Le prospettive dell’economia europea

Il libro collettivo Tornare alla pianificazione. Politiche industriali dopo la globalizzazione è un formidabile strumento per capire in quale direzione si sta muovendo la politica economica dell’UE.

1. Introduzione

Il saggio Produttività e competitività: una critica dei concetti dominanti di Matteo Gaddi, Nadia Garbellini e Gianmarco Oro intraprende una decostruzione radicale dei pilastri concettuali del linguaggio economico contemporaneo, smascherando la loro presunta neutralità per rivelarne il nucleo ideologico e politico. Dimostrano come termini come produttività e competitività, sistematicamente presentati come tecnici e universali, siano in realtà dispositivi che legittimano precise relazioni di potere, giustificando la compressione salariale, la precarizzazione e un modello di crescita squilibrato a vantaggio del capitale.

La critica muove da un’analisi minuziosa del concetto di produttività. Nel dibattito pubblico e istituzionale, in particolare in Italia, la stagnazione della produttività viene indicata come la causa prima della crescita lenta, dei bassi salari e della perdita di competitività. La soluzione proposta è un suo aumento, da ottenersi spesso attraverso riforme strutturali del mercato del lavoro. Criticano ciò che si misura esattamente con questo termine. La metrica universalmente adottata, il valore aggiunto reale (a prezzi costanti) per ora lavorata, non è affatto un indicatore neutrale di efficienza tecnica o fisica. Essa affonda le sue radici nella contabilità della crescita di matrice neoclassica, la quale, a sua volta, poggia sulla teoria della funzione di produzione aggregata. Quest’impianto teorico, oggetto di una critica devastante già durante la Controversia delle due Cambridge ad opera di economisti come Piero Sraffa, Luigi Pasinetti e Pierangelo Garegnani, è valido solo nell’irrealistico caso di un sistema economico che produce un unico bene composito.

Il cuore del problema risiede nell’uso del valore aggiunto reale come proxy del volume della produzione fisica. Per considerare vero questo assunto è necessario accettare una serie di ipotesi estremamente restrittive e irrealistiche: in primo luogo, l’assenza totale di importazioni di beni intermedi, in secondo luogo, una struttura della domanda finale immutabile nel tempo e, in ultima analisi, l’ipotesi che l’economia produca una sola merce. Senza queste ipotesi, diventa impossibile separare le variazioni di prezzo da quelle di quantità e attribuire un significato fisico alla sottrazione tra produzione lorda e consumi intermedi che definisce il valore aggiunto. Un paniere fisico, infatti, non può contenere quantità negative. Pertanto il valore aggiunto reale non è una misura dell’output fisico ma un costrutto contabile che non può essere interpretato al di fuori del paradigma neoclassico che l’ha generato.

La conseguenza è dirompente: il rapporto tra questo valore aggiunto reale e le ore lavorate non misura la produttività in senso tecnico-fisico bensì la capacità di valorizzazione del capitale, ovvero la sua abilità di generare valore monetario. Il Costo del Lavoro per Unità di Prodotto (CLUP), calcolato utilizzando il valore aggiunto reale, non riflette il costo per unità fisica di output ma è semplicemente un indicatore della quota del valore aggiunto che viene distribuita ai lavoratori. Utilizzare questi indicatori come se fossero misurazioni oggettive di efficienza significa, quindi, incorporare acriticamente l’intera visione del mondo neoclassica.

La portata politica di questa critica è immediata e profonda. Le istituzioni europee, dalla Banca Centrale Europea alla Commissione, hanno utilizzato per anni la narrativa della bassa produttività per imporre riforme strutturali, con un focus particolare sull’indebolimento della contrattazione collettiva nazionale in favore di quella aziendale. L’obiettivo dichiarato, come evidenziato dalla lettera Draghi-Trichet del 2011 e dalle successive raccomandazioni del Consiglio dell’UE, è un “migliore allineamento dei salari alla produttività”. Questa retorica, ripresa anche dalle associazioni datoriali come Federmeccanica, viene utilizzata per giustificare la moderazione salariale.

Un’analisi empirica condotta dagli autori sul settore metalmeccanico italiano svela la fallacia di questa narrazione. Confrontando gli indicatori standard con le loro versioni in termini nominali, emerge un quadro completamente ribaltato. La produttività “reale” appare stagnante (crescita dello 0,73% tra il 2021 e il 2023) mentre la capacità di valorizzazione (valore aggiunto nominale per ora lavorata) è cresciuta del 13,51%. Nel contempo la quota salari sul valore aggiunto nominale si è contratta del 5,42%. Questo dimostra inoppugnabilmente che l’aumento del CLUP denunciato dalle associazioni datoriali non è causato da una crescita eccessiva dei salari bensì da una dinamica del valore aggiunto che ha favorito la quota profitti. La stagnazione, quindi, è della porzione di ricchezza che il sistema produttivo destina al lavoro.

La seconda parte del saggio estende la critica al concetto di competitività, presentato come un derivato diretto dell’ideologia della produttività. Il modello economico europeo, concepito fin dalle origini come un sistema export-led, ha sistematicamente marginalizzato qualsiasi alternativa basata sulla domanda interna, promuovendo invece la compressione salariale come leva per guadagnare quote di mercato. Attraverso un esercizio empirico ispirato alla tradizione post-keynesiana di Cambridge e basato sui dati delle Tabelle Input-Output dell’OECD, dimostrano che questa ossessione per la competitività è un vincolo ideologico più che una necessità economica.

L’esercizio simula uno scenario estremo: un azzeramento completo delle esportazioni extra-UE. Nel cosiddetto Scenario A questo shock comporterebbe una caduta del 30% del valore aggiunto a causa dell’effetto moltiplicatore negativo sulla domanda e delle interruzioni nelle reti produttive (effetto Leontief). Esiste uno Scenario B alternativo. Gli autori dimostrano che se la quota salari media nell’UE venisse aumentata dall’attuale 50,5% a circa il 73,1% il potere d’acquisto aggiuntivo generato dai lavoratori (che hanno una propensione al consumo più alta dei percettori di profitti) attiverebbe il moltiplicatore keynesiano e l’effetto Leontief in senso positivo, compensando esattamente la perdita di domanda esterna. Il risultato principale è dunque di natura logica: non esiste alcun vincolo macroeconomico insormontabile che imponga di subordinare i salari alla competitività. L’Unione Europea possiede già al suo interno il potenziale di domanda aggregata necessario per sostenere un modello di crescita alternativo.

Si precisa che una pura redistribuzione del reddito, sebbene necessaria, non è sufficiente. Una transizione reale richiede un ambizioso piano di investimenti pubblici e una politica industriale strategica che trasformi materialmente la struttura produttiva. È necessario completare la matrice produttiva europea, sviluppando i settori necessari a sostituire non solo le importazioni ma anche a assorbire internamente i beni attualmente esportati. Ciò richiede una pianificazione pubblica che vada oltre le logiche di mercato, fondata su bilanci materiali (fisici) piuttosto che monetari, per guidare una riconfigurazione fisica dell’economia. Obiettivi come la piena occupazione di qualità, la transizione ecologica e la giustizia sociale devono sostituire la massimizzazione del profitto come bussola della ricerca e dello sviluppo.

2. La proposta di Mario Draghi

La relazione affidata a Mario Draghi dalla Commissione Europea nel 2023 e pubblicata nel settembre 2024 si articola su un duplice livello narrativo, con un discorso esplicito che funge da schermo per implicazioni strategiche più profonde e potenzialmente controverse secondo Matteo Gaddi. La narrazione ufficiale parte dalla constatazione di un mutamento degli equilibri globali verso una tripartizione in blocchi distinti (Cina, Stati Uniti ed Europa) con quest’ultima ancora lontana dal costituire un’entità economica coesa e competitiva. Il vulnus principale identificato per il Vecchio Continente è la mancanza di scala, nonostante la liberalizzazione di beni e capitali, a causa di imperfezioni di mercato persistenti e gravi: un eccessivo groviglio di regolamentazioni nazionali che frammenta il mercato unico, un potere di veto decisionale a livello europeo che paralizza processi rapidi ed efficaci e un sistema finanziario debole, incapace di canalizzare e allocare efficientemente le risorse. A questo quadro interno già critico si aggiunge la sfida rappresentata dalla Cina, percepita come un competitor che “gioca sporco” grazie alla direzione statale della sua economia. La ricetta proposta è, di conseguenza, radicale: trasformare il mercato europeo in un vero mercato unico, rimuovendo i vincoli istituzionali e favorendo la creazione di imprese di scala continentale in grado di competere globalmente, “livellando il terreno di gioco”. Questo sforzo dovrebbe concentrarsi in modo selettivo sui settori strategici in cui il ritardo europeo è meno pronunciato e il recupero di terreno ancora possibile, come specifici comparti della manifattura green e delle tecnologie pulite, nonché sul settore della difesa, la cui fragilità e mancanza di interoperabilità sono emerse con drammatica evidenza con il conflitto in Ucraina, rendendo necessaria la costruzione di un’industria europea della difesa basata su standard unici. Per realizzare questa imponente trasformazione il Rapporto Draghi stima la necessità di un piano di investimenti di portata storica, addirittura più ambizioso in rapporto al Pil del Piano Marshall: 800 miliardi di euro all’anno, da raccogliere non attraverso un indebitamento pubblico centralizzato, bensì attraverso la “mobilitazione del risparmio privato”, lo stesso che oggi stenta a muoversi a causa della frammentazione e dell’arretratezza dei sistemi finanziari europei rispetto a quello statunitense.

Dietro questa narrazione ufficiale, tuttavia, si cela una contro-narrazione che riconosce la progressiva erosione dell’egemonia statunitense e l’aggregazione della Cina attorno al cosiddetto Sud globale, con l’Europa schiacciata tra i due colossi, privata dell’accesso garantito a materie prime ed energia e dei tradizionali mercati di sbocco per la sua locomotiva manifatturiera, la Germania. Per Gaddi il rischio concreto è che l’Europa diventi un’appendice del blocco a stelle e strisce, un mercato di consumo per i suoi prodotti industriali e una fonte di estrazione di rendita per il suo sistema finanziario. L’unica via di scampo sarebbe una specializzazione in quei settori, come il green, dove il ritardo accumulato non è abissale e il patrimonio di competenze è ancora valido. Per farlo, però, servirebbe una pianificazione che Draghi immagina più vicina al modello statunitense che a quello cinese, ovvero guidata da multinazionali private e non dallo Stato. Il Rapporto sostiene esplicitamente la necessità di avere grandi attori oligopolistici in grado di operare senza i lacci delle regole nazionali, proponendo l’eliminazione delle norme che limitano la massimizzazione dei profitti e la riduzione del potere di veto degli Stati membri. Il finanziamento di questo processo attraverso la mobilitazione del risparmio privato comporterebbe, in concreto, che i singoli Paesi membri dirottino parte della propria spesa corrente verso questo piano di investimenti europeo. Ciò si tradurrebbe in un inevitabile ridimensionamento della copertura dei servizi pubblici (trasporti, edilizia sociale, scuola, università, sanità) spingendo i cittadini a rivolgersi al sistema finanziario privato per sopperire a queste mancanze attraverso prestiti universitari, pensioni integrative, assicurazioni sanitarie e mutui. In questa visione il moltiplicatore keynesiano di destra proposto da Draghi è di natura puramente finanziaria, basato sulla privatizzazione dei servizi e sull’indebitamento privato. La retorica del libero mercato e della concorrenza ha storicamente favorito un processo di concentrazione del capitale, in cui i potenziali oligopolisti hanno sfruttato le economie di scala per abbassare i prezzi, eliminando dal mercato le imprese più piccole o assoggettandole al comando dei grandi OEM che esercitano così un potere duplice: oligopolistico sul mercato di sbocco e monopsonistico su quello degli input, imponendo regole, prezzi e condizioni di lavoro all’intera filiera. Anche l’enfasi sugli investimenti diretti esteri ha spinto in questa direzione. 

Scendendo nel dettaglio delle aree di intervento, il Rapporto individua nella staticità della struttura industriale dell’UE, ancorata a settori tradizionali come l’automotive a discapito di investimenti in beni immateriali come software, dati e proprietà intellettuale, una delle cause principali del divario di innovazione. Questa analisi viene criticata per aver ignorato le responsabilità storiche, come l’esperienza di Olivetti in Italia che già nel 1959 realizzò il primo calcolatore elettronico italiano ma fu lasciata sola e poi smantellata per mancanza di investimenti pubblici e di una strategia industriale di lungo periodo, a differenza di quanto avvenuto negli USA con aziende come IBM. Inoltre, attribuire il ritardo solo alla mancata svolta digitale è fuorviante per Gaddi. Il vero problema è stata l’assenza di politiche pubbliche e industriali capaci di sostenere lo sviluppo tecnologico in tutti i settori strategici, anche quelli di base. Le proposte del Rapporto per colmare questo divario sono a loro volta controverse: promuovere il trasferimento dei brevetti pubblici verso soggetti privati e integrare i ricercatori in cluster dell’innovazione con grandi imprese e fondi di investimento significa subordinare ulteriormente la ricerca pubblica alle logiche di mercato. L’idea di uno statuto giuridico europeo per le start-up innovative che permetta loro di operare in tutta l’UE superando le leggi nazionali su lavoro, fisco e fallimenti, lascia intravedere un allentamento delle tutele sociali e dei diritti dei lavoratori in nome della competitività. Per quanto riguarda i settori emergenti, il Rapporto si focalizza su Intelligenza Artificiale e Telecomunicazioni. Sull’IA, critica i limiti europei alla raccolta e elaborazione dei dati perché creano alti costi di conformità e ostacolano la creazione di grandi dataset per l’addestramento dei modelli, svantaggiando le aziende UE rispetto a quelle USA e cinesi. Affrontare la regolazione senza definire preliminarmente gli obiettivi lascia campo libero alle multinazionali private di orientare lo sviluppo tecnologico secondo i propri interessi. Dal punto di vista industriale, l’enfasi è sull’IA verticale per aumentare la redditività aziendale, con un approccio che ricorda Industria 4.0 e che si concentra su una maggiore subordinazione dei lavoratori alle tecnologie, un controllo pervasivo delle prestazioni e un’intensificazione dei ritmi, senza considerare le implicazioni sulle condizioni di lavoro.

