Capitalismo monopolistico e surplus in Sweezy e Baran

Amos Cecchi in Paul M. Sweezy. Monopolio e finanza nella crisi del capitalismo afferma che la genesi del capolavoro di Paul Sweezy e Paul Baran Il capitale monopolistico. Saggio sulla struttura economica e sociale americana affonda le sue radici nella metà degli anni ‘50, quando Paul Sweezy iniziò a concepire l’opera e a lavorarci al fianco di Paul Baran a partire dal 1956. La lettera che Sweezy scrisse a Baran nel novembre del 1956 rappresenta il vero e proprio manifesto programmatico dell’opera, delineando con chiarezza l’impostazione teorica innovativa che i due autori intendevano perseguire. In quella corrispondenza Sweezy identificava una serie di problemi reali da affrontare, a partire dalla necessità di forgiare un’idea operativa e concretamente applicabile del concetto di surplus. Questo richiedeva di comprendere che il surplus non si riferisce in modo diretto alla distribuzione convenzionale dei dati sul reddito nazionale ma deve essere analizzato attraverso la lente marxiana del lavoro produttivo e improduttivo, da aggiornare criticamente alle condizioni del capitalismo moderno. La difficoltà e al contempo il paradosso da sciogliere era il riconoscimento che grandi quote di salari vengono in realtà pagate attingendo al surplus. Intere categorie di lavoratori, così come settori economici fondamentali come la pubblicità e la finanza, non generano surplus ma lo assorbono, un campo di indagine del tutto inesistente per l’economia keynesiana e neoclassica. Il programma di ricerca si articolava poi in una duplice analisi settoriale. In primis l’analisi del settore produttivo, ossia il luogo della generazione del surplus, che richiedeva uno studio del capitalista istituzionale, delle sue leggi di funzionamento, del suo rapporto con la struttura di classe, delle sue politiche dei prezzi e dei salari e dei vincoli tecnologici. Secondariamente era indispensabile un’analisi del settore improduttivo, dedicato all’assorbimento del surplus, che esaminasse le diverse categorie di “assorbitori”: i consumatori di lusso, le industrie improduttive, la spesa governativa e le complesse relazioni di trasferimento tra di essi. Un altro punto cruciale riguardava lo studio delle interazioni, piene di problemi inesplorati, tra il settore produttivo e quello improduttivo. Sweezy osservava come in un’economia capitalistica sottosviluppata salari e profitti nel settore improduttivo potessero essere determinati dal settore produttivo, molto più grande, ma come questa dinamica non fosse più valida in un’economia matura come quella statunitense dell’epoca, dove il settore improduttivo poteva benissimo superare in dimensioni quello produttivo. Da tutto ciò scaturiva la contraddizione cruciale del sistema: il suo “funzionare bene”, infatti, non solo non conduce a un progressivo miglioramento in termini di benessere, abolizione dello sfruttamento e liberazione della civiltà dalla feticizzazione della ricchezza ma anzi necessita di un crescente allontanamento da questi obiettivi, producendo di fatto un “degrado progressivo della civiltà”. Il capitale monopolistico fu un’opera che impegnò profondamente i due intellettuali, alimentando un fecondo e serrato dibattito tra di loro su importanti questioni teoriche. Questo dialogo non poté purtroppo concludersi a causa della morte improvvisa di Paul Baran nel marzo del 1964 che colse il progetto prima che una versione comune e definitiva dell’intero libro fosse stata messa a punto. Il compito, tanto ingrato quanto fondamentale, di strutturare il testo finale ricadde così su Sweezy che dovette basarsi esclusivamente sulle parti su cui il consenso teorico era già stato raggiunto. L’opera nasceva dalla necessità di fornire una spiegazione innovativa e organica del nuovo impianto del capitalismo, quello monopolistico dispiegato della società opulenta del dopoguerra, con tutte le sue contraddizioni. La stagnazione degli anni ‘30 appariva ormai un ricordo lontano di fronte alla realtà dinamica del capitalismo moderno, in un contesto in cui l’analisi di Marx rischiava di essere emarginata. È in piena età dell’oro capitalistica che Baran e Sweezy costruiscono la loro opera comune, affrontando con determinazione la problematica del capitalismo monopolistico, creando quello che, insieme a Il capitale finanziario di Hilferding, può essere considerato il testo principale per comprendere il capitalismo del XX secolo.

Il monopolio viene posto organicamente al centro della dinamica capitalistica, in un rapporto che è insieme di continuità e di insoddisfazione critica verso i loro lavori precedenti e verso il marxismo prevalente. Il capitale monopolistico si propone di comprendere la nuova fase socio-economica e di portare avanti una critica radicale dell’irrazionalità della “monopoly capital society”, mettendone in luce il potenziale di crisi latente. Se Marx aveva analizzato il capitalismo concorrenziale della sua epoca e autori come Hilferding e Lenin, su quella traccia, avevano studiato la fase successiva, ciò che Baran e Sweezy imputano a questi ultimi e ancor più al marxismo a loro contemporaneo è la mancata assunzione del monopolio come perno centrale e non più come semplice modificazione del sistema. Essi intendono superare in toto questo limite, affermando che l’analisi marxista del capitalismo riposava ormai anacronisticamente sul presupposto di un’economia concorrenziale. Per seguire l’esempio di Marx e il suo potente metodo analitico non ci si poteva accontentare di emendare o rattoppare il modello concorrenziale ma si doveva riconoscere che la concorrenza aveva cessato di essere la forma predominante dei rapporti di mercato in tutto il mondo capitalistico. L’unità economica tipica non era più la piccola impresa che produceva una frazione trascurabile per un mercato anonimo ma la grande impresa in grado di controllare prezzi, volumi di produzione e investimenti.

1. Società per azioni e tendenza del surplus ad aumentare

La società per azioni di grandi dimensioni “tipo” presenta tre caratteristiche fondamentali per Sweezy e Baran. Il controllo è saldamente nelle mani del management interno (il consiglio di amministrazione e i dirigenti esecutivi) la cui carriera e i cui interessi sono fusi con quelli della società. Questo management è un gruppo che si auto-perpetua, reclutando e formando i propri successori, con una responsabilità verso gli azionisti che è ormai puramente formale. Infine la società mira e tipicamente raggiunge l’indipendenza finanziaria attraverso la generazione interna di fondi, evitando così la soggezione al controllo bancario che caratterizzava il big business dei cinquant’anni precedenti.

Quest’ultimo punto è cruciale per comprendere un mutamento epocale: l’obsolescenza del  gruppo di interesse come unità fondamentale. Storicamente un gruppo di interesse era un insieme di corporation sotto il controllo comune di una banca d’investimento o di una grande famiglia, come i gruppi Morgan o Rockefeller. Due sviluppi hanno eroso questa struttura: il declino del bisogno di finanziamento esterno, sopperito dagli ingenti profitti monopolistici, e la frammentazione delle grandi fortune familiari tra molti eredi e fondazioni. Le grandi corporation hanno così conquistato una sostanziale indipendenza e le loro politiche si vanno ad orientare in base al proprio interesse specifico, non a quello di un gruppo esterno. L’esempio della disintegrazione del gruppo Rockefeller, dove le varie società Standard Oil hanno cominciato a competere aggressivamente tra loro e con estranei, perseguendo le opportunità di profitto più vantaggiose anche a scapito della solidarietà di gruppo, illustra vividamente questo passaggio. Il modello può quindi astrarre da residui di controllo esterno poiché non sono più essenziali al funzionamento del sistema. Le alleanze sono ora determinate dal calcolo razionale dei management interni. La domanda centrale diventa quindi: quale modello di comportamento possiamo aspettarci da queste corporation giganti, controllate dal management e finanziariamente indipendenti? La teoria economica tradizionale, aggrappandosi all’assunto dell’imprenditore individuale che massimizza il profitto, le ha in gran parte ignorate. All’estremo opposto, una scuola di pensiero, rappresentata da autori come Berle e Means o Carl Kaysen, ha teorizzato l’avvento della “società per azioni etica”. Secondo questa visione il management moderno, non essendo più l’agente della proprietà, si assume una responsabilità di ampio respiro verso azionisti, dipendenti, clienti e il pubblico interesse, subordinando la caccia al profitto a obiettivi qualitativamente più nobili.

Sweezy e Baran contestano radicalmente questa tesi sostenendo che, se accettata, condurrebbe all’abbandono di tutta la teoria economica tradizionale, lasciando domande fondamentali su prezzi, remunerazione dei fattori e allocazione delle risorse senza risposta. Contro questa visione viene citata l’evidenza empirica di James Earley, il quale, confutando la teoria dell’organizzazione di Herbert Simon, descrive il comportamento delle corporation di successo come una ricerca temporale sistematica del profitto più alto praticabile. Earley osserva una spinta costante verso il “meglio” e il “massimo”, alimentata dall’uso crescente di specialisti, economisti e tecniche manageriali sofisticate come la ricerca operativa. Gli obiettivi di alto reddito manageriale, buoni profitti, una forte posizione competitiva e la crescita sono visti come interdipendenti e sinergici. Profitti elevati e crescenti sono sia un fine che uno strumento essenziale per finanziare la crescita e l’innovazione, minimizzando al contempo la dipendenza da finanziamenti esterni. In questo sistema la massimizzazione del profitto emerge come un processo dinamico di revisione continua dei programmi, di selezione dei metodi e dei settori più redditizi e di innalzamento progressivo degli obiettivi nel tempo.

Per comprendere appieno questo comportamento è necessario esaminare la metamorfosi sociologica della figura del grande businessman. Il tycoon o robber baron era una figura esterna alla corporation che la dominava e la utilizzava come mezzo per l’arricchimento personale, spesso attraverso speculazioni e manipolazioni finanziarie. Il manager moderno, al contrario, è un uomo dell’organizzazione, un insider la cui lealtà è dedicata all’azienda stessa. Il manager è dedicato all’avanzamento della company, non all’arricchimento di pochi proprietari. 

