, ha portato a una significativa espansione del settore privato che nel 2017 copriva circa il 15% degli studenti della scuola obbligatoria e il 26% di quella secondaria superiore. Di questi la grande maggioranza frequenta scuole a scopo di lucro (il 68% nel ciclo obbligatorio, l’86% in quello superiore). Tra i grandi attori corporate spiccano AcadeMedia, Internationella Engelska Skolan (IES) e Kunskapsskolan, ognuno con una filosofia distinta: IES adotta un approccio “no-excuse” bilingue con disciplina ferrea, Kunskapsskolan privilegia un’educazione personalizzata e poco strutturata, AcadeMedia, un conglomerato, racchiude sotto diversi marchi scuole ispirate a metodi come Montessori.

La metodologia per catturare le differenze negli standard di valutazione sfrutta la discrepanza tra i voti scolastici (alta discrezionalità) e i risultati dei test nazionali (minore, ma non nulla, discrezionalità). Utilizzando dati a livello scolastico per il periodo 2013-2016 vengono stimate delle regressioni in cui il voto medio di una materia in una scuola è spiegato da una funzione flessibile del voto medio nel test corrispondente, controllando per l’assenteismo al test e includendo effetti fissi per materia e anno. I coefficienti chiave riguardano l’appartenenza a uno dei gruppi di fornitori. Un coefficiente positivo indica che quel gruppo assegna voti più alti a parità di risultati ai test, suggerendo standard di valutazione più indulgenti. Una sfida cruciale è l’affidabilità differenziale dei test. Quelli di matematica e di comprensione (lettura/ascolto) in inglese e svedese (i “B-test”) sono i più affidabili mentre i test di produzione scritta o nelle materie scientifiche e sociali lasciano molto più spazio al giudizio discrezionale dell’insegnante-correttore.

I risultati sono chiari e coerenti. Nelle materie fondamentali (matematica, inglese, svedese), tutti i gruppi di scuole libere assegnano voti significativamente più alti delle scuole comunali una volta controllati i risultati dei test. Le differenze sono più ampie quando si usano i test più affidabili come metro di paragone. Ad esempio in matematica la differenza varia da 0,3 a 0,6 punti di voto, in inglese, usando il B-test affidabile, l’IES assegna voti superiori di 1,1 punti rispetto alle scuole pubbliche. Gli studenti delle scuole private ottengono sistematicamente punteggi più alti proprio nelle parti dei test a più alta discrezionalità (ad esempio il tema scritto rispetto alla comprensione del testo), anche controllando per il background socio-demografico. Ciò suggerisce che le differenze non sono solo nei voti scolastici ma potrebbero estendersi anche alla valutazione stessa dei test.

Il pattern si conferma nelle scienze, nelle scienze sociali e, in modo particolarmente marcato, nelle materie estetico-pratiche (arte, musica, sport…), per le quali non esistono test standardizzati e il controllo avviene tramite il risultato in matematica. Per queste ultime le differenze sono molto ampie, fino a 1,7 punti di voto per Kunskapsskolan, il che è sorprendente dato che i profili di queste scuole corporate non suggeriscono una specializzazione in tali ambiti.

Una parte di queste differenze negli standard di valutazione può essere attribuita a fattori contestuali. Le free school sono localizzate prevalentemente in aree urbane competitive e hanno un corpo studentesco mediamente più avvantaggiato. L’analisi mostra infatti che includendo effetti fissi comunali e controlli per il background degli studenti le stime si riducono ma rimangono positive e statisticamente significative per tutti i gruppi privati, in particolare per IES e Kunskapsskolan. Il livello di certificazione degli insegnanti, invece, spiega poco della variazione.

Evidenze dal livello della scuola secondaria superiore, dove la selezione degli studenti nelle free school è addirittura negativa in termini di background e rendimento precedente, confermano la tendenza: studi precedenti mostrano che le free school valutano i test nazionali in modo più indulgente e che i loro studenti, nonostante GPA più alti, tendono a performare peggio al primo anno universitario.

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