Nel settore delle Telecomunicazioni il Rapporto esplicita in modo inequivocabile ciò che per anni è stato mascherato dalla retorica della concorrenza: la liberalizzazione, presentata come strumento per garantire efficienza, ha in realtà smantellato i monopoli pubblici, unici soggetti in grado di garantire l’universalità del servizio e di sostenere gli ingenti investimenti infrastrutturali, per aprire il mercato agli operatori privati. Dopo aver frammentato il mercato in 34 gruppi di operatori mobili, compromettendone la capacità di investire (come dimostrato in Italia dal rallentamento dello sviluppo della rete ultralarga e dalla creazione delle “aree bianche” a fallimento di mercato), si propone di promuovere il “consolidamento” attraverso fusioni e aggregazioni. Si sostituiscono così i vecchi monopoli pubblici regolati, orientati all’interesse collettivo, con oligopoli privati di scala europea, svincolati dalle legislazioni nazionali, con il ruolo pubblico ridotto a modificare le regole della concorrenza per favorire questa crescita dimensionale e con un peggioramento delle condizioni di lavoro dovuto all’esternalizzazione delle attività.

Sul fronte della decarbonizzazione e competitività, la strategia è declinata in quattro casi: per le industrie con svantaggio di costo insormontabile, come il cloud, dominato da fornitori USA, la strategia è passiva, limitandosi a importare, per settori come l’automotive si propone di favorire gli IDE e introdurre dazi compensativi, aprendo di fatto agli investimenti cinesi in Europa a patto di costituire joint venture con partner locali, senza però prevedere un ruolo centrale per lo Stato, per le industrie strategiche si suggerisce di preservare know-how e capacità produttiva, introducendo requisiti di contenuto locale non per garantire occupazione o autonomia ma la bancabilità degli investimenti, per le industrie nascenti come le clean technologies, si propone una protezione fino al consolidamento. Il Rapporto rimane vago nell’identificare i settori specifici. Per ridurre i prezzi dell’energia, nodo cruciale per la competitività, il rapporto evita una valutazione critica della liberalizzazione del settore energetico, processo iniziato negli anni ’90 che ha disintegrato le fasi del servizio (generazione, trasmissione, distribuzione), frammentando il mercato, rendendo difficile il coordinamento degli investimenti e creando inefficienze, come le difficoltà di connessione delle rinnovabili alla rete. Riconosce che il differenziale di prezzo con gli USA è dovuto in parte alla mancanza di risorse naturali ma anche alla finanziarizzazione del mercato del gas, dove gli aspetti speculativi dei derivati determinano una maggiore volatilità. Tuttavia non propone soluzioni strutturali come il divieto dei derivati speculativi, limitandosi a vaghi suggerimenti di regolazione. Il meccanismo del prezzo marginale, che lega il costo dell’elettricità a quello del gas, viene riaffermato come garanzia di un equilibrio efficiente che in realtà tutela la redditività delle imprese anche quando la produzione da rinnovabili aumenta, impedendo ai prezzi di scendere. Il Rapporto evita anche di approfondire le conseguenze di lungo periodo della rottura con la Russia che ha avvantaggiato gli USA, con l’aumento delle importazioni di GNL, e propone strumenti di mercato come i Power Purchase Agreements (PPA), contratti bilaterali privati senza regolazione pubblica dei prezzi. Per sostenere le industrie ad alta intensità energetica il rapporto propone di destinare loro una quota maggiore dei proventi dell’ETS e di utilizzare strumenti come i Carbon Contracts for Difference (CCfDs) e la Banca Europea dell’Idrogeno che però lasciano le scelte sugli investimenti completamente in mano alle imprese private, con il pubblico limitato a erogare fondi e ridurre il rischio d’impresa, senza alcuna pianificazione strategica. Il meccanismo di adeguamento del carbonio alle frontiere (CBAM), pur riconosciuto come potenziale strumento per evitare la delocalizzazione delle emissioni, non è affiancato da un meccanismo analogo sul piano sociale (un Social Border Adjustment Mechanism) che compensi i vantaggi competitivi indebiti derivanti da salari irrisori e sistemi previdenziali carenti nei paesi extra-UE, lasciando così scoperto il fronte della competizione al ribasso tra lavoratori.

Il Rapporto, nel valutare il potenziale industriale europeo nelle clean technologies, delinea un quadro di contrasti stridenti, fondando le sue ottimistiche premesse su due indicatori principali: la quota di brevetti high-value, di cui l’Unione Europea detiene circa il 60%, e un indice di complessità tecnologica che la colloca ai vertici globali in alcune tecnologie verdi. Questo significativo potenziale innovativo si scontra immediatamente con un limite metodologico cruciale poiché entrambi gli indicatori si basano esclusivamente su dati brevettuali e non forniscono alcuna misura della capacità produttiva effettiva, rivelando così la profonda lacuna tra l’innovazione concepita in Europa e la sua concretizzazione industriale. Lo stesso Rapporto riconosce con realismo che non vi è alcuna certezza che la domanda europea di tecnologie pulite sarà soddisfatta dalla produzione interna, soprattutto di fronte alla travolgente potenza industriale della Cina che non solo domina già le esportazioni globali nel settore ma sta costruendo una capacità produttiva tale da poter soddisfare da sola la domanda mondiale. Entro il 2030 Pechino disporrà di una capacità di produzione di pannelli solari doppia rispetto al fabbisogno globale e di una produzione di batterie sufficiente a coprire l’intero mercato mondiale. A rendere la situazione ancora più critica e dinamica, l’imposizione di dazi da parte di altri paesi, con i recenti annunci di Trump che prefigurano un ulteriore irrigidimento protezionistico, sta spingendo la Cina a dirottare strategicamente le proprie esportazioni in eccesso verso il mercato europeo, aumentando così la pressione competitiva su imprese già in difficoltà e creando un’urgenza ancora maggiore di quella contemplata quando il Rapporto è stato redatto, con il rischio concreto che, senza una regolazione adeguata del commercio internazionale in questo ambito strategico, l’industria europea venga rapidamente marginalizzata.

Fronteggiare questi rischi richiederebbe una risposta chiara e determinata ma il Rapporto appare piuttosto reticente e ambiguo nel proporre soluzioni concrete, escludendo esplicitamente l’ipotesi di seguire l’approccio statunitense, che prevede l’esclusione sistematica delle tecnologie cinesi, ritenendolo troppo costoso per l’Europa sia in termini economici che di ritardo accumulato nella transizione ecologica. Contemporaneamente considera profondamente problematico il ricorso a dazi doganali, sottolineando come oltre un terzo del Pil manifatturiero dell’UE dipenda da mercati esterni, rendendo una guerra commerciale controproducente. Il documento ammette con una certa schizofrenia che un approccio puramente basato sul laissez-faire non è più sostenibile poiché minaccerebbe occupazione, produttività e la stessa sicurezza economica del continente. Questa consapevolezza è supportata dalla constatazione di un declino industriale già in atto: l’UE, pur essendo il secondo mercato mondiale per pannelli solari, impianti eolici e auto elettriche, ha perso in diversi casi la leadership industriale inizialmente acquisita come first mover. Il caso emblematico è quello del fotovoltaico dove l’Europa ha completamente perso la capacità produttiva a favore della Cina mentre nel settore eolico, nonostante una solida base industriale e una bilancia commerciale ancora positiva, le quote di mercato globali sono crollate in modo drammatico, passando dal 58% nel 2017 al 30% nel 2022. In altri ambiti promettenti, come gli elettrolizzatori per l’idrogeno o gli impianti di cattura e stoccaggio della CO2, l’UE mantiene un vantaggio tecnologico ma molti produttori scelgono comunque di delocalizzare la produzione in Cina, attratti dai minori costi di costruzione, dalla possibilità di evitare i complessi ritardi autorizzativi europei e dalle difficoltà di accesso alle materie prime critiche.

A questa concorrenza sleale da est si aggiunge una pressione aggressiva da ovest, denunciata dal Rapporto: gli Stati Uniti, con il loro Inflation Reduction Act (IRA), stanno attuando una politica industriale fortemente sovranista, prevedendo sussidi generosissimi, stimati tra i 40 e i 250 miliardi di dollari, a sostegno della produzione domestica di tecnologie pulite. Al confronto i finanziamenti europei appaiono deboli e inefficaci. Essi sono frammentati in una miriade di programmi, complessi da ottenere, lenti nell’attuazione e non competitivi rispetto ai costi operativi, con il Rapporto stesso che ammette che gli aiuti UE alla manifattura sono da cinque a dieci volte inferiori rispetto a quelli previsti dall’IRA. A questo si somma un ulteriore limite strutturale di natura politica: il Net-Zero Industry Act (NZIA) fissa obiettivi quantitativi ambiziosi per la manifattura verde ma, a differenza di quanto avviene in altri contesti come quello statunitense dove le quote minime di contenuto domestico sono la regola, non prevede alcun vincolo minimo di produzione locale. Di conseguenza la domanda europea di tecnologie pulite, pur essendo cospicua, non può essere indirizzata in modo efficace verso la produzione interna, aggravando la dipendenza industriale dell’UE in un settore strategico. Colmare questo divario competitivo con gli Usa e con la Cina richiederebbe quindi ingenti investimenti pubblici, una direzione che si scontra frontalmente con le nuove regole di bilancio approvate nell’aprile 2024 che impongono la riduzione della spesa pubblica proprio nel momento in cui sarebbe necessario un suo massiccio ampliamento.

La frammentazione dei finanziamenti europei è attribuita dal Rapporto al vero nodo politico, rappresentato dalla competizione tra Stati membri che agiscono in ordine sparso per attirare investimenti tramite sussidi nazionali invece di costruire una strategia industriale comune in grado di orientare e distribuire in modo equilibrato la capacità produttiva e l’occupazione tra i paesi dell’Unione. In questo contesto di concorrenza intracomunitaria anche l’ipotesi di introdurre quote minime di contenuto locale, pur apprezzabile in linea di principio, risulta strutturalmente debole perché mancano sia soglie vincolanti sia criteri chiari per garantire una ripartizione equa dei benefici industriali, lasciando spazio a nuovi squilibri. Anche sul piano degli appalti pubblici, uno strumento potenzialmente potentissimo per indirizzare la domanda, il Rapporto trascura deliberatamente l’inserimento di condizionalità sociali e occupazionali, limitandosi a raccomandare criteri legati all’innovazione tecnologica e alla sostenibilità ambientale. In più manca completamente qualsiasi riferimento alla proprietà pubblica o a forme di controllo democratico dei settori strategici. La ricetta proposta è quella di attrarre capitali privati attraverso schemi di finanziamento dedicati. L’unico elemento di pragmatica interessate è il riferimento alla creazione di joint venture e accordi di cooperazione per il trasferimento tecnologico tra imprese UE e non-UE, un modello che richiama esplicitamente l’esperienza cinese, pur senza mai nominarla direttamente. La retorica del Rapporto è infatti apertamente orientata in senso geopolitico contro la Cina, come dimostra l’invito a collaborare esclusivamente con “regioni like-minded”, escludendo di fatto qualsiasi forma di partenariato strutturato con paesi non allineati alla visione euro-atlantica. La proposta di investire in paesi terzi per espandere il mercato delle tecnologie europee viene presentata come un’opportunità di cooperazione internazionale ma in realtà, dietro formule come “accordi di offtake” o “co-investimenti lungo la catena di fornitura”, si cela un’apertura alla delocalizzazione produttiva, dissimulando la scelta di non rafforzare una base industriale autonoma in Europa a favore di un modello dipendente dall’esternalizzazione e subordinato alle dinamiche del mercato globale.

Il tema delle dipendenze strategiche viene affrontato dal Rapporto evidenziando come la forte dipendenza dell’Europa da forniture estere, dalle materie prime critiche (CRMs) alle tecnologie avanzate, costituisca un fattore di vulnerabilità in un contesto globale segnato da tensioni geopolitiche, dato che gran parte di queste importazioni proviene da un numero ristretto di paesi non strategicamente allineati. Ne risulta un doppio vincolo: il rischio di interruzioni nelle forniture e l’impossibilità di un reale disaccoppiamento dal commercio internazionale nel medio termine, tanto che il Rapporto riconosce che le imprese puntano più alla diversificazione che al reshoring. Per Gaddi l’analisi pecca di una distinzione cruciale, infatti non separa chiaramente le materie prime non disponibili in Europa, che dovranno inevitabilmente essere importate, dai componenti intermedi, la cui produzione, in quanto industriale, potrebbe invece essere localizzata nel continente. Il limite politico-economico emerge con chiarezza quando il Rapporto ammette che ridurre le dipendenze richiederà massicci investimenti nella lavorazione, nel riciclo e nello stoccaggio però segnala anche che ciò comporterebbe il passaggio da fornitori “efficienti” (cioè a basso costo) a soluzioni più costose, con “pressioni sull’economia”, difendendo di fatto i margini di profitto delle imprese europee garantiti dalle catene globali a basso costo. Per affrontare questa dipendenza il Rapporto propone una politica economica estera verso i paesi ricchi di risorse, combinando accordi commerciali e investimenti diretti esteri finalizzati alla sicurezza delle forniture. Ancora una volta l’approccio resta vago e privo di obiettivi industriali chiari, ignorando la possibilità di rafforzare la capacità produttiva interna nelle fasi a valle. Questa impostazione risulta profondamente contraddittoria se confrontata con la dichiarata volontà di “imparare dagli errori dell’iper-globalizzazione”, dato che il Rapporto stesso riconosce che la delocalizzazione ha contribuito in modo decisivo al declino della quota salari sul reddito nazionale, un calo di sei punti percentuali tra il 1980 e il 2008, il più marcato dagli anni ‘50, eppure continua a proporre un modello che perpetua le stesse logiche.