Questi uomini della company non costituiscono affatto una nuova classe sociale, come talvolta si sostiene. Essi formano piuttosto il gradino più alto e attivo della classe proprietaria. Sono in larga misura reclutati dai ranghi medio-alti della società, sono essi stessi ricchi proprietari di azioni e, grazie alle loro posizioni strategiche, funzionano da protettori e portavoce di tutti i grandi proprietari. I loro interessi, ad esempio in materia di politica dei dividendi, sono allineati con quelli dei grandissimi azionisti: entrambi preferiscono un tasso di distribuzione degli utili basso, in modo che il risparmio venga effettuato dalla corporation, aumentando il valore del capitale, tassato come plusvalenza, piuttosto che attraverso dividendi soggetti a imposte più elevate. La pressione per dividendi più alti viene dagli azionisti piccoli, la cui lealtà è politicamente importante e viene mantenuta con una politica di dividendi moderata ma stabile.

La dedizione del manager all’azienda è il risultato di un sistema selettivo che premia coloro che fanno avanzare la posizione della corporation. In un mondo in cui prestigio, status e potere sono conferiti dalla statura della company e dalla propria posizione al suo interno, l’avanzamento personale e quello aziendale coincidono. L’accumulazione di profitti, pur non essendo il fine ultimo in senso astratto, è il mezzo necessario e unificante per raggiungere tutti gli obiettivi ultimi: forza finanziaria, crescita e dimensione. È il toccasana della razionalità aziendale, il criterio di successo in un sistema i cui membri sono giudicati in base alla performance cumulativa. Il carattere del sistema determina la psicologia dei suoi membri, non viceversa. Anche l’impulso all’accumulazione, che Marx identificava come la passione dominante all’alba del capitalismo, non è scomparso, si è semplicemente istituzionalizzato, trasferendosi dall’individuo alla corporation.

Anche le spese di rappresentanza del capitale (il consumo vistoso e la filantropia) si sono istituzionalizzate. I grandi manager vivono in modo relativamente riservato ma le corporation stesse si fanno carico di uno sfarzo importante attraverso sedi maestose, uffici lussuosi e jets aziendali. Allo stesso modo la filantropia è sempre più un’attività corporate, specialmente nel sostegno all’istruzione superiore e alla ricerca di base che, non a caso, serve anche l’interesse a lungo termine delle corporation per un bacino di conoscenze fondamentali. Questo è il nocciolo di verità nella teoria della società per azioni etica.

Le differenze cruciali tra la corporation e l’impresa individuale risiedono nel suo orizzonte temporale più lungo (essendo un’entità potenzialmente immortale) e nella sua natura di calcolatore più razionale, grazie alla specializzazione manageriale. Queste caratteristiche generano due comportamenti distintivi. Primo, evitare sistematicamente il rischio. La corporation, con le sue immense risorse, può permettersi di lasciare che le piccole imprese pionieristiche assorbano i rischi dell’innovazione per poi entrare in scena acquistandole o emulandole una volta che la strada è tracciata. Secondo, un atteggiamento di “vivi e lascia vivere” verso le altre grandi corporation. Questo comportamento, dettato dal calcolo razionale, dal riconoscimento della forza reciproca e da una rete di legami sociali ed economici, ha sostituito la concorrenza spietata dell’era dei tycoon, senza per questo aver ripristinato la concorrenza di mercato classica.

Queste società per azioni diventano, per Baran e Sweezy, la struttura portante del capitalismo monopolistico. Sebbene sia realistico e necessario, per una comprensione completa, includere nel quadro analitico anche il settore delle piccole imprese, che interagisce e in qualche modo influenza le strategie del big business, è fondamentale non cadere nell’errore di considerarli attori di pari importanza. La forza dominante, il vero e proprio motore primo del sistema, rimane infatti il big business organizzato nelle grandi corporation. Queste entità sono per loro natura massimizzatrici del profitto e accumulatrici di capitale, guidate da manager le cui sorti personali sono totalmente identificate con il successo o il fallimento delle aziende che dirigono. È la loro iniziativa pianificata e calcolata a mettere in moto l’economia, è il loro potere a tenerla in movimento e sono infine le loro politiche a generare le difficoltà e le crisi del sistema. Le piccole imprese, in questo contesto, si trovano in una posizione subordinata e reattiva. Esse sono all’estremità ricevente delle pressioni generate dalle grandi aziende che possono in parte canalizzare o modellare senza mai disporre del potere effettivo per contrastarle efficacemente, né tantomeno per esercitare un’iniziativa autonoma e indipendente. Pertanto in una teoria del capitalismo monopolistico la piccola impresa andrebbe correttamente considerata come un elemento dell’ambiente in cui il big business opera, piuttosto che un attore protagonista sulla scena economica.

All’interno del perimetro di una singola società per azioni vige un mondo di relazioni dirette, gerarchiche e burocratiche, dove la pianificazione consapevole è la regola, con direttive che fluiscono dall’alto verso il basso e responsabilità che salgono dal basso verso l’alto. Questa logica pianificatoria non si estende al sistema nel suo complesso. Nessuna corporation, per quanto enorme, produce più di una frazione minima del prodotto totale della società. Il capitalismo monopolistico, nel suo insieme, rimane un sistema non pianificato tanto quanto lo era il suo predecessore concorrenziale. Le grandi società per azioni intrattengono relazioni reciproche e con gli altri attori (consumatori, lavoro, piccole imprese) principalmente attraverso il meccanismo impersonale del mercato. Il modo in cui il sistema funziona continua dunque ad essere il risultato non intenzionale delle azioni auto-interessate delle miriadi di unità che lo compongono e poiché i rapporti di mercato sono essenzialmente rapporti di prezzo, lo studio del capitalismo monopolistico, analogamente a quello del capitalismo concorrenziale, non può che iniziare dall’analisi del funzionamento del meccanismo dei prezzi.

La differenza cruciale e ben nota tra i due sistemi è racchiusa nella proposizione per cui sotto il capitalismo concorrenziale la singola impresa è un price taker mentre sotto il capitalismo monopolistico la grande corporation è un price maker. Le implicazioni di questa differenza fondamentale per il funzionamento del sistema globale sono state investigate in modo sorprendentemente scarso nell’epoca in cui il libro venne scritto. Esisteva una letteratura sterminata, sia teorica che empirica, sulla determinazione del prezzo dei singoli prodotti o di industrie particolari ma mancava quasi del tutto un’analisi del funzionamento e delle conseguenze di un sistema di prezzi monopolistico. Questa frattura tra l’analisi delle parti del sistema, la microeconomia, e l’analisi del tutto, la macroeconomia, era assente nelle teorie classiche dell’economia concorrenziale che ambivano a dimostrare come un sistema di prezzi competitivo tendesse a un equilibrio armonioso. Anche quando la teoria si è arricchita di una componente dinamica con l’introduzione dell’accumulazione di capitale e successivamente con le teorie del ciclo economico, quest’ultime sono rimaste per lo più ancorate a un livello macroeconomico, senza mettere in discussione i presupposti sul funzionamento del sistema dei prezzi.

Questo solco si è approfondito con l’avvento delle teorie di Keynes, la cui opera rivoluzionaria a livello macroeconomico ha mostrato una sorprendente indifferenza verso le contemporanee critiche di Joan Robinson e Chamberlin alla teoria tradizionale dei prezzi. Keynes e i suoi seguaci hanno continuato a dare per scontato un sistema di prezzi concorrenziale. La ragione di questo divorzio persistente tra micro e macro teoria viene individuata nell’essenza apologetica dell’economia borghese. Una reintegrazione coerente dei due livelli, sostituendo un sistema di prezzi monopolistico a quello concorrenziale e analizzandone le implicazioni per l’intera economia, condurrebbe a conclusioni devastanti per le pretese di razionalità e benessere del capitalismo. Ci sono stati, tuttavia, pionieri in questa direzione, come Michal Kalecki, che integrò il grado di monopolio nei suoi modelli macroeconomici, e Josef Steindl, il cui lavoro ha gettato le basi per l’analisi di Sweezy e Baran.

Affermare che le grandi corporation sono price maker significa che hanno la facoltà di scegliere i prezzi ai quali vendere i loro prodotti, sebbene entro un margine determinato dai costi. La teoria del monopolio puro fornisce una soluzione semplice a questo problema di scelta. Tuttavia la tipica grande corporation non è un monopolista puro ma opera in condizioni di oligopolio, in cui più aziende producono beni che sono sostituti più o meno vicini. In questo scenario una variazione di prezzo di un’impresa ha un impatto immediato sulle rivali, innescando meccanismi di ritorsione che possono portare a una guerra dei prezzi dannosa per tutti. Situazioni di instabilità di questo tipo, seppur comuni nelle fasi iniziali del capitalismo monopolistico, sono un anatema per le grandi corporation contemporanee, la cui pianificazione razionale e la ricerca della sicurezza le spingono a bandire il taglio dei prezzi come arma legittima di competizione. Questo tabù, radicato in una lunga e amara esperienza, è il prerequisito fondamentale per operazioni ordinate e redditizie.

Una volta esclusa la concorrenza di prezzo, i venditori di un prodotto o di suoi sostituti hanno un interesse comune a stabilire prezzi che massimizzino i profitti del gruppo nel suo insieme. Possono competere ferocemente per la ripartizione di questi profitti ma nessuno desidera che la torta complessiva da spartire sia più piccola. È questo il dato decisivo che determina le politiche dei prezzi delle grandi corporation e che fa sì che la teoria del prezzo di monopolio, storicamente considerata un caso speciale, diventi la teoria generale del prezzo in un’economia di capitalismo monopolistico.

Le forme attraverso le quali questo contenuto si realizza possono variare. In alcuni contesti si arriva a cartelli espliciti. Negli Stati Uniti le leggi antitrust rendono necessaria una collusione più sottile che trova la sua espressione più compiuta nel fenomeno del price leadership, dove l’azienda dominante di un settore fissa il prezzo e le altre si adeguano. Esistono anche forme più “democratiche” di collusione tacita, in cui le aziende, senza un’impresa leader designata, si scambiano segnali: un’impresa annuncia una variazione di prezzo e, se le altre non la seguono, la prima ritira la modifica. Questo meccanismo consente al gruppo di convergere, per tentativi, verso il prezzo di massimo profitto.