La sezione sul finanziamento degli investimenti è una delle più deboli e vaghe del Rapporto. Si afferma che, per digitalizzare, decarbonizzare e rafforzare il settore della difesa, l’Europa dovrà aumentare gli investimenti di circa 5 punti di Pil, ovvero circa 800 miliardi di euro all’anno. Pur riconoscendo che il settore privato non sarà in grado di sostenere da solo questo sforzo, il Rapporto concepisce il settore pubblico come un mero facilitatore finanziario, senza attribuirgli un ruolo nella pianificazione, nella gestione o nella partecipazione diretta alla proprietà. Le tre linee d’azione proposte sono rivelatrici. In primo luogo, l’attrazione di Investimenti Diretti Esteri (IDE), soprattutto dalla Cina e concentrati nei paesi dell’Europa centro-orientale, una tendenza considerata positivamente nonostante le sue implicazioni negative, come la corsa al ribasso nelle tutele sociali, l’accentuazione degli squilibri territoriali e il rafforzamento della dipendenza da capitali esterni. In secondo luogo, il rafforzamento del mercato azionario europeo per attrarre IPO e finanziare start-up, con il rischio evidente di una nuova spinta verso la finanziarizzazione, anche del sistema pensionistico. In terzo luogo, il coinvolgimento della Banca Europea per gli Investimenti (BEI), il cui ruolo verrebbe ampliato nei co-investimenti, ma rimanendo subordinata alla logica di mercato e finalizzata a garantire i margini di profitto degli investitori privati. A fronte di queste proposte, resta completamente irrisolto il nodo di fondo: come finanziare questi investimenti dato il rafforzamento del Patto di Stabilità e Crescita? La risposta implicita del Rapporto è “mobilitare il risparmio privato”, il che, combinato ai vincoli fiscali, implica una riduzione dei servizi pubblici (sanità, istruzione, pensioni) e un trasferimento dell’onere sui cittadini, costretti a rivolgersi al mercato privato per i bisogni essenziali. In sostanza, si delinea una massiccia conversione di debito pubblico in debito privato, a danno della classe lavoratrice e delle fasce più fragili. In questo modello il risparmio delle famiglie viene canalizzato verso il mercato finanziario, gestito da fondi comuni e società di gestione secondo logiche puramente speculative, senza alcun controllo democratico. Rilevante è anche la questione della localizzazione degli investimenti futuri. Il Rapporto ammette che i “beni pubblici europei chiave” potrebbero concentrarsi in alcuni Stati membri, senza benefici diretti per tutti i paesi che li finanziano, e la soluzione proposta è semplicemente accettare questa disparità.

Per quanto riguarda il rafforzamento della governance, il Rapporto propone una revisione dei Trattati per riorientare l’azione dell’UE, accelerarne i processi decisionali e semplificarne le regole. Nello specifico, si propone l’istituzione di un Quadro di coordinamento della competitività, con Piani d’azione per ogni priorità strategica e un ruolo centrale affidato alla Commissione, coinvolgendo direttamente le imprese nella definizione delle politiche. Parallelamente si prevede la riforma del Quadro Finanziario Pluriennale con un “pilastro della competitività” per finanziare beni pubblici europei. Per aumentare l’efficienza, si propone l’estensione del voto a maggioranza qualificata in Consiglio, un uso più ampio dell’art. 122 TFUE per le emergenze e il rafforzamento del principio di sussidiarietà. Per la semplificazione normativa si suggerisce una riduzione degli obblighi di rendicontazione e l’introduzione di un test di competitività per tutte le nuove normative. Queste proposte, però, sollevano serie criticità. La spinta verso la deregolamentazione rischia di tradursi in un alleggerimento dei vincoli sociali e ambientali mentre la centralizzazione decisionale potrebbe portare a una governance più tecnocratica e meno attenta alla coesione sociale e territoriale, subordinando tutto all’obiettivo della competitività.

Il Rapporto Draghi, pur affermando la necessità di una nuova stagione di grandi investimenti in Europa, delinea obiettivi industriali astratti senza definire alcun traguardo sociale né indicare strumenti pubblici concreti per raggiungerli. Affidare una transizione di questa portata alla pianificazione delle grandi multinazionali, abituate a orientare le proprie strategie esclusivamente al profitto, significa rischiare la creazione di nuovi oligopoli privati che gestirebbero in posizione dominante le scelte strategiche. È invece indispensabile che sia il settore pubblico a guidare la transizione, determinando un’allocazione equilibrata degli investimenti e promuovendo la coesione industriale e occupazionale europea. Il Rapporto omette di affrontare i nodi strutturali della liberalizzazione e finanziarizzazione di settori chiave come l’energia e le telecomunicazioni e non offre risposte credibili sul finanziamento poiché senza una profonda revisione delle regole fiscali e l’abbandono dell’austerità, la spesa pubblica resterà compressa. Il modello che si profila è pericoloso con Stati membri che concentrano risorse a livello europeo lasciando scoperti i bilanci nazionali per servizi essenziali, costringendo i cittadini a rivolgersi al mercato finanziario per i diritti fondamentali. Ciò di cui l’Europa ha realmente bisogno, e che il Rapporto non propone, è l’opposto, ovvero un forte settore industriale pubblico, costruito su una strategia di pianificazione democratica, investimenti pubblici mirati e un’industria strutturata lungo tutte le fasi della produzione, in grado di creare lavoro stabile e di qualità e di orientarsi all’obiettivo della piena occupazione e non alla rendita finanziaria.

3. L’analisi del Clean Industrial Deal

Il Clean Deal della Commissione Europea, presentato come uno dei primi atti in piena continuità con il Rapporto Draghi, parte dalla condivisione di un’analisi fondamentale sulle potenzialità e le criticità del continente: l’Europa è descritta come un grande mercato dotato di una forza lavoro qualificata e di un quadro giuridico stabile e prevedibile, un ambiente potenzialmente ideale per le attività imprenditoriali che però deve affrontare criticità emergenti come le tensioni geopolitiche, il rallentamento della crescita, il prezzo dell’energia elevato e una crescente competizione tecnologica. La decarbonizzazione viene presentata come un potente motore di crescita, a patto che venga supportata da idonee politiche industriali, commerciali e della concorrenza. La strategia individua due settori prioritari su cui puntare. Da un lato le industrie ad alta intensità energetica, le quali necessitano di un sostegno multifattoriale che spazia dalla decarbonizzazione all’elettrificazione, dalla riduzione dei costi energetici alla tutela dalla concorrenza sleale, fino alla semplificazione normativa, dall’altro le clean-tech, considerate il vero fulcro della futura competitività europea, essenziali per promuovere la trasformazione industriale, l’economia circolare e la decarbonizzazione stessa.

La Commissione, in una visione che l’analisi di Gaddi riconosce come corretta nella direzione, afferma che per costruire un ecosistema industriale solido è necessario superare la logica dei compartimenti stagni e adottare una visione d’insieme sull’intera catena del valore. Per “catena del valore” non si intende una filiera industriale completa e verticalmente integrata, bensì un insieme di sei generici “fattori abilitanti”: energia a prezzi accessibili, mercati guida, accesso ai finanziamenti, economia circolare e materie prime, mercati globali e partnership internazionali e, infine, sviluppo delle competenze. A questi dovranno essere affiancati dei fattori abilitanti orizzontali, ritenuti indispensabili per la competitività, come la riduzione della burocrazia, il pieno sfruttamento della scala del Mercato Unico, anche tramite l’inclusione graduale di nuovi paesi, il rafforzamento della digitalizzazione, l’accelerazione dell’innovazione, la promozione di posti di lavoro di qualità e un migliore coordinamento tra politiche nazionali e comunitarie. Si tratta, tuttavia, di dichiarazioni generiche che suonano più come slogan che come proposte operative concrete. Il concetto di fondo, che resta immutato, è che il settore pubblico deve limitarsi a offrire i giusti incentivi di mercato affinché le imprese private trovino conveniente investire nella decarbonizzazione, attraverso sgravi fiscali, finanziamenti, semplificazioni normative, sostegni alla domanda e la promozione di tecnologie abilitanti come Industria 4.0, digitalizzazione, IA, energia a basso costo e infrastrutture.

Entrando nel dettaglio del primo fattore abilitante, i prezzi dell’energia, il documento affronta il problema dell’elevato costo dell’energia per le imprese operanti in Europa, una minaccia alla loro competitività. Oltre all’eccessiva dipendenza dalle fonti fossili, vengono richiamate ragioni geopolitiche come la guerra russo-ucraina e la cosiddetta weaponisation, l’uso militare della fornitura di gas da parte della Federazione Russa. Vengono evidenziate inefficienze strutturali del sistema elettrico, come le interconnessioni inadeguate, le reti elettriche obsolete, la limitata integrazione e flessibilità, proponendo che la digitalizzazione e l’utilizzo dell’IA nelle smart-grid, insieme al monitoraggio tramite tecnologie IoT, possano garantire una maggiore integrazione del sistema, il supporto alla gestione in tempo reale, il miglioramento della flessibilità e la manutenzione predittiva delle infrastrutture critiche. Gaddi osserva che, sebbene queste considerazioni siano vere, esse dovrebbero logicamente implicare la necessità di massicci investimenti pubblici in reti e infrastrutture energetiche e l’internalizzazione della produzione industriale di questi impianti e relative componenti, due aspetti che, a suo avviso, non vengono affrontati adeguatamente.

Per ridurre i costi energetici la Commissione propone l’accelerazione dell’elettrificazione e la transizione verso un’energia pulita prodotta a livello domestico, puntando sul completamento del mercato interno dell’energia attraverso le interconnessioni. Su questo punto Gaddi osserva che le interconnessioni sono certamente necessarie ma come infrastruttura per trasportare e distribuire energia, non come mezzo per completare il mercato interno. Le decisioni operative sono demandate al Piano d’azione per un’energia a prezzi accessibili che contiene tre iniziative: abbassare i costi energetici, accelerare il dispiegamento delle energie pulite e dell’elettrificazione con reti e interconnessioni completate, oltre ad assicurare il buon funzionamento del mercato del gas. L’abbassamento dei costi dell’energia elettrica avverrà, secondo la Commissione, con la piena implementazione delle riforme previste dall’Electricity Market Design e con la promozione dell’efficienza energetica, facendo leva su strumenti come i Power Purchase Agreements (PPAs) e i Contracts for Difference (CfDs). I CfDs, si ricorda, azzerano il rischio d’impresa e garantiscono un certo margine di profitto mentre i PPAs sono accordi privati e volontari tra imprese. La stessa Commissione, però, ammette che sono pochi gli Stati membri che dispongono di mercati per questo tipo di contratti e gli acquirenti sono quasi esclusivamente grandi imprese. Si rendono quindi necessari strumenti di garanzia pubblica per consentirne l’utilizzo anche da parte di soggetti con minore capacità finanziaria, come le PMI, come previsto dal Regolamento 2024/1747.

La Commissione suggerisce che gli Stati membri facilitino l’aggregazione della domanda di PPAs e, in un passaggio che Gaddi trova poco chiaro, sembra suggerire che gli stessi Stati potrebbero proporsi come acquirenti di energia attraverso PPAs per poi rivenderla a condizioni stabili ai consumatori finali. Questo solleva una questione fondamentale: perché gli Stati non producono direttamente l’energia invece di acquistare da privati e rivendere? In questo modo, si osserva, potrebbero garantire prezzi certi e accessibili a cittadini e imprese, sottraendosi alla logica della speculazione. Per sostenere questo sistema la Commissione sta avviando insieme alla BEI un programma pilota da 500 milioni di euro, dove la BEI svolgerà il ruolo di soggetto garante, riducendo il rischio per gli acquirenti. Il modello, viene fatto notare, resta invariato: lo Stato non interviene direttamente nella produzione o nella regolazione dei prezzi ma si limita a garantire le operazioni del mercato privato. Parallelamente è annunciato entro il 2025 l’Industrial Decarbonisation Accelerator Act, volto a semplificare le procedure per le reti transeuropee dell’energia (TEN-E), promuovere una pianificazione integrata e transfrontaliera, accelerare la realizzazione di interconnettori, snellire i processi autorizzativi, migliorare la pianificazione della rete di distribuzione, incentivare digitalizzazione e innovazione e dare maggiore visibilità e priorità alle esigenze della manifattura energetica europea. La Commissione afferma che queste misure, attentamente calibrate per “minimizzare le distorsioni della concorrenza”, consentiranno ai grandi consumatori industriali di garantirsi forniture stabili. Sempre entro il 2025 sarà pubblicata una guida per promuovere i contratti flessibili che mirano ad adattare i consumi industriali all’andamento dei prezzi, una logica che però, si critica, presuppone un livello di prevedibilità che spesso non esiste in un mercato volatile e senza meccanismi pubblici di regolazione.