Due importanti elementi arricchiscono l’analisi. Il primo è che i prezzi oligopolistici mostrano una rigidità asimmetrica. Essi sono più rigidi al ribasso che al rialzo, il che introduce un bias inflazionistico sistemico nel livello generale dei prezzi. La seconda è che la concorrenza di prezzo non è del tutto assente ma tende a manifestarsi principalmente nelle fasi iniziali di vita di un’industria, durante un periodo di assestamento in cui le aziende lottano per conquistare una posizione di mercato stabile. Una volta consolidatosi un ristretto gruppo di sopravvissuti, la competizione di prezzo viene abbandonata in favore della collusione tacita. La lotta per le quote di mercato si sposta su altri terreni come l’innovazione e la pubblicità, spiegando così perché l’economia delle grandi corporation, pur obbedendo alla logica del prezzo di monopolio, non si comporti in modo identico a un insieme di monopoli puri.

Esistono settori industriali cruciali che sfuggono alle dinamiche competitive standard. I monopoli naturali, come l’energia elettrica e le telecomunicazioni, e le industrie estrattive, come il petrolio e l’agricoltura, si collocano a poli opposti dello spettro: i primi, se lasciati a sé stessi, tenderebbero a generare profitti eccessivi grazie al loro potere di mercato e all’essenzialità dei loro prodotti, i secondi, a causa di una concorrenza spesso eccessiva, tendono alla cronica sottoredditività. Questa divergenza, se non controllata, minaccerebbe la stabilità del sistema nel suo complesso.

Lo Stato nel capitalismo monopolistico assolve a una funzione precisa e sistemica, ovvero agire come un comitato per la gestione degli affari comuni dell’intera classe borghese, utilizzando un concetto di Marx. Il suo intervento non è dettato da astratti principi di giustizia o efficienza ma dalla necessità di proteggere gli interessi collettivi del capitale. Profitti straordinari in settori chiave come l’energia non solo danneggiano i consumatori e le altre imprese (per cui tali servizi sono costi fondamentali) ma rischiano di innescare pericolose reazioni anti-monopolistiche. Allo stesso modo, profitti cronicamente bassi in un settore vasto e politicamente influente come l’agricoltura danneggiano una fetta significativa della classe proprietaria. Diventa quindi una responsabilità statale intervenire per portare prezzi e margini di profitto di queste industrie in linea con quelli prevalenti tra le grandi corporation.

Questa è la logica che sta alla base della fitta rete di schemi regolatori che caratterizza l’economia americana di allora. Le commissioni di regolamentazione dei servizi pubblici, il razionamento della produzione petrolifera (prorationing), i sussidi ai prezzi agricoli e i controlli sulle superfici coltivate. Sebbene ciascuno di questi interventi sia giustificato pubblicamente da finalità nobili (la protezione dei consumatori, la conservazione delle risorse, il salvataggio della piccola azienda agricola familiare) Sweezy e Baran sostengono con scetticismo che questi siano meri pretesti. Una vasta letteratura dimostrerebbe che le commissioni proteggono gli investitori, il razionamento petrolifero spreca risorse e l’agricoltura familiare declina più rapidamente che in qualsiasi altro periodo. Una volta compreso il principio fondamentale, cioè la funzione dello Stato è servire gli interessi del capitale monopolistico, questi esiti apparentemente paradossali diventano pienamente comprensibili.

L’analisi prosegue esaminando le forme di competizione che sostituiscono la concorrenza di prezzo. L’abbandono di quest’ultima non significa la fine della competizione ma la sua trasformazione in forme più sofisticate e agguerrite. Due aspetti di questa competizione non basata sul prezzo sono cruciali per la tendenza del surplus ad aumentare. Il primo è la dinamica della ripartizione del mercato. L’azienda con i costi più bassi e i profitti più alti detiene un vantaggio strategico nella lotta per le quote di mercato. Può permettersi di essere aggressiva, di investire in pubblicità, ricerca e sviluppo e di attrarre i talenti migliori. Un’impresa che rimane indietro nella corsa al taglio dei costi si trova progressivamente indebolita, vulnerabile all’acquisizione o costretta a uscire dal mercato. La “mano invisibile” della concorrenza è così sostituita dalla “disciplina dell’oligopolio” che costringe i manager a perseguire l’efficienza con non meno determinazione dei loro predecessori in un mercato concorrenziale.

Il secondo motore potente della riduzione dei costi è la natura della competizione nei settori dei beni strumentali. I produttori in questi settori per vendere i loro prodotti devono convincere i propri clienti (altre imprese) che la loro innovazione aumenterà i profitti di quest’ultime, tipicamente riducendo i costi di produzione. Si innesca così un processo cumulativo e autorinforzante in cui i produttori di beni capitali guadagnano di più aiutando le altre aziende a guadagnare di più, un meccanismo che spiega i rapidi avanzamenti nella produttività del lavoro.

La conclusione di questa analisi è che il capitalismo monopolistico possiede un potente e endemico impulso alla riduzione dei costi. Tuttavia, a differenza di quanto avverrebbe in un sistema concorrenziale, dove i frutti di una produttività aumentata si tradurrebbero in prezzi più bassi, la struttura monopolistica del mercato permette alle grandi corporation di appropriarsi direttamente di questi frutti sotto forma di margini di profitto più ampi. Ne deriva una legge fondamentale del capitalismo monopolistico: la tendenza del surplus economico, definito in prima approssimazione come l’aggregato dei profitti, a crescere sia in termini assoluti che come quota del prodotto nazionale. Questa legge sostituisce la classica legge marxiana della caduta tendenziale del saggio di profitto che presupponeva un quadro concorrenziale ormai superato.

Baran e Sweezy confutano quindi tre principali obiezioni a questa teoria. La prima, di matrice schumpeteriana, che vede nell’innovazione radicale una perenne bufera di distruzione creatrice in grado di erodere i profitti monopolistici. Essa viene giudicata obsoleta. Nell’attuale capitalismo monopolistico l’innovazione è per lo più assorbita e controllata dalle stesse grandi corporation che mantengono un comportamento “di mutuo rispetto” volto a non minacciare i rispettivi fondamenti e margini di profitto. La seconda obiezione, avanzata da Kaldor, sostiene che i dati statistici mostrano una quota dei profitti stabile o in calo e non in aumento. Questa obiezione viene respinta per due ragioni: una concettuale, in quanto identifica erroneamente i profitti registrati con il concetto più ampio di surplus. e una logica poiché un surplus che crescesse indefinitamente oltre le possibilità di assorbimento (attraverso investimenti e consumi dei capitalisti) non si manifesterebbe nelle statistiche come profitti più alti ma come crisi, disoccupazione e stagnazione, fenomeni questi effettivamente osservati, specialmente a partire dagli anni ’30. Infine, viene rigettata l’idea che i sindacati siano abbastanza potenti da catturare per i lavoratori gli incrementi di surplus. Le corporation monopolistiche, avendo il potere di amministrare i prezzi, sono generalmente in grado di trasferire gli aumenti dei costi salariali sui listini, proteggendo così i propri margini di profitto e neutralizzando di fatto la potenziale redistribuzione del reddito a favore del lavoro.

2. Come viene assorbito il surplus?

Se nel capitalismo monopolistico c’è una tendenza a generare un surplus in costante aumento, sia in termini assoluti che come percentuale della produzione totale, la questione cruciale da affrontare è come questo surplus venga assorbito o utilizzato dal sistema.

In linea teorica il problema dell’assorbimento potrebbe essere risolto sulla carta attraverso opportune assunzioni sul consumo della classe capitalista. Se si assume che i capitalisti consumino una parte del surplus, la quantità residua da investire si riduce di conseguenza. In uno scenario di piena occupazione e con un dato tasso di crescita della produttività è possibile immaginare un aumento del reddito totale (che comprende sia il consumo dei lavoratori che quello dei capitalisti) sufficientemente rapido da giustificare proprio l’investimento di quella parte di surplus non consumata. Questa elegante soluzione teorica si scontra con la realtà dei fatti. La domanda cruciale non è se una tale soluzione sia logicamente possibile ma se il consumo dei capitalisti possa nella pratica offrire una via d’uscita al problema.

La risposta a questo interrogativo è decisamente negativa. Il nocciolo della questione risiede nel rapporto dinamico tra il surplus totale e la frazione di esso che viene consumata. Siccome il surplus tende a crescere come quota del reddito totale, affinchè il consumo capitalistico funga da valvola di sfogo anche la porzione di surplus da loro consumata dovrebbe crescere proporzionalmente. L’evidenza empirica, tuttavia, dimostra il contrario. Il comportamento delle grandi corporation è caratterizzato da una politica dei dividendi rigida e prevedibile. La maggior parte di esse mantiene un obiettivo di dividendi (ad esempio, il 50% degli utili) che rimane sorprendentemente costante nel lungo periodo.

Questo obiettivo di lungo termine non si traduce in un adeguamento immediato quando i profitti aumentano. Se un’azienda, dopo un periodo di stabilità, vede i propri utili raddoppiare, non raddoppierà il dividendo in un solo anno ma lo aumenterà in modo graduale nell’arco di diversi esercizi. Un simile comportamento, profondamente radicato, implica che in un contesto di profitti in continua ascesa il tasso effettivo di distribuzione (payout rate) rimarrà costantemente al di sotto di quello target. Ne consegue che, sebbene il consumo dei capitalisti aumenti in termini assoluti, esso diminuisce come percentuale del surplus e, a fortiori, come percentuale del reddito totale. Questo argomento è ancor più valido se si considera che i capitalisti risparmiano una parte dei loro redditi da dividendi. È quindi evidente che da questo lato non può venire alcuna soluzione al problema dell’assorbimento del surplus.

L’analisi si sposta dunque necessariamente sull’investimento, l’altro canale di assorbimento privato. La conclusione precedente porta a una conseguenza ineludibile: non solo il surplus totale ma anche la sua componente “in cerca di investimento” (cioè il surplus non consumato) tende a crescere come proporzione del reddito nazionale. La domanda diventa quindi se il sistema sia in grado di fornire opportunità di investimento sufficienti ad assorbire una quota crescente di un surplus anch’esso crescente.

La logica sottostante a questo scenario conduce a un paradosso. Se una frazione sempre maggiore del reddito viene devoluta all’investimento, il reddito totale stesso deve crescere a un tasso accelerato per giustificare quegli investimenti. Questo implicherebbe una spirale per cui un volume sempre più grande di beni strumentali viene prodotto con il solo scopo di produrre una quantità ancora maggiore di beni strumentali in futuro, relegando il consumo a una frazione sempre minore della produzione totale. Abbiamo davanti un processo di crescita “esplosiva” o “a palla di neve” che non solo finirebbe per scontrarsi con i limiti fisici di qualsiasi economia ma è anche una pura astrazione teorica, completamente disancorata dalla realtà. Le corporation del capitalismo monopolistico, entità caute e calcolatrici, non pianificano né perseguono mai simili programmi di espansione auto-alimentata.