Per quanto riguarda il gas, la Commissione individua nel gas naturale il principale fattore nella formazione del prezzo dell’elettricità e dichiara di voler sostenere gli Stati membri nell’elaborazione di misure per fronteggiare i picchi. Per Gaddi non si affrontano le vere cause dell’impennata dei prezzi: la finanziarizzazione del mercato e i comportamenti speculativi degli operatori. Fintanto che resterà in vigore il meccanismo del prezzo marginale, il quale lega il prezzo dell’elettricità a quello della fonte fossile più costosa, i prezzi del gas continueranno a determinare quelli dell’energia elettrica. La Commissione si limita ad affermare che il prezzo del gas importato ha un impatto diretto, come se fosse un dato oggettivo e inevitabile, e non il risultato di una precisa scelta politica, e invoca mercati che “funzionino correttamente” attraverso una “piena sorveglianza normativa”. In realtà, si osserva, il problema è strutturale poiché il mercato finanziarizzato del gas è stato progettato per funzionare così e per immaginarne un funzionamento diverso bisognerebbe riscriverne da zero le regole.

Passando al secondo fattore abilitante, il mercato guida, la Commissione riconosce che per costruire un business case per i prodotti decarbonizzati sono necessari interventi concreti dal lato della domanda, in quanto le imprese investono solo se hanno la certezza che esista un mercato per i loro prodotti, un vincolo strutturale del capitalismo. Tra gli strumenti proposti vi è il ricorso agli appalti pubblici che dovrebbero inserire criteri di sostenibilità non basati esclusivamente sul prezzo, così come requisiti di contenuto locale. Gaddi condivide in pieno il principio di criteri non basati sul solo prezzo ma sottolinea che questi devono essere definiti in modo chiaro e vincolante, includendo criteri sociali, come obiettivi occupazionali, condizioni di lavoro dignitose, applicazione dei CCNL, divieto di esternalizzazioni e subappalti, e criteri ambientali, ad esempio quantificando i costi ambientali legati alla distanza del fornitore. Per quanto riguarda il contenuto locale, si osserva che andrebbe stabilita una percentuale significativa, riferita non solo al prodotto finale ma anche agli input intermedi e ai macchinari, e che deve essere chiarito il significato di “locale” poiché se si riferisce all’intera UE si rischia di lasciare irrisolti i forti squilibri tra i Paesi membri. Anche per gli appalti privati la Commissione valuterà l’inserimento di requisiti non legati al solo prezzo per prodotti come l’acciaio a basse emissioni, le energie rinnovabili e le batterie sostenibili.

La Commissione stabilisce un chiaro legame tra gli incentivi alla decarbonizzazione e gli impegni dell’industria in materia di economia circolare, puntando sull’etichettatura dei prodotti come strumento per accelerare la transizione e consentire ai produttori di ottenere un “premio verde”. In questa direzione l’Industrial Decarbonisation Accelerator Act prevede lo sviluppo di un sistema di etichettatura volontaria dell’intensità di carbonio, a partire dal settore dell’acciaio, per accedere a incentivi mirati. Gaddi evidenzia i limiti strutturali del sistema degli incentivi: 1. lascia completamente alle imprese la decisione su quali investimenti realizzare, 2. se gli incentivi sono troppo bassi le imprese non investono, 3. se sono troppo elevati gli investimenti sono finanziati quasi interamente con fondi pubblici, sollevando la questione del perché lo Stato non utilizzi direttamente quelle risorse per entrare nel capitale delle imprese e orientarne le scelte strategiche.

Un ruolo centrale nella strategia viene attribuito all’idrogeno, in particolare per i settori hard-to-abate. A luglio 2025 la Commissione ha introdotto una metodologia per le emissioni dell’idrogeno a basso contenuto di carbonio e ha lanciato l’Hydrogen Mechanism, con l’obiettivo di mobilitare e mettere in relazione produttori e utilizzatori, ricorrendo a strumenti di finanziamento e riduzione del rischio. Anche in questo caso il sistema si affida interamente al mercato, sostenendolo con consistenti risorse pubbliche senza alcuna forma di condizionalità mentre secondo Gaddi la produzione e l’impiego dell’idrogeno dovrebbero essere oggetto di una pianificazione pubblica che definisca settori, quantità e capacità produttiva.

Il terzo fattore abilitante, l’accesso ai finanziamenti, si divide in investimenti pubblici e privati. Per realizzare la transizione la Commissione stima la necessità di aumentare gli investimenti annuali di circa 480 miliardi di euro, proponendo la stessa soluzione del Rapporto Draghi: la mobilitazione del risparmio privato attraverso una regolazione stabile, incentivi pubblici e la futura strategia sull’Unione dei Risparmi e degli Investimenti. Il nuovo Fondo per la Competitività promette sostegno all’industria innovativa e un accesso semplificato ai finanziamenti per progetti con “valore aggiunto europeo”, un concetto che la Commissione non specifica, lasciando margini di discrezionalità. Il Clean Industrial Deal dovrebbe mobilitare oltre 100 miliardi di euro ma non viene chiarita la provenienza di queste risorse, chi realizzerà gli investimenti e a quali settori saranno destinati. Viene citato il Fondo per l’Innovazione, considerato efficace nonostante la mancanza di valutazioni sugli impatti occupazionali e industriali (si conosce il numero di progetti finanziati, 213, e l’ammontare erogato, 12,14 miliardi di euro, ma non gli effetti concreti). Per aumentarne l’impatto, verranno destinati ulteriori fondi a progetti che hanno ricevuto il “Marchio di Sovranità” nell’ambito della piattaforma STEP per le tecnologie strategiche. STEP, tuttavia, ha una dotazione finanziaria estremamente limitata (1,5 miliardi di euro) e adotta il modello del sostegno incondizionato alle imprese private senza una fase preliminare di pianificazione pubblica.

La Commissione proporrà inoltre l’istituzione di una Banca per la Decarbonizzazione Industriale, con un obiettivo di finanziamento di 100 miliardi di euro, le cui risorse proverranno dal Fondo per l’Innovazione, dai proventi aggiuntivi dell’ETS e da altri strumenti. Questa banca sarà inserita nel Fondo per la Competitività, una scelta terminologica criticata in quanto sarebbe più appropriato parlare di un Fondo per la Transizione Industriale. Nel corso del 2025 sarà lanciata un’asta da 1 miliardo di euro per sostenere la decarbonizzazione di processi industriali chiave, un meccanismo che, si osserva, affida i progetti all’iniziativa privata senza una chiara definizione pubblica delle priorità. La Commissione afferma che la Banca garantirà una selezione competitiva e una distribuzione equa del supporto tra gli Stati membri ma Gaddi contesta questo punto: una procedura competitiva non garantisce una distribuzione geografica equa, non essendo previste quote minime o massime per Paese, e si rischia di finanziare progetti i cui benefici industriali, come la produzione delle tecnologie utilizzate, si realizzano altrove.

Per quanto riguarda gli investimenti privati, lo strumento principale è il Fondo InvestEU che avrebbe già mobilitato oltre 280 miliardi di euro, sebbene non sia chiaro cosa significhi esattamente “mobilitato” e con quali risultati concreti. InvestEU non eroga direttamente investimenti però fornisce una garanzia dell’Unione di 26 miliardi di euro per finanziamenti concessi da soggetti terzi come la BEI o le banche di sviluppo nazionali. La Commissione intende modificare il Regolamento per aumentarne la portata e facilitare il sostegno agli investimenti in equity, con l’obiettivo di attivare 50 miliardi di euro in settori strategici, senza però alcuna garanzia che i progetti vengano effettivamente presentati. Le garanzie saranno utilizzate anche per la Clean Tech Guarantee Facility e gli Stati membri sono invitati a trasferire rapidamente le proprie risorse verso InvestEU. Infine la Commissione collaborerà con la BEI e investitori privati per sviluppare il programma TechEU, con l’obiettivo di colmare il divario di finanziamento per l’innovazione dirompente in settori come IA, clean-tech e semiconduttori.

Viene toccato anche il tema delle fusioni e delle politiche fiscali. La Commissione afferma che le linee guida in materia di fusioni e acquisizioni saranno revisionate, tenendo conto del loro impatto sull’accessibilità dei prodotti sostenibili e sull’innovazione. Gaddi vi legge l’obiettivo implicito, già menzionato nel Rapporto Draghi, di favorire la nascita di grandi oligopoli privati, giustificandola con la competitività e l’efficienza. Sul piano fiscale si propone da un lato di non favorire più i combustibili fossili e dall’altro di introdurre misure per ridurre il periodo di ammortamento delle immobilizzazioni relative alle tecnologie pulite. Quest’ultima, viene fatto notare, è di fatto l’ennesimo beneficio fiscale per le imprese, in quanto riducendo il periodo di ammortamento aumenta il valore annuo delle quote ammortizzabili, abbassa il reddito imponibile e, di conseguenza, diminuisce l’imposizione fiscale sulle imprese stesse.

La Commissione Europea delinea una prospettiva di crescita notevole per il settore del recupero delle materie prime critiche, con proiezioni che indicano un’espansione del mercato dagli attuali 31 miliardi di euro a 100 miliardi entro il 2030, un traguardo che si stima porterà alla creazione di circa 500.000 nuovi posti di lavoro. Questo slancio sarà sostenuto dall’attuazione prioritaria del Critical Raw Materials Act che includerà operazioni fondamentali come la mappatura dei progetti volti a diversificare gli approvvigionamenti lungo l’intera catena del valore e il supporto all’accesso a finanziamenti sia pubblici che privati. Sulla scia dell’esperienza maturata con AggregateEU, la Commissione intende istituire una piattaforma dedicata all’aggregazione della domanda e un meccanismo di matchmaking tra domanda e offerta di queste materie prime strategiche per poi fare un ulteriore passo avanti con l’istituzione di un vero e proprio Centro europeo per le CRM, il quale, in collaborazione con gli Stati membri, si occuperà di condurre acquisti congiunti per conto delle imprese interessate.

Questa impostazione viene criticata da Gaddi in quanto ritenuta troppo focalizzata sulla sola questione dell’approvvigionamento, tralasciando la definizione di una vera e propria strategia industriale di investimento finalizzata a costruire sul territorio europeo una struttura industriale capace di processare le materie prime. Sebbene sia evidente che, in assenza di risorse nel sottosuolo, le materie prime debbano essere importate, si sostiene con forza che ciò non esclude la possibilità e anzi la necessità di sviluppare una capacità industriale interna dedicata alle fasi cruciali di raffinazione e trasformazione, senza le quali queste attività verrebbero realizzate altrove, lasciando scoperta una fase fondamentale delle filiere produttive europee. Questa fase di lavorazione viene paragonata, per importanza industriale e strategica, a settori fondamentali come la produzione dell’acciaio o la chimica di base, in quanto fornisce input essenziali a un vasto e diversificato insieme di filiere manifatturiere.

Nel contesto della circolarità, la Commissione prevede inoltre l’adozione del Circular Economy Act nel 2026, un atto che, basandosi sul funzionamento del Mercato Unico, dovrebbe garantire la libera circolazione dei prodotti circolari, delle materie prime secondarie e dei rifiuti, con l’obiettivo dichiarato di stimolare la domanda di prodotti circolari e, al contempo, contribuire a ridurre i costi di stoccaggio. Per rafforzare ulteriormente la circolarità e la capacità di riciclaggio all’interno dell’Unione, incluso il raggiungimento dell’ambizioso obiettivo del 25% di materie prime critiche riciclate, la Commissione valuterà l’introduzione di misure aggiuntive per rendere il riciclo dei rifiuti più attraente economicamente rispetto alla loro esportazione. Tra queste misure viene ipotizzata anche l’introduzione di tasse all’esportazione, i cui proventi potrebbero essere destinati a finanziare investimenti nella capacità di riciclaggio. A questa proposta segue una critica netta di Gaddi che giudica tale impostazione completamente sbagliata, sostenendo invece che le esportazioni di rifiuti e materiali riciclabili dovrebbero essere semplicemente vietate, senza ricorrere a incentivi economici. La Commissione propone parallelamente la creazione di Trans-Regional Circularity Hubs, con l’obiettivo di promuovere la specializzazione e lo sviluppo di economie di scala nel settore del riciclo, ma si osserva che questi obiettivi non potranno essere raggiunti senza una pianificazione pubblica coerente che coinvolga le ex municipalizzate pubbliche, le quali dispongono di esperienza e competenze consolidate nella gestione dei rifiuti, e che sviluppi una capacità produttiva adeguata per realizzare gli impianti di trattamento, garantendo al contempo una localizzazione equilibrata di tali infrastrutture tra gli Stati membri.