Se si esclude questo scenario irrealistico, rimane solo una conclusione: l’investimento di un surplus in crescita relativa al reddito deve necessariamente tradursi in un’espansione della capacità produttiva dell’economia più rapida della crescita del suo output effettivo. Questo modello di investimento, che genera cioè eccesso di capacità, non è di per sé impossibile ed è anzi storicamente osservabile. Tuttavia non può persistere indefinitamente. L’accumularsi di capacità inutilizzata agisce da potente deterrente per i nuovi investimenti. Quando questi ultimi calano, calano anche il reddito, l’occupazione e, di conseguenza, il surplus stesso. In altre parole, questo pattern di investimento è autolimitante e si conclude invariabilmente con una frenata dell’economia, l’inizio di una recessione o di una depressione.

L’analisi deve a questo punto tenere conto della possibilità che l’economia non operi sempre a pieno regime. Viene quindi introdotta la relazione cruciale tra il saggio del profitto (o surplus) e il tasso di utilizzo della capacità produttiva (operating rate). Per una qualsiasi grande corporation esiste una curva di redditività che mostra come il saggio di profitto, a parità di struttura di costi e prezzi, vari al variare del livello di produzione rispetto alla capacità installata. A causa dei costi fissi (overhead), un calo del tasso di utilizzo provoca una contrazione del profitto più che proporzionale, fino a raggiungere un punto di rottura al di sotto del quale si generano perdite. Al contrario, un aumento della produzione verso la piena capacità fa lievitare i profitti.

L’esempio della General Motors nel 1957, citato dal Comitato Kefauver, è illuminante: un calo del 25% della produzione avrebbe ridotto i profitti per unità del 58% mentre un aumento del 25% li avrebbe fatti salire del 35%. Questo meccanismo ha implicazioni fondamentali per la dinamica del sistema. Nella fase discendente del ciclo il surplus si contrae rapidamente e la sua componente destinata all’investimento si riduce ancora più velocemente a causa del ritardo nella riduzione dei dividendi. Questo calo relativo del surplus in cerca di investimento rispetto alle opportunità disponibili è proprio ciò che, prima o poi, pone un freno alla contrazione, raggiungendo un punto di rottura caratterizzato da capacità in eccesso e disoccupazione.

La dinamica opposta si verifica in fase di ripresa: la risalita della produzione genera un’espansione rapida e robusta del surplus. Tuttavia, non appena la parte di surplus che cerca investimenti supera le opportunità di investimento effettivamente disponibili, l’espansione si arresta. È fondamentale notare che questo punto di svolta verso il basso può essere raggiunto molto prima che l’economia ritorni alla piena occupazione o alla piena utilizzazione della capacità.

L’esempio della U.S. Steel Corporation fornisce una conferma empirica di questa duplice dinamica. I dati dal 1920 al 1960 mostrano due fenomeni distinti. Fino al 1954 le osservazioni si allineano lungo una curva di redditività stabile, con un punto di pareggio attorno al 38% della capacità. A partire dal 1955, tuttavia, l’intera curva si sposta verso l’alto di circa 4 punti percentuali, indicando che, a parità di tasso di utilizzo, la redditività era diventata significativamente più alta. Questo spostamento, attribuibile a innovazioni tecnologiche e a politiche di prezzo tipiche del capitalismo monopolistico, illustra la tendenza di lungo periodo all’aumento del surplus. La forma della curva stessa, invece, conferma la variabilità di breve periodo del surplus al variare del livello di attività economica.

Sweezy e Baran sviluppano anche una critica serrata alla dinamica degli investimenti nel capitalismo monopolistico, partendo dalla distinzione fondamentale tra investimento endogeno ed esogeno. L’investimento endogeno, quello che sorge dai meccanismi interni del sistema, si rivela strutturalmente inadeguato. Le logiche del capitalismo monopolistico tendono a generare un volume di surplus in costante aumento, destinato alla ricerca di opportunità di investimento, mentre i meccanismi endogeni non sono in grado di generare un corrispettivo aumento degli sbocchi per impiegare questo capitale. Se l’economia dipendesse esclusivamente da questi canali interni, il sistema sprofonderebbe inesorabilmente in uno stato di depressione permanente. Le fluttuazioni cicliche, come quelle legate alla gestione delle scorte, continuerebbero a verificarsi, ma si muoverebbero all’interno di un range estremamente limitato, il cui limite superiore rimarrebbe ben al di sotto delle potenzialità produttive dell’economia. In questa condizione la tendenza intrinseca all’aumento del surplus troverebbe il suo sfogo in un progressivo e inarrestabile aumento della disoccupazione.

Di fronte a questo esito catastrofico la sopravvivenza del sistema dipende dalla presenza di investimenti esogeni, definiti come quelli che avvengono indipendentemente dai fattori di domanda generati dal suo normale funzionamento. Esistono tre tipi di investimento esogeno tra quelli più citati in letteratura economica. Essi vengono indagati per verificarne la capacità di assorbire il surplus in eccesso.

Il primo fattore esaminato è la crescita della popolazione. Sweezy e Baran smontano le visioni opposte di Hansen, che vedeva nella crescita demografica un potente assorbitore di capitale, e di Kalecki, che ne negava quasi ogni influenza, enfatizzando invece il ruolo del potere d’acquisto. La sintesi proposta è più sfumata: se da un lato è innegabile che un aumento della popolazione, specialmente a livello regionale e in settori come l’edilizia e le utilities, possa creare alcuni sbocchi per l’investimento, dall’altro è un errore attribuirle un’importanza decisiva. L’esperienza statunitense del dopoguerra dimostra che fu la prosperità indotta dalla guerra a trainare l’aumento dei tassi di natalità e non il contrario. La crescita demografica appare dunque più come una variabile dipendente dalla salute del sistema che come un motore indipendente in grado di trainarlo. In assenza di altri sbocchi una crescita demografica sostenuta avrebbe come esito più probabile un’ulteriore innalzamento del livello di disoccupazione. La conclusione è che l’idea che la crescita della popolazione possa risolvere il problema dell’assorbimento del surplus è infondata.

Il secondo e più articolato fattore esaminato è il progresso tecnologico, sotto forma di nuovi metodi di produzione e nuovi prodotti. Sweezy e Baran operano una distinzione cruciale tra le innovazioni epocali, come la ferrovia o l’automobile, che hanno la capacità di plasmare intere epoche storiche e di creare vasti sbocchi per l’investimento, e il flusso “normale” di innovazioni che caratterizza il capitalismo. È su quest’ultimo che si concentra l’analisi per verificare se possa fornire automaticamente gli sbocchi necessari. La risposta, radicale, è che sotto il capitalismo monopolistico non esiste alcuna correlazione necessaria tra il tasso di innovazione e il volume degli investimenti. Questo capovolgimento della teoria tradizionale che vedeva nell’innovazione la forza dinamica per eccellenza si spiega con il differente comportamento dell’impresa monopolistica rispetto a quella concorrenziale. In un mercato concorrenziale le aziende sono costrette a innovare per sopravvivere, la grande corporation calcola l’introduzione di una nuova tecnica in base al suo impatto sulla redditività complessiva, non del singolo impianto. Introducendo subito un macchinario più efficiente l’impresa si troverebbe nella scomoda alternativa di dover abbassare i prezzi (una pratica che il sistema monopolistico rifugge) o di dover mettere fuori uso del capitale ancora perfettamente funzionante. Pertanto la scelta razionale per il monopolista è di ritardare l’innovazione, aspettando che le macchine esistenti giungano a fine vita naturale per poi sostituirle con le tecnologie più avanzate. Il paradosso che ne risulta è un sistema caratterizzato simultaneamente da un rapidissimo progresso tecnico nella ricerca e da un’enorme quantità di capitale fisico obsoleto ancora in uso, come attestano i dati McGraw-Hill citati nel libro. Inoltre innovazioni che aumentano la produttività degli impianti esistenti con investimenti minimi, come l’esempio dell’ossigeno nell’acciaio, sono doppiamente dannose per l’assorbimento del surplus: assorbono poco capitale nuovo e, aumentando la capacità produttiva, scoraggiano ulteriori investimenti per soddisfare una domanda futura. Anche le pratiche di ammortamento sempre più generose se da un lato forniscono un’enorme liquidità interna alle imprese, dall’altro alzano l’asticella dell’investimento necessario solo per mantenere il sistema in equilibrio poiché quest’ultimo deve coprire non solo il surplus non consumato ma anche l’intero ammontare dei fondi di ammortamento. I dati presentati mostrano come, nonostante l’impennata della spesa in Ricerca e Sviluppo, gli investimenti in impianti e macchinari negli USA siano rimasti stagnanti tra il 1957 e il 1962 mentre la copertura di tali investimenti tramite gli ammortamenti saliva da meno del 50% a oltre l’80%. Il progresso tecnologico tende a determinare la forma che l’investimento assume, non il suo volume.

Il terzo fattore, l’investimento estero, viene analizzato non nella sua dimensione geopolitica ma nella sua capacità di fungere da valvola di sfogo per il surplus interno. L’evidenza storica, sia britannica che statunitense, dimostra che nel lungo periodo l’investimento estero funziona come un meccanismo di drenaggio del surplus dalle periferie verso il centro. Il flusso di reddito da investimenti (interessi, dividendi) rientrante nel paese investitore supera sistematicamente il flusso in uscita del capitale. Molti investimenti diretti all’estero vengono finanziati con i profitti realizzati localmente o con accordi che cedono diritti tecnologici in cambio di partecipazioni azionarie, senza un esborso di capitale significativo. I dati per gli Stati Uniti dal 1950 al 1963 mostrano che il reddito da investimenti esteri è stato di gran lunga superiore al capitale esportato, permettendo al contempo un enorme aumento del valore degli investimenti detenuti all’estero. L’investimento estero, lungi dall’assorbire il surplus interno, lo aggrava, pompando ulteriori risorse nell’economia dei paesi centrali.