Sul fronte dei mercati globali e delle partnership internazionali, la Commissione non manifesta alcun ripensamento sul modello attuale di commercio internazionale, anzi, lo rilancia apertamente, ritenendo fondamentale che l’UE continui a firmare, concludere e dare piena attuazione agli accordi di libero scambio esistenti e porti avanti i negoziati per nuovi accordi. Esprime tuttavia preoccupazione per la concorrenza sleale a cui sono esposte le industrie europee, dovuta in particolare alla sovra-capacità produttiva presente in altri Paesi a basso costo. Questa “concorrenza sleale” viene però criticata in quanto non ritenuta un fenomeno naturale, bensì il risultato di precise scelte politiche e industriali, come le delocalizzazioni e gli investimenti diretti effettuati dalle stesse multinazionali occidentali e la possibilità di importare merci a basso costo garantita da trattati come il TFUE e da vari accordi commerciali. Poiché gli accordi esistenti sono ritenuti insufficienti, la Commissione propone la creazione di nuovi Clean Trade and Investment Partnerships che includerebbero non solo la cooperazione con i Paesi ricchi di CRM ma anche investimenti per sviluppare catene del valore strategiche. Non viene chiarito se questi investimenti riguarderanno attività estrattive o industriali, né dove saranno localizzati, lasciando intendere uno scambio di accesso alle risorse in cambio di investimenti industriali nei Paesi partner, una strategia vista come finalizzata a sostenere le imprese europee assicurando input a basso costo e sfruttando manodopera meno protetta più che una genuina cooperazione, configurandosi piuttosto come una nuova forma di subordinazione economica. In quest’ottica si inserisce anche il programma Global Gateway, destinato a finanziare investimenti europei in Paesi terzi con un duplice obiettivo reale: assicurare il controllo europeo sulle risorse strategiche e sfruttare il basso costo del lavoro.

Per quanto riguarda lo sviluppo delle competenze, la Commissione propone il concetto di “Unione delle competenze” come strategia per colmare il divario tra domanda e offerta di lavoro nei settori industriali chiave ma questa proposta viene giudicata come un ennesimo slogan vuoto, costruito attorno a un insieme di strumenti frammentati e inefficaci come Erasmus+, il Patto per le Competenze o le accademie industriali che non introducono nulla di nuovo e che delegano tutto al mercato e all’iniziativa privata, evitando qualsiasi intervento pubblico strutturale e lasciando irrisolti i divari territoriali e settoriali. Anche la cosiddetta “roadmap per posti di lavoro di qualità”, che promette di garantire diritti, sicurezza e transizioni giuste, viene criticata per la sua mancanza di misure concrete, affidando tutto al dialogo sociale e alla responsabilità dei singoli Stati in un quadro privo di vincoli e risorse certe.

Nell’analisi dell’industria europea di fronte alla transizione ecologica, il Net Zero Industry Act stima che il mercato globale delle principali tecnologie per l’energia pulita raggiungerà i 650 miliardi di dollari annui entro il 2030, con investimenti globali che nel 2023 hanno toccato i 200 miliardi di dollari, registrando un incremento del 70% rispetto al 2022. Per raggiungere la neutralità climatica entro il 2050, si stima che saranno necessari 640 miliardi di dollari di nuovi investimenti entro il 2030. La Commissione valuta che gli investimenti necessari per aumentare la capacità produttiva di tecnologie pulite nell’UE varieranno, entro il 2030, tra 52 e 119 miliardi di euro a seconda degli scenari considerati che spaziano dal mantenimento della quota di produzione interna invariata rispetto al 2022 alla copertura del 100% del fabbisogno per tutte e cinque le tecnologie chiave. L’UE appare distante dall’obiettivo di autonomia industriale, con il NZIA che si impegna a sviluppare una capacità produttiva sufficiente a coprire “almeno il 40%” del fabbisogno annuo.

L’analisi dello stato attuale della produzione di clean technologies nell’UE, basata sui dati Eurostat e Comtrade, rivela criticità significative e una crescente dipendenza dalle importazioni. Per il fotovoltaico la situazione è particolarmente grave: nel 2023 la produzione domestica ha coperto solo l’8% degli impieghi dell’UE, con importazioni superiori a 20,6 miliardi di euro e un disavanzo commerciale esploso fino a -11.048.330.487 dollari nel 2024. La capacità produttiva dell’UE è marginale in ogni fase della filiera, con quote globali insignificanti (0,3% per le celle e 0,9% per i moduli) rispetto alla dominanza cinese e solo una piccolissima frazione dei nuovi impianti in costruzione a livello globale si trova in UE. Per l’eolico, nonostante la produzione interna superi ancora la domanda e l’UE mantenga la leadership nel segmento offshore, si registra un calo significativo nella percentuale di copertura degli impieghi tra il 2018 e il 2023, e la crescita delle importazioni (+117%) ha superato di gran lunga quella della produzione domestica (+14%). Per le pompe di calore si osserva una progressiva e preoccupante riduzione dell’autosufficienza, passata da una copertura totale degli impieghi a valori compresi tra l’83% e il 90%, con il saldo commerciale che è addirittura passato da attivo a negativo (-124.784.950 dollari nel 2024). Inoltre la produzione è fortemente concentrata in pochi paesi, come Svezia e Germania.

Anche per gli apparati e componenti per la produzione e distribuzione di energia elettrica, fondamentali per il potenziamento delle reti, la situazione si sta deteriorando. Sebbene la produzione complessiva superi ancora gli impieghi, il rapporto è diminuito di 18 punti percentuali tra il 2018 e il 2023. Il calo è stato particolarmente marcato per i trasformatori, componenti chiave, con un calo di 34 punti percentuali, mentre le importazioni sono cresciute del 124% a fronte di un aumento della produzione UE solo del 42,7%. La situazione è critica anche per inverter, raddrizzatori e convertitori statici, dove la produzione domestica non copre più interamente gli impieghi e il rapporto produzione/impieghi è crollato, ad esempio, per gli inverter di piccola capacità, dal 103,2% del 2018 al 46,1% del 2022.

Infine per le batterie e accumulatori, essenziali per la mobilità elettrica e lo stoccaggio, la produzione europea risulta insufficiente a coprire gli impieghi interni. Le batterie agli ioni di litio mostrano un grave deficit produttivo, con importazioni UE che hanno superato i 26,5 miliardi di euro nel 2023. Le proiezioni per i veicoli elettrici e per le batterie stazionarie indicano una crescita esponenziale della domanda ma in assenza di una pianificazione strutturata da parte dell’UE e di investimenti certi, i fabbisogni produttivi restano altamente incerti, rischiando di tradursi in una dipendenza ancora maggiore dalle importazioni e mettendo a rischio la resilienza delle filiere produttive europee nella transizione ecologica.

4. Cosa si muove per l’industria?

L’European Steel and Metals Action Plan, presentato dalla Commissione Europea il 19 marzo 2025 nell’ambito del più ampio Clean Industrial Act, identifica la siderurgia, insieme all’automotive, come un settore prioritario che richiede un intervento rapido. Il piano della Commissione si articola formalmente in sei pilastri chiave che vanno dal garantire energia pulita, abbondante e a costi accessibili, al prevenire il carbon leakage, ovvero la delocalizzazione delle emissioni, per poi tutelare e potenziare la capacità produttiva europea, accelerare la transizione verso l’economia circolare, difendere i posti di lavoro industriali di alta qualità e infine ridurre i rischi attraverso la creazione di mercati guida e il sostegno agli investimenti. Prima di addentrarsi nell’analisi di questi punti, Gaddi ritiene indispensabile una premessa cruciale per contestualizzare la portata della sfida e dimostrare l’inadeguatezza dell’approccio comunitario, evidenziando come la mappa globale della produzione siderurgica abbia subito un ribaltamento epocale negli ultimi vent’anni. Quella che all’alba del nuovo millennio era una bilancia relativamente equilibrata si è trasformata in uno scenario di schiacciante predominio asiatico mentre l’Europa, un tempo protagonista assoluta, ha visto la sua quota produttiva contrarsi progressivamente fino a diventare marginale. I dati della World Steel Association del 2023 sono illuminanti e mostrano una performance ben diversa rispetto al 2001: i paesi UE contribuiscono oggi appena per il 6,7% alla produzione mondiale di acciaio grezzo mentre gli altri stati europei non superano complessivamente il 2,3%, un crollo verticale se paragonato al 24,2% detenuto dal continente nel 2001. A questo declino europeo fa da contraltare l’ascesa inarrestabile dell’Asia, dove la Cina da sola rappresenta il 53,9% della produzione globale, avendo triplicato la sua quota rispetto al 2001 quando si attestava al 17,6%. Se a questo si sommano le percentuali dell’India al 4,9%, del Giappone al 6,7% e del resto dell’Asia al 7,8%, si arriva a uno schiacciante 73,3% della produzione mondiale, spostando definitivamente il baricentro strategico del settore verso Oriente.

Nel periodo 2000-2023 il volume complessivo di acciaio grezzo prodotto in Europa è diminuito di 58,4 milioni di tonnellate, passando da 185,4 a 127 milioni di tonnellate, con una contrazione del 31,5% che ha ridotto la quota europea dal 21,87% a poco più del 6,7%. I cali sono stati generalizzati e drammatici: il Regno Unito ha subito il calo più marcato con un -63%, la Francia e il Belgio hanno visto dimezzarsi la loro produzione mentre Germania, Italia e Spagna hanno registrato riduzioni comprese tra il 20% e il 30%. Fanno eccezione solo l’Austria e la Slovacchia, uniche nazioni europee ad aver aumentato i propri volumi produttivi, seppur in misura contenuta. Analizzando i primi 25 produttori mondiali, si conferma una netta polarizzazione tra il declino strutturale delle economie occidentali, con crolli in Europa, USA e Canada, e la crescita sostenuta dell’Asia, ad eccezione del Giappone, e di paesi come Iran, Arabia Saudita, Turchia ed Egitto. Questo ribaltamento degli equilibri produttivi ha avuto pesanti ricadute occupazionali in Europa. Tra il 2000 e il 2022, in un campione di paesi chiave come Germania, Italia, Spagna, Francia, Belgio e Austria, il settore ha registrato una perdita netta di 98.423 posti di lavoro, con un calo del 14,73%, e di 243,8 milioni di ore lavorate, con un calo del 21,95%. Parallelamente si è assistito a un apparente paradosso: mentre il numero di addetti calava, la profittabilità aziendale cresceva in modo significativo, con i costi del personale aumentati del 36,81% ma il Margine Operativo Lordo (Mol) più che raddoppiato con un incremento del 101,84% e un costo per ora lavorata salito a 43,13 euro (+75,29%) contro un Mol per ora lavorata schizzato a 35,52 euro (+158,61%).

Questa marcata crescita dei profitti non si è tradotta in un proporzionale aumento degli investimenti, anzi, c’è stato un dimezzamento della quota degli investimenti sul valore della produzione. Nonostante il valore della produzione sia più che raddoppiato, passando da 210,597 miliardi di euro nel 2000 a 495,237 miliardi nel 2022, gli investimenti lordi in beni materiali sono cresciuti in misura molto minore, da 11,127 a 14,883 miliardi di euro, con il rapporto percentuale che è crollato dal 5,28% al 3,01%. A fronte di questo declino produttivo interno, l’Europa ha compensato con un massiccio ricorso alle importazioni. Le importazioni di prodotti siderurgici sono cresciute del 267,98% in valore ma nascondono una radicale riconfigurazione geografica, con il crollo delle importazioni da Russia e Stati Uniti e la crescita esponenziale della quota cinese, passata dal 5,97% del 2000 al 16,46% del 2023, accompagnata da aumenti significativi da Turchia, India, Corea del Sud e da un vero e proprio boom del Vietnam, la cui quota è passata dallo 0,05% al 2,37%. Un ulteriore elemento di criticità strutturale è la redistribuzione geografica degli impianti produttivi. L’Europa occupa solo il quarto posto per capacità produttiva installata di acciaio grezzo con l’8,38%, superata persino dall’Africa, mentre l’Asia Pacifica domina incontrastata con il 55,92%, seguita dal Medio Oriente con il 18,42%. La situazione appare ancor più critica per gli impianti DRI, la tecnologia a minore impatto ambientale, dove oltre il 64% della capacità mondiale è concentrato tra Asia e Medio Oriente, contro il 10,94% dell’Europa.

È su questo sfondo di dati incontrovertibili che Gaddi sviluppa la sua critica serrata all’Action Plan della Commissione, accusandola di aver sostanzialmente ignorato queste evidenze. La posizione marginale riservata alla decarbonizzazione riflette un approccio miope, non considerando che la trasformazione ambientale degli impianti non è un problema tra tanti ma la questione strategica per eccellenza, data l’indifferibile necessità di decarbonizzare e l’endemica carenza di investimenti. La Commissione riconosce espressamente che gli investimenti per la decarbonizzazione non sono profittevoli nel breve termine poiché i risparmi derivanti dai costi del carbonio sono ampiamente superati dai maggiori costi delle tecnologie pulite e dei vettori energetici sostenibili. In un sistema capitalistico, dove le decisioni dipendono dalla redditività attesa, ciò rende impossibile mobilitare le risorse necessarie, rendendo l’intervento pubblico, attraverso proprietà diretta e finanziamento, una scelta obbligata, opzione che la Commissione invece evita, insistendo su approcci marginali e volontari. Il caso del green premium è emblematico: nonostante si ammetta che i metalli a basso carbonio avranno costi superiori, la soluzione principale proposta è un sistema di etichettatura volontaria che si appoggia all’ETS e al CBAM, senza strumenti vincolanti o investimenti pubblici diretti. Allo stesso modo, l’annunciato sviluppo di una metodologia LCA e l’introduzione di criteri ambientali aggiuntivi seguono la stessa logica, affidando alla sensibilità dei consumatori una transizione che richiederebbe invece leadership pubblica.