La conclusione generale è che il capitalismo monopolistico è un sistema intrinsecamente contraddittorio la cui logica elementare lo spingerebbe verso la stagnazione cronica. La percezione universale del problema economico non è più la scarsità ma l’eccedenza, il “troppo”. Da questa condizione scaturiscono due tipi di reazioni: una primitiva, di stampo restrizionista (dai licenziamenti alla distruzione di merci), che però aggrava il problema, e una più sofisticata che cerca di stimolare la domanda. Tuttavia, la via più semplice per farlo, il taglio generalizzato dei prezzi, è preclusa perché minerebbe il controllo dei prezzi, prerogativa fondamentale delle grandi corporation. Il sistema è quindi costretto a stimolare la domanda ma deve farlo attraverso canali che non intacchino le sue strutture di potere fondamentali. La domanda cruciale non è se stimolare la domanda ma come farlo e le scelte che il sistema opera in questa direzione, selezionando i metodi a esso compatibili, hanno ripercussioni profonde su ogni aspetto della società.

La teoria economica tradizionale, nell’analizzare come viene impiegato il surplus economico della società, cioè la differenza tra la produzione totale e i costi socialmente necessari per ottenerla, ha sempre focalizzato la sua attenzione quasi esclusivamente sul consumo dei capitalisti e sull’investimento privato. Questo approccio non ha mai completamente ignorato altre modalità di assorbimento del surplus. È sempre stato riconosciuto, infatti, che Stato e Chiesa sono co-consumatori di una parte di questo surplus e sia gli economisti classici che Marx hanno identificato una vasta categoria di lavoratori improduttivi, come i domestici, il cui sostentamento deriva interamente dai redditi di capitalisti e proprietari terrieri. Marx, in particolare, ha aggiunto a questi prelievi quelle che definì “le spese di circolazione”, costi necessari per realizzare il valore delle merci ma che non ne accrescono il valore intrinseco, rappresentando quindi una detrazione dal plusvalore complessivo dalla prospettiva della classe capitalista.

Nonostante questa consapevolezza, queste forme alternative di utilizzo del surplus sono state tradizionalmente relegate a un ruolo di secondaria importanza. Venivano considerate come una semplice redistribuzione delle spese di consumo della classe dominante o, al massimo, come un fattore che poteva moderare il tasso di accumulazione ma mai come un elemento decisivo nel determinare il funzionamento dell’intero sistema economico e il carattere della società che su di esso si fonda. Questa prospettiva era comprensibile nella fase del capitalismo concorrenziale dei secoli XVIII e XIX, dove la borghesia, intenta a minimizzare tasse e decime, aveva ridotto la quota di surplus assorbita da Stato e Chiesa rispetto all’epoca feudale, facendo presupporre un’ulteriore contrazione futura. Allo stesso modo, le spese di circolazione si erano ridotte rispetto all’era mercantilista, lasciando intendere che consumo e accumulazione privata avrebbero finito per assorbire la quasi totalità del surplus sociale.

Il dibattito sulla sufficienza di questi due canali per assorbire tutto il surplus potenziale, sebbene presente in letteratura sin dai tempi di Malthus, Ricardo e Sismondi, non divenne mai centrale per i classici o per Marx. Quest’ultimo, in particolare, era convinto che la barriera fondamentale all’espansione capitalistica risiedesse in una carenza di surplus sintetizzata nella legge della caduta tendenziale del saggio di profitto. Il problema dell’assorbimento del surplus è poi addirittura scomparso dalla vista per decenni con l’avvento dell’economia neoclassica, focalizzata sui meccanismi equilibratori del mercato.

È con il passaggio a un sistema monopolistico che questa visione richiede un radicale ripensamento. Quando la legge dell’aumento tendenziale del surplus sostituisce quella della caduta del saggio di profitto e i modi normali di utilizzo di questo surplus si rivelano palesemente inadeguati, la questione delle forme alternative di assorbimento diventa un problema di vita o di morte per il sistema. La loro crescita relativa, rispetto a consumo e accumulazione, finisce per dominare la composizione dell’output sociale, il tasso di crescita economica e la qualità della vita stessa.

Una di queste modalità alternative è ciò che gli autori definiscono “promozione delle vendite”, concettualmente identico alle spese di circolazione di Marx ma che nell’epoca del capitalismo monopolistico ha assunto un’importanza quantitativa e qualitativa che andava ben oltre le sue previsioni. La promozione delle vendite esisteva in forme embrionali nell’antichità e nel Medioevo ma è solo sotto il capitalismo monopolistico più avanzato, negli Stati Uniti, che esso è esploso, trasformandosi da caratteristica relativamente marginale a uno dei centri nervosi decisivi del sistema, la cui influenza pervasiva è seconda solo a quella del militarismo in ambito economico e prima in quasi tutti gli altri aspetti sociali.

Questa trasformazione è stata accompagnata da un mutamento qualitativo: la competizione di prezzo è stata largamente soppiantata da nuove forme di confronto come la pubblicità, la variazione dell’estetica e della confezione del prodotto, l’obsolescenza programmata, il rilascio continuo di nuovi modelli e schemi di credito al consumo. In un sistema dove la concorrenza è agguerrita ma il numero di rivali è limitato, rendendo pericoloso il taglio dei prezzi, la pubblicità diventa l’arma principale della lotta concorrenziale. Il suo scopo è la differenziazione del prodotto che, se ha successo, crea nell’opinione del consumatore l’impressione che un prodotto non sia un sostituto perfetto di un altro, avvicinando il venditore a una posizione di monopolio e rendendo la domanda meno elastica, il che gli permette di aumentare i prezzi senza subire una perdita proporzionale di ricavi.

Come notato dall’economista E. H. Chamberlin, la pubblicità non si limita a soddisfare desideri esistenti ma altera i desideri stessi, creando un nuovo schema di bisogni attraverso tecniche manipolative che sfruttano leggi psicologiche. Più intensi sono i desideri creati, più alti possono essere i prezzi e i profitti. Di conseguenza l’aumento della spesa pubblicitaria è, come osservato da Scitovsky, un segno dell’aumento dei margini di profitto e del declino della concorrenza di prezzo.

Le statistiche confermano questa esplosione: da una presenza trascurabile nel 1867 la spesa pubblicitaria negli Stati Uniti è salita a 360 milioni di dollari nel 1890, per moltiplicarsi di quasi dieci volte fino a toccare i 3.426 milioni di dollari nel 1929 mentre il capitalismo monopolistico raggiungeva la maturità. In questa nuova epoca la pubblicità è entrata in una “fase della persuasione”, spingendo le aziende a creare marchi standardizzati e fortemente pubblicizzati a livello nazionale. Questo sforzo è cresciuto in modo astronomico, raggiungendo i 12 miliardi di dollari nel 1962 per i soli media, con una stima di oltre 20 miliardi di dollari se si includono tutte le attività correlate. Questo fiume di risorse è diventata una necessità per la sopravvivenza per molte grandi imprese, una componente integrale della massimizzazione del profitto e un baluardo a protezione delle posizioni monopolistiche.

L’analisi economica accademica, da Alfred Marshall in poi, ha talvolta tentato di distinguere tra una pubblicità “costruttiva” (informativa) e una “polemica” (persuasiva), suggerendo persino di tassare o proibire quest’ultima. Le evidenze raccolte da esperti del settore come Louis Cheskin dimostrano che la pubblicità moderna opera raramente in modo puramente informativo. I consumatori, sapendo poco dei prodotti, si affidano a marchi e etichette resi familiari dalla pubblicità, la quale influenza le loro scelte in modo spesso subconscio. Studi confermano che la pubblicità induce i consumatori a pagare prezzi significativamente più alti per prodotti fisicamente identici ad altri non supportati da campagne marketing altrettanto aggressive. Infine, l’argomento che la pubblicità finanzia programmi di qualità nei media viene smontato osservando che tali contenuti potrebbero essere offerti al pubblico a un costo diretto di gran lunga inferiore a quello che i consumatori sono costretti a pagare indirettamente attraverso il sovrapprezzo imposto dai prodotti per coprire i costi di questo immenso sforzo di vendita.

Sweezy e Baran sono contro l’approccio tradizionale dell’economia del benessere nei confronti della pubblicità che la bolla come uno spreco colossale di risorse, un drenaggio continuo per il reddito dei consumatori e una distruzione sistematica della loro libertà di scelta tra alternative genuine. Questa prospettiva viene accusata di fallire nel cogliere le due questioni veramente cruciali. La prima è che la pubblicità, in tutte le sue sfaccettature, non può essere trattata come un’escrescenza indesiderata del sistema economico che si potrebbe semplicemente rimuovere con un atto di volontà. Al contrario, essa è la diretta progenie del capitalismo monopolistico, l’inevitabile sottoprodotto del declino della concorrenza sui prezzi e costituisce una parte integrante del sistema tanto quanto la grande corporation stessa. Come osservò casualmente l’economista Pigou, eliminarla richiederebbe la distruzione della concorrenza monopolistica che, nelle condizioni attuali, equivarrebbe a superare il capitalismo stesso, un obiettivo che l’economia del benessere, il cui scopo è mitigare i risultati più disastrosi del sistema per rafforzarne le fondamenta, non si è mai proposta.

La seconda e ancor più grave debolezza di questo approccio deriva dall’assunzione esplicita o implicita della piena occupazione delle risorse che ne sottende tutto il ragionamento. Partendo dalla Legge di Say, la pubblicità e lo sforzo di vendita in generale sono visti come elementi che creano “distorsioni” nell’economia: ridistribuiscono il reddito a favore degli inserzionisti e dei media mentre falsano le scelte dei consumatori, inducendoli ad acquistare su basi irrazionali o a spendere per prodotti inutili o adulterati. In questa cornice teorica, tuttavia, la pubblicità non è considerata in grado di alterare il volume complessivo degli acquisti dei consumatori e quindi non merita particolare attenzione in un’analisi del funzionamento del sistema capitalistico nel suo insieme.

Questa trattazione sistematica oscura la funzione centrale della pubblicità nell’economia del capitalismo monopolistico, una funzione invece ben chiara agli uomini d’affari e agli analisti aziendali. Come scrive il Dipartimento di Economia della McGraw-Hill, la promozione delle vendite, intesa in senso ampio, non è solo un simbolo di una società libera ma una necessità operativa sempre più crescente per la nostra società. La catastrofe che colpirebbe questa società in assenza del marketing è delineata con parole cupe da un banchiere d’affari: si tornerebbe a comprare beni per il loro puro valore d’uso, le automobili sarebbero essenziali e tenute per tutta la loro vita utile, le case costruite solo per riparare. E cosa accadrebbe, si chiede, a un mercato dipendente da nuovi modelli, nuovi stili, nuove idee? Questo è il punto cruciale: cosa accadrebbe a un mercato perennemente afflitto da una domanda insufficiente? L’importanza economica della pubblicità non sta dunque principalmente nel far cambiare marca ai consumatori ma nel suo effetto sull’entità della domanda effettiva aggregata e, di conseguenza, sul livello del reddito e dell’occupazione. Questo nesso, compreso da professionisti del marketing e giornalisti economici, è stato con poche eccezioni ignorato dalla teoria economica a causa del mancato riconoscimento della tendenza del capitalismo monopolistico alla stagnazione cronica.

L’intero sforzo pubblicitario rappresenta un modo di utilizzare il surplus economico. La sua natura composita e autoassorbente è fondamentale. Una parte di questi costi è pagata dai lavoratori produttivi attraverso prezzi più alti, riducendo i salari reali e aumentando così il surplus, un’altra parte è pagata dai capitalisti e dai lavoratori improduttivi, ridistribuendo il surplus tra di loro. A differenza dei profitti netti, questa frazione di surplus spesa in costi di vendita non richiede un corrispettivo in consumi o investimenti dei capitalisti, crea da sé i propri sbocchi, con un impatto sull’economia simile a quello della spesa pubblica finanziata dalle tasse, espandendo il reddito aggregato e impiegando lavoratori improduttivi nel settore della pubblicità.

Gli effetti indiretti della pubblicità operano nella stessa direzione anticiclica. Da un lato, essa crea opportunità di investimento, incoraggiando la domanda per prodotti nuovi o per nuovi marchi, stimolando così investimenti in impianti e macchinari che altrimenti non avverrebbero. Dall’altro, e forse in modo più decisivo, influisce sulla propensione al consumo. In un’epoca di redditi elevati e di un’enorme massa di spesa discrezionale e credito al consumo, la funzione dominante della pubblicità diventa quella di condurre, per conto dei produttori, una guerra senza tregua contro il risparmio e a favore del consumo. I mezzi per raggiungere questo obiettivo sono l’alterazione delle mode, la creazione di nuovi desideri, l’imposizione di nuovi standard di status. Il successo in questa missione ha cementato il ruolo della pubblicità come potente antidoto alla stagnazione e come architetto principale del famoso “stile di vita americano”.

La strategia di imporre una continua “novità” porta a una profonda interpenetrazione tra la promozione della vendita e lo sforzo produttivo. Molte delle novità sono fraudolente, come negli esempi di Rosser Reeves sulle bottiglie di birra lavate col vapore o sulle sigarette “tostate”, caratteristiche comuni a tutti i prodotti presentati come esclusivi. Un secondo tipo di novità, più pervasivo, riguarda prodotti dal design e dall’aspetto nuovi ma dalla funzionalità invariata, come i cambi di modello automobilistici. In questi casi la promozione della vendita non è più un semplice accessorio della produzione ma invade la fabbrica, dettando ciò che deve essere prodotto. Questo ha effetti negativi per il consumatore che si trova tra le mani prodotti con materiali inferiori, vita più breve e costi di riparazione più alti ma un effetto positivo per l’economia nel suo complesso poiché accelera la domanda di sostituzione e fornisce una spinta generale a reddito e occupazione.

Questa fusione tra produzione e vendita rende impossibile distinguere, nei bilanci aziendali, i costi socialmente necessari dal surplus. L’unico modo per farlo è un confronto tra i costi dell’output effettivo e i costi di un output ipotetico, progettato per la massima funzionalità ed efficienza. Lo studio di Fisher, Grilliches e Kaysen sui costi dei cambi di modello automobilistici dal 1949 dimostra la fattibilità di questo approccio, rivelando costi da capogiro: circa 5 miliardi di dollari l’anno tra il 1956 e il 1960, solo per i modelli statunitensi, a cui si aggiungono miliardi per il maggior consumo di carburante. Questo studio evidenzia come la parte preponderante della promozione della vendita nell’industria automobilistica non sia affidata a pubblicitari ma sia incorporata nel lavoro di operai e tecnici.

La conclusione è che la struttura dell’output sotto il capitalismo monopolistico, determinata dalla massimizzazione del profitto, è intrinsecamente irrazionale. Un prodotto socialmente razionale e i suoi costi minimi possono essere definiti solo per contrasto con la realtà esistente e potranno essere realizzati concretamente solo in una società socialista, dove l’attività economica sarà finalizzata alla creazione di un’abbondanza funzionale al benessere umano. Anche il vasto settore della “finanza, assicurazioni e immobili” che assorbe risorse per una percentuale significativa del reddito nazionale rappresenta in gran parte un altro gigantesco meccanismo di assorbimento del surplus, caratterizzato da una nuova aristocrazia finanziaria e da un sistema di imbrogli e truffe già descritto da Marx. Sebbene alcune delle sue funzioni siano necessarie, la sua attuale ipertrofia speculativa e parassitaria è socialmente necessaria solo per il mantenimento del sistema stesso. Un sistema economico in cui tali costi sono “necessari” ha da tempo cessato di essere un sistema economicamente e socialmente necessario.

Paul Baran e Paul Sweezy passano ad analizzare la spesa pubblica. Sostengono che il governo assorbe una massa di surplus che altrimenti il sistema non riuscirebbe a smaltire, svolgendo questa funzione su una scala ancor più ampia e con esiti che, nel tempo, divengono progressivamente più irrazionali e distruttivi della promozione delle vendite.

Baran e Sweezy sfatano un presupposto cardine delle teorie economiche classiche, neoclassiche e dello stesso Marx: l’idea che l’economia operi normalmente a piena capacità. In quello schema qualsiasi risorsa devoluta al governo rappresentava una sottrazione forzosa al consumo o all’accumulazione privata, gravando in ultima istanza sulle classi abbienti. Questa visione, che fungeva da potente argine teorico al principio del governo minimo, viene rovesciata alla luce della condizione normale del capitalismo monopolistico: la produzione sistematicamente al di sotto delle capacità produttive. In questo contesto di domanda effettiva insufficiente se il governo, attraverso la spesa pubblica diretta o i pagamenti di trasferimento, mobilita lavoro e capitale inutilizzati esso non sta sottraendo nulla a ciò che sarebbe stato prodotto ma sta anzi generando un surplus aggiuntivo. Il governo, in altre parole, diventa un motore di creazione del reddito e di assorbimento del surplus.

La dimostrazione prosegue con una disamina delle modalità di questo assorbimento, confutando l’idea, un tempo prevalente anche tra i keynesiani, che solo la spesa in deficit (finanziata con moneta o debito) potesse stimolare la domanda. Attraverso un esempio numerico semplificato, mostrano come, in presenza di risorse inutilizzate, anche un aumento della spesa pubblica interamente finanziato da tasse aggiuntive (e quindi a bilancio in pareggio) possa espandere il Prodotto Nazionale Lordo. L’aumento della spesa pubblica si traduce infatti in un incremento immediato della produzione e del reddito e le tasse aggiuntive drenano proprio questo nuovo reddito generato, senza intaccare la spesa privata preesistente. In questo caso il moltiplicatore è pari a 1. È solo con la spesa in deficit che si innescano i meccanismi moltiplicativi tradizionali, dove l’iniezione di nuovo potere d’acquisto da parte del governo dà luogo a successivi aumenti di spesa privata. Tuttavia Baran e Sweezy sottolineano che l’effetto di un deficit permanente ma non crescente non è cumulativo e che per l’economia statunitense, caratterizzata da deficit non sistematicamente crescenti, è il livello assoluto della spesa pubblica, più che il suo saldo, a essere il fattore determinante per l’assorbimento del surplus.

I dati storici confermano in modo inequivocabile la tendenza all’aumento sia assoluto che relativo della spesa pubblica. Dal 7,4% del Pil nel 1903, essa sale al 9,8% nel 1929, per poi impennarsi a oltre un quarto del Pil nel dopoguerra. Questa crescita non è una peculiarità del capitalismo monopolistico, notano gli autori, poiché in una società socialista razionale la quota di surplus assorbita dallo Stato per bisogni collettivi sarebbe probabilmente ancora maggiore. La differenza cruciale, però, sta nel fatto che nel capitalismo monopolistico questo assorbimento non è una deduzione dal surplus privato ma un’addizione resa necessaria dall’incapacità dei canali privati di assorbire tutto il surplus potenziale. Anzi, poiché una maggiore spesa pubblica spinge il sistema verso la piena capacità, sia il surplus governativo che quello privato possono crescere simultaneamente. La prova empirica di questo meccanismo è la stabilità della quota dei profitti al netto delle tasse sul reddito nazionale negli anni ’20 e ’50, nonostante il marcato aumento della pressione fiscale sulle società nel secondo periodo. Ciò che danneggia i profitti, evidenziano, non sono le tasse elevate ma la depressione.

Questa nuova realtà economica ha plasmato anche le percezioni della classe dominante. L’oligarchia capitalistica, in particolare i manager delle grandi corporation, ha abbandonato l’ostilità dogmatica verso la spesa pubblica. Comprendendo che essa si traduce in più domanda effettiva e che gran parte del carico fiscale può essere traslato su consumatori e lavoratori e attratta dalle opportunità di guadagno speculativo offerte da un sistema fiscale intricato e su misura, la grande borghesia è diventata una convinta sostenitrice del ruolo espansivo del governo. Anche le classi a basso reddito, nel loro complesso, traggono beneficio da questa dinamica: l’occupazione generata dalla spesa pubblica e il conseguente potenziamento del potere contrattuale dei lavoratori in condizioni di bassa disoccupazione superano le perdite subite da quei gruppi, come i rentier, con redditi fissi che vengono erosi dalle tasse indirette.