La Commissione rilancia il concetto dei lead markets, in particolare negli appalti pubblici, dove sussidi e incentivi dovrebbero creare domanda per metalli a basse emissioni ma l’approccio resta non vincolante, basato su meccanismi volontari e incentivi, applicando criteri ambientali solo nel perimetro ristretto degli appalti e escludendo completamente i requisiti sociali come salari e condizioni di lavoro. Sul sostegno agli investimenti la Commissione rimane vaga, non specificando come attuarlo concretamente per gestire il cosiddetto “effetto forbice” dato dalla concomitanza di costi energetici più elevati e sovra-capacità globale, quest’ultima attribuita a “pratiche commerciali scorrette” e alla proprietà pubblica delle imprese in Cina che invece, come sottolinea Gaddi, garantisce proprio gli investimenti su larga scala. Anche sui costi energetici la Commissione non affronta le cause strutturali come liberalizzazione e finanziarizzazione, limitandosi a proporre l’applicazione della normativa sulle materie prime critiche. Le istituzioni europee sottolineano che i costi per la produzione di acciaio a basse emissioni generano elevati costi operativi, con stime del settore che richiedono 5,2 miliardi di euro l’anno in investimenti fino al 2030 per la sola siderurgia, 1,3 miliardi per l’alluminio fino al 2050 e 211,5 milioni per il rame, progetti che in condizioni di mercato non sono sostenibili e richiederebbero intervento pubblico. Sebbene la Commissione ricordi che tra il 2022 e il 2025 sono stati approvati 9 miliardi di euro in aiuti di Stato per 10 progetti, l’approccio rimane frammentario e subordinato alle regole di concorrenza.

Per quanto riguarda l’accesso all’energia, l’UE individua nell’elettrificazione diretta la soluzione migliore per alcuni processi e in metodi indiretti come l’idrogeno per altri, ma riconosce che ciò aumenterà la quota dei costi energetici. Per sostenere la transizione, l’Action Plan for Affordable Energy punta a ridurre i costi dell’elettricità rendendo le reti più efficienti, riducendo le imposte, facilitando i PPA e accelerando le autorizzazioni, proponendo anche aiuti di Stato basati su PPA, Contracts for Difference, ammortamenti accelerati per asset clean-tech e tariffe di rete favorevoli. Gaddi critica il fatto che questi siano essenzialmente aiuti pubblici che lasciano invariato il meccanismo di determinazione dei prezzi da parte delle imprese energetiche. Inoltre, la Commissione non fornisce dettagli cruciali sulle tecnologie specifiche per l’idrogeno da impiegare (grigio, blu o verde) né sulla loro distribuzione geografica, nonostante l’Ocse stimi la necessità di investimenti globali per 47 miliardi di dollari l’anno per 30 anni solo per mantenere la capacità attuale, con ulteriori 8-11 miliardi per le tecnologie legate all’idrogeno.

La Commissione denuncia le pratiche distorsive di paesi come la Cina e la sovra-capacità installata, proponendo di rafforzare gli strumenti di difesa commerciale e di introdurre una strategia anti-elusione per il CBAM per prevenire il carbon leakage, il rischio di delocalizzazione o lo shuffling delle esportazioni. Gaddi propone invece, come strategia più semplice ed efficace, l’introduzione di requisiti ambientali e sociali vincolanti per tutte le importazioni. La situazione è preoccupante anche per l’alluminio, dove circa il 50% della capacità produttiva europea è ferma dal 2021. Per contrastare l’aggiramento delle misure, la Commissione considera l’introduzione di una “melted and poured rule”. Invece che demonizzare i produttori “non di mercato”, Gaddi suggerisce di concentrarsi sulla regolazione del commercio e sul contrasto al dumping sociale. La Commissione, al contrario, dichiara che rafforzerà il monitoraggio dei flussi commerciali e aprirà indagini basate su una minaccia di pregiudizio, estendendo il monitoraggio anche ad altri metalli e perfezionando gli strumenti di difesa commerciale, menzionando anche le sanzioni alla Russia, il cui impatto reale non viene però analizzato.

Sul tema della circolarità, la Commissione ne sottolinea l’importanza per la decarbonizzazione, riconoscendo che il riciclo può far risparmiare fino al 95% di energia per l’alluminio e all’80% per l’acciaio ma ammette che i volumi di rottame disponibili stanno diminuendo a causa della ridotta domanda europea e dell’aumento delle esportazioni verso paesi terzi che pagano prezzi più elevati. Negli ultimi quattro anni l’UE ha esportato in media quasi 20 milioni di tonnellate di rottame. Invece di adottare misure concrete come un divieto di esportazione, la Commissione dichiara che l’obiettivo sarà stimolare la domanda interna, migliorando selezione e trattamento del rottame per impieghi di alta qualità, definendo target di riciclo per settori chiave e valutando requisiti di contenuto per la riciclabilità, coinvolgendo gli stakeholder in un approccio volontario. La Commissione ribadisce la necessità di “livellare il campo di gioco” e, pur considerando l’introduzione di dazi all’esportazione o fees per prevenire lo “scrap leakage”, antepone ancora una volta la profittabilità delle iniziative industriali a criteri sociali e ambientali, vincolando la strategia agli interessi privati.

La parte finale dedicata alla difesa dei posti di lavoro di qualità è giudicata disarmante. La Commissione si limita a dichiarare essenziale il sostegno alla legislazione sui diritti dei lavoratori e al dialogo sociale, proponendo politiche attive del mercato del lavoro come il reskilling, il placement e il sostegno all’imprenditorialità, oltre a modificare il Fondo di adeguamento alla globalizzazione per supportare le aziende in ristrutturazione e a utilizzare l’European Fair Transition Observatory per monitorare gli impatti occupazionali. Questi interventi, sebbene necessari, sono considerati da Gaddi totalmente insufficienti e poco incisivi rispetto alla portata epocale della transizione industriale in atto, concludendo che l’intero Action Plan rappresenta una precisa scelta di politica industriale che privilegia gli interessi corporativi esistenti rispetto alle necessità sociali, ambientali e strategiche dell’Europa.

La situazione del settore automobilistico europeo è altrettanto drammatica e caratterizzata da un declino profondo e strutturale. Nel 2024 l’Unione Europea e il Regno Unito hanno prodotto complessivamente oltre 12,5 milioni di automobili, una cifra che, seppur rilevante in assoluto, rappresenta solo il 18,5% della produzione mondiale. Questo dato diventa ancor più allarmante se confrontato con l’anno 2000, quando la produzione europea ammontava a 19 milioni di unità, pari al 46% del totale globale. Il confronto evidenzia una perdita secca del 34,1% in termini di volumi e, ancor più significativa, una riduzione della quota di mercato mondiale di oltre 27 punti percentuali. A questo crollo generale si accompagna un radicale riassetto geografico della produzione all’interno dei confini europei. I paesi storici dell’Europa occidentale hanno subito cali devastanti. L’Italia, in particolare, è il caso più eclatante con un crollo del -78,22%, passando da 1.422.284 automobili prodotte nel 2000 a sole 309.758 nel 2024, seguita dalla Francia (-68,39%, da 2.879.810 a 910.243) e dal Regno Unito (-52,50%, da 1.641.317 a 779.584). Anche la Germania, seppur rimanendo il produttore più grande in volume, ha registrato una contrazione del -20,71%. Si è assistito, contemporaneamente, al boom produttivo dei paesi dell’Europa orientale, entrati nel frattempo nell’UE. La Repubblica Ceca è passata da 428.223 a 1.452.881 unità (+239,28%), l’Ungheria da 134.029 a 437.045 (+226,08%), la Slovacchia da 181.333 a 993.000 (+447,61%) e la Romania, da un volume modesto di 64.181 unità, è arrivata a 560.102, segnando un incremento stratosferico del +772,69%. Unica eccezione in questa area è la Polonia che ha visto un calo del -59,43%. Questo spostamento d’asse è ulteriormente accentuato dall’esplosione produttiva di paesi limitrofi come la Turchia, passata da quasi 300.000 auto a quasi un milione, e il Marocco, che da 17.000 unità è arrivato a oltre mezzo milione. La posizione dell’Italia è definita da Gaddi particolarmente critica non solo per l’entità del calo ma perché è stata superata in termini di volumi da nazioni come Cechia, Slovacchia, Romania e Ungheria che con una popolazione complessiva di circa 45 milioni di abitanti (14 in meno dell’Italia) hanno prodotto nel 2024 un totale di quasi 3,5 milioni di automobili, oltre undici volte la produzione italiana. A completare il quadro della crisi italiana, il saldo commerciale della componentistica nel 2024, sebbene mostri un attivo complessivo di 8,13 miliardi di dollari, viene interpretata da Gaddi come il contraltare del forte disavanzo in automobili finite. Di fronte alla scomparsa di una significativa produzione domestica di veicoli, il settore della componentistica si è infatti riorientato verso l’esportazione, diventando strutturalmente dipendente dalle filiere estere. La crisi investe anche i principali costruttori che attraversano gravi difficoltà e stanno adottando misure drastiche. In Germania Volkswagen ha annunciato il taglio di 35.000 posti di lavoro mentre in Italia il 61,3% dei lavoratori di Stellantis risulta coinvolto in strumenti di sostegno al reddito, a cui si aggiungono oltre 5.000 uscite facilitate dal 2023. I dati di bilancio 2024 di Stellantis confermano l’entità del calo occupazionale. A livello globale gli addetti sono diminuiti di 50.636 unità (-16,94%), con l’Europa che ha subito il taglio più consistente in termini assoluti, 32.035 posti in meno (-20,24%), un processo che è tutt’altro che concluso. In un contesto così critico Gaddi esprime una forte delusione per l’Industrial Action Plan presentato dalla Commissione Europea, giudicandolo un documento privo di reali strumenti operativi e di una visione strategica adeguata all’emergenza. Il Piano, articolato in cinque pilastri, viene analizzato criticamente in ogni sua parte. Sul primo pilastro, l’innovazione e digitalizzazione, la Commissione punta a conquistare la leadership nei veicoli autonomi e connessi, promuovendo la diffusione e rafforzando il mercato unico per questo tipo di veicoli. Questa scala di priorità viene giudicata completamente fuori fuoco in quanto il nodo centrale, in un settore che ha visto crollare produzione e occupazione, dovrebbe essere invece la rilocalizzazione e il rilancio della produzione di veicoli mass-market, accessibili alle classi popolari. La centralità assegnata ai contenuti tecnologici è ritenuta discutibile perché più un’auto è dotata di software avanzati e applicazioni per l’infotainment, maggiore sarà il suo costo, senza peraltro rispondere a reali esigenze collettive. Le proposte concrete della Commissione, come la creazione di una European Connected and Autonomous Vehicle Alliance finalizzata allo sviluppo di una piattaforma software comune, di un’architettura informatica di bordo e di una struttura pilota tra il 2026 e il 2027, sono giudicate da Gaddi interessanti sul piano tecnico ma destinate a restare dichiarazioni d’intenti in assenza di un reale supporto industriale, interventi pubblici diretti e pianificazione. Il sostegno previsto, tramite un Importante Progetto di Comune Interesse Europeo (IPCEI), è criticato perché si limiterebbe al finanziamento di attività di R&D, escludendo esplicitamente gli investimenti in capacità produttiva, riproponendo così ricette già adottate con scarsi risultati nei settori delle batterie e dei semiconduttori. La domanda cruciale che rimane senza risposta è dove verranno industrializzate le tecnologie sviluppate con risorse pubbliche: in Europa o all’estero, attraverso la delocalizzazione? Per quanto riguarda le batterie di nuova generazione, la Commissione riconosce che finora l’azione si è concentrata su progetti di ricerca finanziati dal programma Horizon ma il budget previsto per il 2025-2027 è di soli 350 milioni di euro, una cifra considerata del tutto insufficiente. Anche il fondo Horizon dedicato all’automotive, sostenuto da un miliardo di euro per lo stesso triennio, è ritenuto inadeguato, e l’approccio complessivo continua a subordinare le attività di R&D agli interessi delle imprese private, invece di promuovere una ricerca pubblica autonoma. L’ipotesi di una futura partnership nell’ambito di una Impresa Comune, collocata al di fuori del prossimo Quadro Finanziario Pluriennale, viene vista come un impegno a costo zero. Sulla mobilità pulita la Commissione rileva il rischio che i livelli emissivi superino i limiti imposti e intende introdurre una maggiore flessibilità, valutando la conformità agli standard di CO2 su base triennale (2025-2027). Per stimolare la domanda propone schemi di leasing sociale per gli utenti a basso reddito, una misura aspramente criticata da Gaddi perché elude i veri problemi strutturali: i prezzi elevatissimi praticati dalle case automobilistiche e il livello troppo basso dei salari. Per le flotte aziendali non è previsto alcun obbligo vincolante, lasciando le scelte di decarbonizzazione alla discrezionalità del mercato mentre una strategia credibile potrebbe partire proprio dalle flotte pubbliche per generare una domanda aggregata stabile. Il tema del trasporto pubblico è affrontato in modo puramente dichiarativo, riconoscendo i vincoli di bilancio delle autorità pubbliche ma senza prevedere interventi concreti, investimenti strutturali o una strategia industriale per realizzare fabbriche di autobus ecologici. A tal proposito, i dati sulla situazione italiana sono emblematici: tra il 2012 e il 2024 sono stati immatricolati quasi 38.000 autobus ma la produzione nazionale si è fermata a poco più di 4.500 unità, il che significa che le ingenti risorse del PNRR e del Fondo Mezzi destinate al trasporto pubblico locale non hanno generato occupazione in Italia. Le misure per le infrastrutture di ricarica, come i 570 milioni di euro della Alternative Fuels Infrastructure Facility per il biennio 2025-2026, sono giudicate da Gaddi estremamente deboli e marginali, inadeguate alla sfida industriale e prive di una visione produttiva. Il terzo pilastro, sulla competitività e resilienza della supply chain, si apre con l’affermazione condivisibile della necessità di una filiera domestica per le batterie ma l’obiettivo dichiarato di raggiungere un valore aggiunto europeo superiore al 50% entro il 2030 è modesto e ben lontano da una reale autonomia industriale. La Commissione, coerentemente con un’impostazione liberista, privilegia l’obiettivo di garantire la competitività di costo delle celle nel breve periodo anziché quello di installare capacità produttiva che implicherebbe una strategia industriale di lungo periodo. Il pacchetto Battery Booster, che fa riferimento al Fondo per l’Innovazione con uno stanziamento di 3 miliardi di euro, viene criticato da Gaddi perché questo fondo, come l’IPCEI, finanzia esclusivamente progetti dimostrativi e altamente innovativi, escludendo qualsiasi sostegno agli investimenti industriali in capacità produttiva, ripetendo l’errore strategico del Chips Act. La Commissione afferma che esaminerà la possibilità di un sostegno diretto alla produzione ma senza alcun impegno concreto, rinviando tutto a una futura valutazione. Accenna inoltre a partnership con produttori extra-UE che potrebbero beneficiare di fondi pubblici ma senza chiarire se si tratterà di joint venture con stabilimenti in Europa e senza stabilire vincoli stringenti di natura sociale, industriale o territoriale per l’utilizzo di tali risorse pubbliche. L’unico aspetto potenzialmente concreto, l’introduzione di requisiti di contenuto europeo per le celle e i componenti, viene a sua volta rinviato a una legislazione successiva e il suo contenuto appare annacquato, dovendo rispettare la libertà di circolazione delle merci. Per le materie prime la Commissione intende presentare un elenco di progetti strategici attraverso la Critical Raw Materials Act ma non è chiaro se questi riguarderanno finalmente la produzione industriale su larga scala o si limiteranno a impianti pilota. Appare poi preoccupante l’affermazione secondo cui, attraverso 14 partnership strategiche con paesi come il Cile e la Repubblica Democratica del Congo, la Commissione sta sostenendo investimenti congiunti lungo la catena del valore, poiché se questi investimenti si concentrassero nei paesi fornitori, la dipendenza esterna dell’UE non solo non verrebbe risolta ma si aggraverebbe. Le misure annunciate, come la creazione di un Centro europeo per le materie prime critiche nel 2026, sono ritenute insufficienti ad affrontare la questione industriale. Sulla circolarità la Commissione identifica correttamente la necessità di sviluppare la capacità di raccolta, riciclo e riutilizzo ma non fornisce risposte concrete su chi produrrà gli impianti necessari e chi effettuerà gli investimenti, limitandosi a misure frammentarie come il rafforzamento della cooperazione nel riciclaggio, la classificazione della black mass come rifiuto pericoloso e il divieto della sua esportazione verso paesi non-OCSE, evitando però la decisione cruciale di vietare completamente l’esportazione dei rifiuti al di fuori dell’UE. Infine, per promuovere la produzione europea di componenti, la Commissione subordina ogni futuro sostegno pubblico a criteri di resilienza e sostenibilità che saranno definiti entro il 2025 ma non chiarisce il contenuto di questi criteri, lasciando intendere che non saranno introdotte condizionalità sociali e ambientali stringenti che entrerebbero in conflitto con gli interessi delle imprese. Colpisce che la Commissione giustifichi un approccio strategico alla produzione di componenti mostrando una preoccupazione maggiore per le esigenze del settore della difesa che per il futuro dell’automotive civile. 