La domanda cruciale, quindi, non è se ci sarà una spesa pubblica crescente ma per cosa verrà impiegata. Ed è qui che gli interessi privati e la struttura del potere politico diventano determinanti. L’analisi della composizione della spesa pubblica dal 1929 al 1957 è illuminante. La spesa non militare (istruzione, strade, servizi) è cresciuta solo marginalmente in percentuale del Pil mentre i pagamenti di trasferimento (pensioni, sussidi) sono aumentati in modo significativo. Tuttavia il vero motore dell’espansione è stata la spesa per la difesa, passata da meno dell’1% a oltre il 10% del Pil, assorbendo da sola circa due terzi dell’incremento totale della spesa pubblica relativa al Pil. Questa militarizzazione dell’economia è il dato centrale del dopoguerra americano: sei-sette milioni di posti di lavoro dipendono dal bilancio militare e un suo ritorno ai livelli prebellici scatenerebbe una depressione paragonabile a quella degli anni ’30.

Baran e Sweezy respingono con forza le tesi di chi sostiene che tagli fiscali compenserebbero una riduzione delle spese militari o che si potrebbe semplicemente sostituire la spesa militare con un’analoga spesa sociale per il welfare. Sebbene questa opzione sia desiderabile e fattibile in astratto, essa si scontra con le modalità del potere politico in una società capitalista monopolistica. Il sistema americano, democratico nella forma ma plutocratico nella sostanza, con la sua architettura di checks and balances, diritti degli stati e partiti privi di disciplina, conferisce un potere di veto effettivo a coalizioni di interessi acquisiti. La storia del New Deal è un esempio lampante: tra il 1929 e il 1939 la spesa pubblica crebbe quasi esclusivamente negli ambiti civile e dei trasferimenti mentre quella militare rimase marginale. Eppure, nonostante questo sforzo a favore del welfare, il New Deal fu un fallimento come operazione di salvataggio dell’intera economia. Il Pil nel 1939 era ancora inferiore a quello del 1929 e la disoccupazione era al 17,2%. Fu solo la “grande mobilitazione” bellica, con la sua esplosione di spesa pubblica, a riassorbire completamente la disoccupazione. La conclusione è amara ma ineluttabile: nel capitalismo monopolistico la spesa militare, irrazionale e distruttiva, è l’unico sbocco per il surplus che riesce a ottenere il consenso politico dell’oligarchia dominante perché non minaccia i suoi privilegi fondamentali, a differenza di una massiccia espansione dello stato sociale che, pur essendo economicamente equivalente, sarebbe politicamente inaccettabile.

La risposta alla domanda sul perché l’aumento della spesa civile avesse ormai raggiunto i suoi limiti estremi già nel 1939, nonostante le palesi necessità sociali, va ricercata nella struttura di potere del capitalismo monopolistico statunitense. Le forze che si opponevano a un’ulteriore espansione si erano rivelate troppo forti per essere sormontate. Un primo elemento cruciale per analizzare questi limiti è la minore flessibilità della spesa originata a livello statale e locale rispetto a quella federale. Il sistema finanziario di stati e comuni è dominato dalle tasse sulla proprietà che sono più difficili da trasferire o eludere rispetto alle imposte sul reddito o quelle sui consumi che caratterizzano il bilancio federale. Inoltre, alti tassi di imposta sulla proprietà non aprono le stesse opportunità di arricchimento per l’élite finanziaria che invece offrono alte aliquote fiscali sul reddito abbinate a basse tasse sulle plusvalenze. Per i gruppi e gli individui benestanti che dominano la politica locale una maggiore spesa a questi livelli si traduce semplicemente in bollette fiscali più salate, senza che si verifichi un aumento compensativo dei redditi, dato l’impatto limitato di un singolo bilancio municipale sull’economia nazionale. Di conseguenza le uscite statali e locali vengono mantenute vicine al minimo indispensabile per sostenere servizi e funzioni essenziali. Questo controllo oligarchico dietro le quinte, ben esemplificato dallo studio di Hollingshead su Elmtown, produce politiche conservative e l’elezione di funzionari che agiscono come agenti degli interessi della classe dominante. Non sorprende, quindi, che nel trentennio analizzato, nonostante la trasformazione radicale del ruolo complessivo della spesa pubblica, il peso relativo della spesa statale e locale sul Pil sia rimasto sostanzialmente invariato, passando dal 7,4% del 1929 all’8,7% del 1957, dopo aver toccato picchi anomali durante la Grande Depressione e la guerra.

Data questa struttura governativa e politica, ogni futura variazione del ruolo dello Stato nell’economia sarebbe dovuta necessariamente partire dal livello federale. A questo livello, tuttavia, l’ammontare del conto delle tasse, pur avendo una sua influenza, non è il fattore decisivo nel determinare la spesa pubblica. In un’economia con risorse inutilizzate una spesa maggiore genera redditi più alti dai quali possono essere pagate le tasse incrementate. L’oligarchia finanziaria nel suo complesso ha quindi un incentivo a spingere per un aumento della spesa pubblica. La vera determinante dei limiti alla spesa civile risiede piuttosto negli interessi particolari dei gruppi che compongono l’oligarchia e nel modo in cui questi interessi sono toccati dai diversi tipi di spesa.

Si potrebbe pensare di determinare il limite di spesa per ogni singola voce di bilancio ma questo approccio ignorerebbe un potente effetto di interdipendenza. L’opposizione a un aumento generale e simultaneo di molte voci di spesa civile non è la semplice somma delle opposizioni individuali ma cresce in modo esponenziale e molto più intenso poiché gruppi di interesse diversi, ciascuno contrario a un singolo tema, finiscono per unire le forze in un’opposizione frontale all’intero pacchetto. È proprio questo il caso quando, per assorbire il surplus economico, è necessario un ampio aumento della spesa pubblica totale.

Quasi ogni importante voce di spesa civile, superata una certa soglia minima, risveglia l’opposizione di potenti interessi acquisiti. Ciò avviene quando la spesa pubblica entra in competizione con il settore privato. Lo sviluppo di bacini fluviali, ad esempio, è essenziale per il controllo delle inondazioni e la conservazione dell’acqua ma produce anche energia elettrica che compete con i monopoli privati. La storia della Tennessee Valley Authority (TVA) è un’eloquente testimonianza dell’efficacia di questa opposizione. Sebbene l’oligarchia non sia riuscita a distruggere un progetto così popolare e di successo, ha completamente impedito che il suo modello fosse replicato in altre valli fluviali dove sarebbe stato di enorme beneficio pubblico. Allo stesso modo, un programma serio di edilizia popolare, che richiederebbe la costruzione in spazi aperti, è costantemente naufragato contro la rocciosa opposizione degli interessi immobiliari urbani. I programmi di riqualificazione urbana che ne sono scaturiti hanno finito per essere un sistema di sussidi per i proprietari di immobili decadenti, sfrattando più persone di quante ne alloggino e creando quartieri dormitorio invivibili.

L’opposizione non si limita ai casi di competizione diretta. È feroce anche in aree come l’istruzione e la salute, dove la competizione è marginale. La spiegazione risiede nel fatto che il sistema educativo, così com’è, è un pilastro fondamentale dei privilegi di classe. In un triplice senso. In primo luogo fornisce all’oligarchia servizi educativi di alta qualità e riservati attraverso scuole private e pubbliche di lusso nei sobborghi esclusivi. Generalizzare questi benefici significherebbe erodere il loro valore esclusivo. In secondo luogo la parte del sistema che serve la maggioranza deve essere inferiore, per produrre individui adatti alle posizioni sociali subalterne che la società riserva loro. Il finanziamento ineguale, garantito dal controllo locale, assolve proprio a questa funzione. Infine, il sistema permette una mobilità verticale controllata, cooptando i talenti più brillanti delle classi inferiori attraverso borse di studio e università pubbliche, integrandoli nell’élite e privando così le classi subalterne dei loro leader naturali, rafforzando di fatto la struttura di classe. Qualsiasi tentativo serio di soddisfare i reali bisogni educativi della nazione richiederebbe un impegno di risorse su scala tale da minacciare questo delicato equilibrio ed è per questo che anche modesti aumenti degli aiuti federali all’istruzione vengono sistematicamente ostacolati.

L’unica eccezione maggiore a questa regola è la spesa per le autostrade che ha invece conosciuto una crescita smisurata. Ciò è avvenuto perché un potente complesso di interessi privati, che ruota attorno all’industria automobilistica, petrolifera, della gomma e dell’acciaio, trae enorme beneficio da questa forma di spesa pubblica. Le contro-pressioni, ad esempio delle ferrovie, sono state inefficaci. Il risultato, però, è stato un disastro sociale: città congestionate e inquinate, consumo dissennato di territorio, declino dei trasporti pubblici e ferroviari. Il rimedio proposto a questi mali è, paradossalmente, ancora più autostrade, in una spirale che manifesta platealmente la follia di un sistema che favorisce gli interessi privati a scapito del benessere collettivo.

Il fallimento del New Deal nel spingere la spesa civile a livelli sufficienti per la piena occupazione fu quindi superato solo con la salvezza portata dalla guerra e, in seguito, dalla Guerra Fredda. Il confronto tra il 1939 e il 1961 è illuminante: in entrambi gli anni la somma della disoccupazione e della forza lavoro impiegata nel settore militare si attestava attorno al 16-18%. Ciò dimostra in modo incontrovertibile che, se la spesa militare fosse stata ridotta alle proporzioni del 1939 la disoccupazione sarebbe tornata ai livelli disastrosi di quell’epoca. L’oligarchia, così restia a finanziare il welfare, diventa incredibilmente generosa con il complesso militare perché quest’ultimo, a differenza della spesa civile, non minaccia i suoi privilegi di classe e, anzi, assolve alla funzione vitale di assorbire il surplus economico che il sistema monopolistico produce in modo cronico, garantendo così la stabilità del sistema stesso.

3. Le spese militari

La domanda fondamentale sul perché l’oligarchia statunitense, a differenza del passato, necessiti di un apparato militare così mastodontico trova la sua spiegazione nella natura intrinseca del capitalismo come sistema internazionale e gerarchico. Fin dalle sue origini nel Medioevo il capitalismo si è configurato come una piramide globale, caratterizzata da metropoli dominanti al vertice, colonie completamente subordinate alla base e una complessa gradazione di rapporti di sfruttamento e subordinazione negli strati intermedi. Ogni nazione, fatta eccezione per quelle più indifese al fondo, ha un bisogno strutturale di forza armata per preservare e, se possibile, migliorare la propria posizione all’interno di questa gerarchia predatoria. L’entità di questa necessità militare varia in funzione della posizione occupata e delle dinamiche complessive del sistema: le nazioni leader richiedono inevitabilmente il potenziale maggiore, specialmente durante i periodi di conflitto attivo per la supremazia globale, mentre le nazioni secondarie possono adattare le loro esigenze in base alle alleanze che riescono a stringere con i contendenti principali.