La Commissione Europea, pur riconoscendo la prospettiva di un’ulteriore perdita di posti di lavoro nel settore automobilistico nei prossimi anni, tende a ridurre questa problematica complessa a una mera questione di competenze, identificando come preoccupazioni centrali l’inadeguatezza delle competenze nell’industria, l’invecchiamento della forza lavoro e la difficoltà di attrarre nuovi profili professionali. Le sue proposte concrete si limitano a misure di carattere prevalentemente passivo e difensivo, come l’utilizzo di fondi europei per la formazione, l’istituzione di un Osservatorio sulla Transizione Equa per monitorare i dati occupazionali, l’estensione del Fondo Europeo di Adeguamento alla Globalizzazione (EGF) per fungere da ammortizzatore sociale e il ricorso ai fondi sociali per sostenere il ricollocamento dei lavoratori verso altri settori. Secondo Gaddi questo approccio evita di affrontare il nodo cruciale che è la necessità di un piano industriale europeo proattivo in grado di creare nuova occupazione qualificata non solo nel segmento finale dell’automotive ma lungo l’intera filiera industriale della mobilità.

Sul versante commerciale e della sicurezza economica, la Commissione conferma l’intenzione di proseguire con una strategia dogmaticamente legata ai meccanismi di mercato, nonostante decenni di delocalizzazioni, perseguendo accordi di libero scambio e partenariati internazionali per diversificare le fonti di approvvigionamento, in particolare per le Critical Raw Materials (CRM), e migliorare l’accesso ai mercati dei paesi terzi. I suoi strumenti includono la valutazione dell’efficacia delle norme esistenti, la promozione della convergenza normativa su standard internazionali, l’uso di accordi di mutuo riconoscimento e l’armonizzazione dei regolamenti tecnici globali dei veicoli. Nel tentativo di “livellare il terreno di gioco”, la Commissione vuole introdurre regole per concedere dazi agevolati e prevenire l’elusione delle misure di difesa commerciale, concentrandosi quasi esclusivamente sul contrasto alle auto cinesi, colpite da dazi compensativi in quanto ritenute frutto di sovvenzioni statali distorsive. Questa valutazione non viene applicata in modo coerente, ad esempio agli interventi pubblici negli Stati Uniti. La Commissione si dichiara pronta ad avviare nuove indagini e a negoziare impegni sui prezzi con i produttori cinesi, utilizzando anche il regolamento sulle sovvenzioni estere per investigare lungo l’intera catena del valore, comprese batterie e componenti. Per quanto riguarda gli Investimenti Diretti Esteri (IDE), la Commissione propone di stabilire condizioni, in collaborazione con Stati membri e imprese, come obblighi di joint venture con imprese europee, requisiti specifici per il management e accordi di trasferimento tecnologico, con un focus prioritario sulla filiera delle batterie, con l’obiettivo di garantire che generino valore aggiunto e posti di lavoro di qualità in Europa. Gaddi solleva dubbi sull’effettiva forza vincolante di queste condizioni e nota come l’unico punto affrontato con sistematicità nel Piano sia la semplificazione amministrativa.

La radice della crisi del settore automotive europeo viene identificata in una scelta strategica precisa: l’abbandono progressivo della produzione di veicoli mass-market destinati alla domanda interna a favore di veicoli premium e ad alta tecnologia per l’export. Questo up-market drift è stato accentuato dalle pressioni dell’industria automobilistica tedesca che ha influenzato la regolazione europea sulle emissioni di CO2, parametrandola al peso del veicolo, premiando così indirettamente i modelli più pesanti e costosi e penalizzando quelli più leggeri ed economici. Il risultato, tra il 2001 e il 2020, è stata una crescita parallela della potenza media dei motori e dei prezzi di vendita, con un conseguente calo dei volumi produttivi, specialmente in Europa occidentale. Questo modello ha garantito maggiori margini di profitto per le case automobilistiche ma ha fallito gli obiettivi ambientali e ha progressivamente escluso le classi popolari dal mercato dell’auto nuova. La soluzione proposta è un ribaltamento di questa tendenza: rilanciare la produzione di veicoli mass-market, meno pesanti, con cilindrate inferiori e prezzi accessibili, sostenuta da una regolazione profondamente riformata che, da incentivo indiretto, diventi una leva pubblica “imperativa” per guidare attivamente la ristrutturazione del settore verso un modello sostenibile, socialmente equo e industrialmente solido.

Un nodo critico ulteriore è la frammentazione e la ridotta dimensione delle imprese della componentistica che genera fragilità finanziaria e limita gli investimenti. Per superare questa debolezza strutturale Gaddi propone una politica industriale di filiera che promuova processi di aggregazione tra le imprese fornitrici, facilitati da un Fondo pubblico dedicato, gestito da soggetti come Invitalia o Cassa Depositi e Prestiti, adattando strumenti esistenti come il Fondo Consolidamento e Crescita. Le nuove entità produttive risultanti da queste fusioni dovrebbero essere le destinatarie privilegiate di finanziamenti pubblici mirati, come i Contratti di Sviluppo, integrati da meccanismi di contrattazione inclusiva di filiera, strumenti per la stabilizzazione e la formazione dei lavoratori e obiettivi espliciti di incremento occupazionale.

Il tema più trascurato dall’approccio comunitario, e invece centrale nell’analisi di Gaddi, è quello delle Politiche di Contenuto Locale (LCP). Queste misure, ampiamente utilizzate nel XX secolo e tornate in auge a livello globale dopo la crisi del 2007-2008 e ancor più dopo il COVID-19, sono strumenti non tariffari per sostenere l’industria domestica, richiedendo l’uso di una certa quota di input locali o legando gli incentivi alla localizzazione produttiva. I dati del Global Trade Alert citati nel rapporto Gerpisa evidenziano 4.334 interventi di LCP a livello globale tra il 2009 e il 2024, promossi da 57 paesi, con Stati Uniti (21%), India (9%) e Indonesia (9%) in testa. L’Unione Europea, invece, è il fanalino di coda con solo il 2% delle misure, rifugiandosi in un dogmatismo liberoscambista che le impedisce di adottare strumenti di protezione e promozione industriale simili, ritenendoli incompatibili con il principio della libera circolazione delle merci, sebbene questo si applichi solo al mercato interno e non ai rapporti con i paesi terzi.

L’inefficacia della risposta europea è esemplificata dai dazi compensativi imposti sui veicoli elettrici cinesi che si attestano tra il 18% e il 45%, considerati troppo bassi rispetto a quelli statunitensi (100%) o turchi (60%) e facilmente aggirabili attraverso stabilimenti di “assemblaggio cacciavite” (CKD/SKD) all’interno dell’UE, dove i componenti importati vengono semplicemente montati. Inoltre i dazi sulle componenti automobilistiche sono ancora più bassi (tra 1,3% e 4%), lasciando scoperta l’intera filiera. Il Piano Europeo per l’Automotive, pur menzionando strumenti commerciali difensivi e indagini, omette del tutto l’introduzione di requisiti di contenuto locale. Questa omissione non è casuale ma rispecchia la volontà degli OEM (i grandi costruttori) di approvvigionarsi globalmente per ridurre i costi, come dimostra l’obiettivo di Stellantis di rifornirsi per l’80% da paesi a basso costo entro il 2028. Il rapporto Gerpisa propone invece una strategia articolata: stabilire requisiti minimi di contenuto locale per l’accesso a incentivi e agevolazioni fiscali, definire criteri di contenuto locale per i veicoli e le componenti strategiche venduti in UE, subordinare ogni sostegno pubblico a precisi vincoli di localizzazione e prevedere misure selettive basate su criteri ambientali, sociali e occupazionali.

Un altro strumento potenziale, ma attualmente sottoutilizzato, sono le Regole di Origine (ROO) negli accordi di libero scambio dell’UE che determinano la “nazionalità” di un prodotto per accordare trattamenti preferenziali. Le soglie attuali (ad esempio, un contenuto locale del 55% per i veicoli nell’accordo con il Giappone) sono giudicate troppo basse per offrire una protezione efficace. Gaddi suggerisce di innalzarle significativamente, ad esempio al 75-80% per le parti e componenti, e di affiancarle a un sistema di eco-punteggio basato sull’impronta ambientale complessiva che incentivi sia la decarbonizzazione che la localizzazione della produzione, considerando anche l’impatto climatico del trasporto internazionale di merci. 

5. Arrivano i dazi

La politica commerciale dell’amministrazione Trump, inaugurata nel 2025, rappresenta una rottura radicale e sistematica con decenni di principi del libero scambio, muovendo da una diagnosi precisa dei mali dell’economia americana. Dice Lorenzo Esposito che il punto di partenza è il memorandum America First Trade Policy del 20 gennaio che assegna al Segretario al Commercio e al Rappresentante per il Commercio degli Stati Uniti un ampio mandato per ristrutturare la politica commerciale. I loro compiti, elencati in modo minuzioso, includono l’analisi delle cause del deficit commerciale, la proposta di misure correttive come tariffe aggiuntive e la creazione di un External Revenue Service per la riscossione dei dazi, l’individuazione di pratiche commerciali scorrette da parte di paesi terzi, il monitoraggio dei tassi di cambio per combattere le manipolazioni valutarie, la revisione di tutti gli accordi commerciali in vigore per verificarne l’aderenza al principio del reciproco vantaggio, l’identificazione di nuovi partner per negoziati bilaterali e un esame approfondito delle politiche antidumping, delle pratiche fiscali discriminatorie e dell’impatto degli accordi sugli appalti pubblici. Una sezione specifica è dedicata alla Cina, contro la quale si prevede esplicitamente la possibilità di nuove tariffe, soprattutto in settori strategici e in risposta a pratiche di elusione, unitamente a indagini su accordi commerciali, proprietà intellettuale e lo status delle Permanent Normal Trade Relations.

Questa impostazione teorica viene radicalizzata e resa operativa dal Reciprocal Trade and Tariffs Memorandum del 13 febbraio, la cui premessa è un vero e proprio manifesto politico. In esso si afferma che gli Stati Uniti, nonostante abbiano una delle economie più aperte e dazi medi tra i più bassi al mondo, sono stati vittima di un trattamento ingiusto da parte dei partner, sia amici che nemici. Questa “mancanza di reciprocità” è identificata come la causa primaria del deficit commerciale annuale ampio e persistente che, a sua volta, “minaccia la nostra sicurezza economica e nazionale, ha svuotato la nostra base industriale, ha ridotto la nostra competitività nazionale e ha reso la nostra nazione dipendente da altri Paesi”. Per porvi rimedio viene introdotto il Fair and Reciprocal Plan, un piano che mira a contrastare gli accordi non reciproci attraverso l’applicazione di misure equivalenti, come tariffe simmetriche, contro ogni partner. Le pratiche considerate non reciproche sono catalogate in modo estensivo: non solo i dazi dei partner sui prodotti USA ma anche imposte discriminatorie come l’IVA, barriere non tariffarie regolatorie e tecniche, ostacoli negli appalti pubblici e nel commercio digitale, politiche monetarie mercantiliste che causano svalutazioni competitive e ostacoli strutturali all’accesso ai mercati.

Sulla base dei rapporti richiesti dai memorandum, che Trump riceve il 1° aprile 2025, il giorno successivo viene emanato l’Ordine Esecutivo, significativamente intitolato “Regolamentazione delle importazioni con una tariffa reciproca per correggere le pratiche commerciali che contribuiscono a deficit commerciali annuali elevati e persistenti degli Stati Uniti nel commercio delle merci”. Questo atto, dichiarando un’emergenza nazionale a causa di un deficit di 1,2 trilioni di dollari nel 2024, stabilisce l’imposizione di un dazio supplementare ad valorem del 10% su tutte le importazioni da 83 paesi, elencati nel provvedimento e comprendenti tutti gli Stati membri dell’Unione Europea. La misura è concepita come progressiva, con aliquote destinate ad aumentare in modo differenziato: per l’Unione Europea era previsto un dazio del 20% mentre per India, Indonesia, Giappone e Vietnam erano stabilite aliquote ben più elevate, rispettivamente del 26%, 32%, 24% e 46%. L’Ordine Esecutivo fornisce una giustificazione dettagliata e un atto d’accusa contro il sistema commerciale globale del dopoguerra, sostenendo che i tre presupposti su cui era stato costruito, ovvero che il resto del mondo avrebbe seguito la liberalizzazione USA, che questa avrebbe portato a convergenza economica e aumento dei consumi e che gli USA non avrebbero accumulato deficit persistenti, si sono rivelati errati. Per suffragare la tesi della non reciprocità, vengono citati dati comparativi sui dazi medi nell’ambito del WTO. Gli USA hanno un’aliquota media del 3,3%, a fronte di quelle ben più alte di Brasile (11,2%), Cina (7,5%), UE (5%), India (17%) e Vietnam (9,4%). Vengono poi forniti esempi di dazi specifici. Sul settore automotive gli USA applicano il 2,5% contro il 10% dell’UE, il 70% della Cina e il 15% dell’India, su switch e router di rete gli USA hanno una tariffa zero contro il 10% dell’India, sull’etanolo il dazio USA è del 2,5% contro il 18% del Brasile e il 30% dell’Indonesia. A queste disparità tariffarie si aggiungono le barriere non tariffarie, definite come “norme inutilmente restrittive per il commercio” in ambito sanitario, ambientale, tecnico e digitale nonché il sostegno a imprese statali e politiche fiscali e monetarie distorsive. L’Ordine Esecutivo lega esplicitamente questi squilibri commerciali al declino della base manifatturiera americana, la cui quota sulla produzione globale è calata dal picco del 28,4% nel 2001 al 17,4% nel 2023, con una perdita di oltre 5 milioni di posti di lavoro nel settore tra il 1997 e il 2024, indebolendo settori avanzati come l’automotive, il navale, il farmaceutico, il tecnologico e le macchine utensili, minacciando la sicurezza delle catene di approvvigionamento e la stessa industria della difesa.

La pubblicazione dell’Ordine Esecutivo non ha portato all’entrata in vigore generalizzata e permanente dei dazi ma ha innescato una fase di negoziati estremamente dinamica. La reazione più significativa è stata quella della Cina, con cui si è assistito a un’escursione di dazi reciproci che hanno raggiunto il 145% sulle merci cinesi da parte degli USA e il 125% su quelle americane da parte della Cina, prima di una sospensione e di un abbassamento delle tariffe in seguito all’apertura di negoziati. L’obiettivo strategico di Trump, ispirato dalle teorie del suo consigliere economico capo Stephen Miran, non era infatti quello di un protezionismo autarchico ma di utilizzare i dazi come una clava negoziale per aprire, da una posizione di forza, trattative con i principali partner. La strategia Miran-Trump parte dalla premessa che la globalizzazione sia diventata un gioco a somma zero a danno dell’America e che il dollaro, sopravvalutato a causa del suo ruolo di valuta di riserva, abbia danneggiato la manifattura a vantaggio della finanza. L’idea era quindi di bilanciare l’aumento dei dazi con un riallineamento valutario coordinato (sul modello degli Accordi di Plaza del 1985 ma riconoscendo le maggiori difficoltà odierne, incluso l’elevato debito pubblico USA e la necessità di trattare con partner come la Cina che non sono “sudditi obbedienti”) per contenere l’inflazione e non danneggiare i consumatori. L’obiettivo ultimo, però, era geopolitico: creare un muro tariffario globale intorno alla Cina, costringendo gli alleati a scegliere tra l’applicazione di dazi sulle importazioni cinesi o subire dazi sulle proprie esportazioni verso gli USA, con l’intento finale di esercitare una pressione tale da costringere Pechino a riformare il suo sistema economico o rischiare “l’Armageddon finanziario”. L’Europa è vista come un alleato da “assoldare” nelle guerre commerciali americane. Nella realtà l’approccio è stato più shock che gradualità e le turbolenze finanziarie hanno costretto Trump a diverse giravolte, culminate nella sospensione dell’applicazione dei dazi il 9 aprile e nella loro successiva rimozione per tutti paesi eccetto la Cina, lasciando solo una tariffa generale del 10% che di fatto non altera le convenienze relative tra i partner.

Da questo processo negoziale è scaturito, il 27 luglio 2025, un accordo quadro tra l’Unione Europea e gli Stati Uniti, i cui contenuti sono stati resi noti con la dichiarazione congiunta del 21 agosto. Questo Framework Agreement è profondamente asimmetrico, dice Esposito. Da un lato l’UE si impegna a eliminare i dazi su tutti i prodotti industriali statunitensi e a concedere un accesso preferenziale per un’ampia gamma di prodotti agro-alimentari. Dall’altro gli USA applicheranno un’aliquota generale del 15%, riservando la tariffa MFN (la più favorevole) solo a risorse naturali non disponibili sul proprio territorio, aeromobili e loro parti, e farmaci generici con i relativi ingredienti. I dazi USA su prodotti farmaceutici, semiconduttori e legname sono fissati al 15% mentre quelli sul settore automotive verranno abbassati alla stessa aliquota solo nel momento in cui l’UE avrà effettivamente azzerato i propri dazi verso gli USA. L’accordo contiene anche impegni per l’UE che hanno profonde implicazioni economiche e geopolitiche. Il punto 5 obbliga l’UE ad acquisti ingenti e specifici negli USA: 750 miliardi di dollari in GNL, petrolio e prodotti energetici nucleari e almeno 40 miliardi di dollari in semiconduttori per l’intelligenza artificiale entro il 2028. Si tratta di una cifra sproporzionata, considerando che nel triennio 2022-2024 l’UE ha importato complessivamente dagli USA 284,2 miliardi di dollari di prodotti energetici. Il punto 6 prevede che le imprese europee investano ulteriori 600 miliardi di dollari in settori strategici americani, sempre entro il 2028. Il punto 7 impegna l’UE ad “aumentare in modo sostanziale gli acquisti di attrezzature militari e di difesa dagli Stati Uniti”. L’accordo prevede anche la riduzione delle barriere non tariffarie europee, l’introduzione di flessibilità nel meccanismo CBAM (Carbon Border Adjustment Mechanism), la neutralizzazione di possibili effetti delle direttive sulla due diligence di sostenibilità delle imprese e l’impegno a collaborare con gli USA sui requisiti di sicurezza tecnologica, allineandosi a essi per prevenire fughe di tecnologia verso destinazioni “che destano preoccupazione”. L’UE si impegna anche a cooperare con gli USA nell’imporre restrizioni all’esportazione di minerali critici da paesi terzi e a introdurre misure per contrastare le politiche “non di mercato” di paesi terzi, di fatto schierandosi nelle guerre commerciali americane e rinunciando a una strategia autonoma di cooperazione al di fuori dell’asse atlantico.

Gaddi analizza nello specifico l’impatto potenziale di questo nuovo scenario sulla metalmeccanica italiana, cuore dell’export nazionale. Nel 2024 il comparto metalmeccanico italiano (che comprende metallurgia, prodotti in metallo, macchinari e impianti, apparecchi elettrici ed elettronici, materiale rotabile, veicoli e componenti, aerei e navi) ha esportato a livello mondiale beni per 282,3 miliardi di dollari. Il settore dei macchinari e impianti è di gran lunga il più rilevante, con 116 miliardi di dollari e una quota del 41,09% sul totale, sebbene in trend decrescente rispetto al 44,84% del 2014. Seguono la metallurgia (52,7 miliardi, 18,66%), le apparecchiature elettriche ed elettroniche (45,8 miliardi, 16,22%) e i veicoli e componenti (47 miliardi, 16,65%). I saldi commerciali (export-import) globali del comparto evidenziano criticità strutturali. Il settore delle apparecchiature elettriche ed elettroniche presenta un disavanzo elevato e crescente (-3,8 miliardi nel 2024), la metallurgia è in disavanzo da tre anni (-1,1 miliardi nel 2024) e il settore veicoli registra un preoccupante disavanzo di 12,5 miliardi di dollari nel 2024. I principali contributi all’avanzo complessivo del comparto (53,4 miliardi nel 2024) provengono dai macchinari e impianti (avanzo di 60,6 miliardi) e dalle costruzioni navali (avanzo di 6,3 miliardi).

Focalizzando l’analisi sugli Stati Uniti, nel 2024 le esportazioni metalmeccaniche italiane verso questo mercato sono state di 29,67 miliardi di dollari, in calo rispetto ai 33,56 miliardi del 2023, e rappresentano in media circa il 10,5% del totale mondiale esportato dal comparto. Anche verso gli USA il settore dei macchinari e impianti domina, con 14,65 miliardi di dollari e una quota del 49,38% sul totale esportato verso gli USA. Seguono i veicoli e componenti (5,22 miliardi, 17,6%) e le navi (1,71 miliardi, 5,76%). Il dato cruciale è che il saldo commerciale con gli USA è costantemente e largamente positivo, raggiungendo i 23,3 miliardi di dollari nel 2024. Questo avanzo è trainato principalmente dai macchinari e impianti (11,7 miliardi) e, in misura significativa, dai veicoli e componenti (quasi 5 miliardi). È importante notare che settori che a livello globale sono in disavanzo, come la metallurgia e le apparecchiature elettriche/elettroniche, con gli USA registrano invece avanzi solidi (rispettivamente 1,8 e 2,6 miliardi di dollari nel 2024).

Un approfondimento sui principali prodotti esportati negli USA rivela le specifiche vulnerabilità e opportunità. Nel settore macchinari/impianti (capitolo HS 84), i prodotti di punta sono beni capitali: macchine per la lavorazione di metalli, legno, gomma e plastica (1,23 mld $), gru, macchine di movimentazione e movimento terra (1,87 mld $), apparecchi per il trattamento termico di materie (1,35 mld $), macchine per il riempimento, l’imbottigliamento e il packaging (1,14 mld $) e pompe per liquidi (1,13 mld $). Sono proprio questi beni, fondamentali per la ripresa della base produttiva americana, ad essere nel mirino dei dazi di Trump, con l’obiettivo esplicito di favorire una ripresa della produzione USA di tali beni di investimento. Data la concentrazione geografica di alcune di queste produzioni in cluster italiani, una contrazione delle esportazioni potrebbe colpire in maniera significativa tali distretti, a meno di un deciso rilancio della domanda interna europea. Per quanto riguarda il settore veicoli (capitolo HS 87), le esportazioni sono dominate da auto di alta cilindrata (oltre 3000 cc per 2 mld $ e tra 1500 e 3000 cc per 982 mln $) che comprendono marchi come Ferrari, Lamborghini e Maserati. Si tratta di beni di lusso il cui acquisto è dettato più da status symbol che da necessità di mobilità e per i quali è difficile immaginare che un dazio possa costituire un deterrente significativo per una clientela ad alto reddito. La componentistica automobilistica, invece, rappresenta una voce inferiore. Nonostante l’importanza del mercato statunitense, i dati confermano che per la metalmeccanica italiana l’Europa rimane il mercato di riferimento primario e insostituibile. Le esportazioni verso l’Europa Occidentale (119,5 miliardi di dollari) sono 3,7 volte superiori a quelle verso gli USA. La sfida per l’Italia, quindi, non è solo quella di gestire l’accesso al mercato USA in un’era di dazi negoziali ma anche e soprattutto di navigare le conseguenze di un accordo UE-USA che, in cambio di un accesso privilegiato, sembra aver sacrificato una significativa fetta di sovranità industriale e commerciale europea, impegnandola in acquisti e investimenti predeterminati e allineando la sua politica estera commerciale a quella di Washington, con ripercussioni a lungo termine sulla sua autonomia strategica e sulla sua capacità di definire un proprio modello di crescita e cooperazione internazionale.

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