La storia del capitalismo offre una chiara illustrazione di questo schema. I secoli XVII e XVIII, segnati da continue lotte per il predominio tra Spagna, Olanda, Francia e Gran Bretagna, furono epoche fortemente militarizzate. La decisiva vittoria britannica del 1815 inaugurò invece un’era di Pax Britannica, dove un leader incontrastato, attraverso la propria forza e un sistema flessibile di alleanze, stabilizzò l’intero sistema, portando a un marcato declino dell’enfasi sul militarismo. Questo relativo equilibrio fu poi sovvertito dalle sfide lanciate dalla Germania e dal Giappone a partire dalla seconda metà del XIX secolo, le quali diedero direttamente origine alla nuova ondata di militarismo che culminò nelle due guerre mondiali.

In questo contesto storico-strutturale si inserisce l’ascesa degli Stati Uniti. Il paese fu espansionista e orientato all’impero fin prima dell’indipendenza ma i suoi primi leader, consapevoli di non poter sfidare direttamente le potenze imperiali più consolidate, perseguirono un’astuta politica di alleanze e accordi per massimizzare i vantaggi tratti dai conflitti altrui. L’indipendenza stessa fu resa possibile da un’alleanza con la Francia contro la Gran Bretagna e l’acquisto della Louisiana da Napoleone fu motivato dalla speranza francese di rafforzare gli Stati Uniti come contrappeso al dominio britannico. Durante il XIX secolo Washington costruì così un impero secondario, reclamando anche sfere di influenza più ampie come con la Dottrina Monroe, senza mai sentire il bisogno di un apparato militare proporzionato. Con le due guerre mondiali gli Stati Uniti non solo consolidarono la loro posizione ma ne approfittarono per avanzare le loro pretese di leadership, emergendo dal 1945 come la nazione guida indiscussa del mondo capitalista, una posizione di dominio paragonabile a quella della Gran Bretagna post-1815. Questo nuovo status di “poliziotto globale” del capitalismo, unito al processo di smantellamento dei vecchi imperi coloniali e alla loro integrazione in un vasto impero neo-coloniale americano, spiega facilmente l’alto livello dei bisogni militari statunitensi nel dopoguerra.

Per comprendere la continua e rapida crescita di queste esigenze militari nel periodo postbellico è necessario introdurre un fattore storico senza precedenti: l’ascesa di un sistema socialista mondiale come rivale e alternativa credibile al sistema capitalista. La narrazione ufficiale, che giustifica il riarmo con la necessità di proteggere il “mondo libero” da una presunta aggressione sovietica o cinese, viene smontata da Baran e Sweezy come una costruzione propagandistica. L’idea di un’URSS intrinsecamente aggressiva, paragonata alla Germania nazista, viene rifiutata non solo da eminenti analisti e storici ma anche da figure chiave della politica estera americana dell’epoca, come George F. Kennan. Studiosi come D. F. Fleming hanno ampiamente dimostrato come la politica estera sovietica sia stata essenzialmente difensiva. Persino commentatori e politici bellicosi, come osservato da Walter Lippmann, non credono realmente in un desiderio sovietico di scatenare una guerra, operando piuttosto nella convinzione che, nonostante le provocazioni, l’URSS non avrebbe reagito militarmente.

La vera profonda ragione della macchina militare statunitense deve essere quindi ricercata altrove: nell’implacabile odio di classe e nella determinazione dell’oligarchia capitalista di distruggere il socialismo, un obiettivo che ha guidato le potenze capitaliste leader fin dalla Rivoluzione d’Ottobre del 1917. Lo scopo centrale è sempre stato quello di prevenire l’espansione del socialismo, comprimerlo in un’area sempre più piccola e, in ultima analisi, cancellarlo dalla faccia della terra. I metodi sono cambiati nel tempo, dall’intervento armato diretto contro il giovane regime sovietico, al cordone sanitario, all’appoggio all’ascesa del nazismo e del fascismo giapponese nella speranza che si scagliassero contro l’URSS, ma l’obiettivo finale è rimasto immutato. Alla fine della Seconda Guerra Mondiale, con l’Europa e l’Asia tradizionali in rovina, il socialismo esteso dall’Elba al Pacifico e i movimenti di liberazione nazionale in fermento, il capitalismo mondiale affrontava una crisi esistenziale. In questo frangente gli Stati Uniti assunsero la piena leadership della controffensiva capitalista globale, formalizzata nel 1947 con la Dottrina Truman, che proclamava il diritto-dovere americano di intervenire in qualsiasi luogo per reprimere movimenti rivoluzionari, e con il Piano Marshall, volto a riabilitare e integrare i centri capitalisti tradizionali sotto l’egida americana.

L’implementazione di questa politica richiese la creazione di una fitta rete globale di patti militari e basi (dalla NATO al SEATO, al CENTO) e, soprattutto, un massiccio e continuo accumulo di armamenti per creare quelle “posizioni di forza” da cui non solo contenere il socialismo ma anche esercitare una pressione costante per costringerlo alla ritirata e, in ultima istanza, essere in grado di vincere una guerra finale per la sua liquidazione.

La ragione fondamentale di questa ostilità viscerale non risiede in una perdita di quote commerciali poiché i paesi socialisti sono generalmente disposti a commerciare. Il cuore del conflitto sta nella minaccia che il socialismo rappresenta per i profitti e il controllo delle grandi corporation multinazionali. Attraverso l’esempio paradigmatico della Standard Oil del New Jersey Sweezy e Baran illustrano come queste entità operino ormai su scala veramente globale. I loro immensi profitti derivano in misura sproporzionata dalle operazioni estere, dove i tassi di rendimento sono spesso molto più alti che sul mercato domestico. Queste corporation non sono semplicemente impegnate nel commercio di import-export ma in un complesso sistema di controllo monopolistico che include sussidiarie in decine di paesi, estrazione di risorse, produzione e distribuzione, permettendo loro di dettare termini privilegiati, eludere tasse e spostare la produzione a piacimento.

La Rivoluzione Cubana serve da caso di studio perfetto. Il “crimine” di Cuba non fu quello di interrompere il commercio con gli USA, continuò infatti a commerciare con altre nazioni capitaliste, ma di aver revocato i diritti e i privilegi monopolistici della Standard Oil, nazionalizzando le sue proprietà senza compenso e rompendo il sistema dei prezzi determinati dai cartelli. Per rimanere nel mercato cubano la corporation avrebbe dovuto accettare condizioni di mercato normali, minacciando così l’intera struttura dei profitti extra. La reazione violenta di Washington, quindi, fu determinata dalla necessità di fare di Cuba un esempio per tutto il “mondo libero”. La strategia di soffocare l’economia cubana aveva il triplice obiettivo di fomentare il malcontento interno per favorire una controrivoluzione, dimostrare agli altri paesi in via di sviluppo che la rivoluzione non paga e gravare il più possibile sull’economia del blocco socialista, in particolare sull’URSS, per dissuaderlo dal sostenere future rivoluzioni.

La posta in gioco non è la piccola Cuba ma la sopravvivenza stessa dell’intero sistema di sfruttamento imperialista. La necessità di un enorme e crescente apparato militare per l’oligarchia americana è quindi un logico e ineluttabile corollario del suo scopo strategico di proteggere e perpetuare gli interessi di profitto globale delle multinazionali, contenendo e, quando possibile, spingendo indietro il sistema socialista che di quegli interessi rappresenta la negazione più radicale. 

Dopo la vittoria a Cuba ogni precauzione è stata presa per non ripetere l’errore: ogni movimento rivoluzionario è divenuto automaticamente sospetto e nessun regime, per quanto reazionario, è stato considerato indegno di un sostegno incondizionato da parte degli Stati Uniti. Esso si articola in due forme principali, entrambe funzionali a questo obiettivo di controllo. La prima è quella del cosiddetto aiuto economico che in realtà viene dipinto come un sistema di elargizioni a oligarchie corrotte, concepito più per comprare la loro lealtà a Washington che per perseguire i reali interessi di sviluppo dei loro stessi paesi. A conferma di questa tesi viene citata l’ammissione di un alto funzionario governativo, D. A. Fitzgerald, secondo cui l’obiettivo primario degli aiuti esteri è spesso affrontare crisi politiche a breve termine mentre lo sviluppo economico è solo un risultato incidentale e non il fine.

La seconda e più incisiva forma di sostegno è però quella militare che a sua volta si manifesta in due modalità distinte. La prima è l’intervento diretto delle forze armate statunitensi sul territorio dei paesi clienti. Esso si realizza attraverso una vasta e pervasiva rete di basi militari, attraverso lo spiegamento “di emergenza” di truppe, come avvenuto in Thailandia nel 1962 e nella Repubblica Dominicana nel 1965, e infine attraverso missioni di addestramento e consulenza accreditate presso gli eserciti locali. Queste missioni sono presentate come un cavallo di Troia: il caso del Vietnam del Sud dimostra come possano essere rapidamente e quasi impercettibilmente trasformate in vere e proprie forze di combattimento contro-rivoluzionarie. 

La seconda modalità di aiuto militare è la fornitura di supporto materiale e finanziario agli eserciti dei paesi clienti. Sebbene i numerosi patti di assistenza militare siglati in tutto il mondo siano giustificati pubblicamente con la minaccia di un’aggressione sovietica o cinese, nessun serio pianificatore militare crede che questo sia lo scopo reale. Una tale minaccia, se esistesse, potrebbe essere contrastata solo dagli Stati Uniti stessi e il coordinamento con alleati deboli sarebbe più un elemento di debolezza che di forza. Il vero scopo, come chiaramente spiegato dallo studio di Edwin C. Lieuwen sull’America Latina citato nel libro, è politico: guadagnare l’amicizia e la cooperazione di questi paesi nelle sedi internazionali e, soprattutto, avvicinare i loro corpi ufficiali che esercitano un’enorme influenza sulla scena politica, agli Stati Uniti. L’obiettivo è escludere l’influenza sovietica, assicurare stabilità politica, mantenere l’accesso a materie prime strategiche e ottenere diritti per l’uso di basi. 

Questo sistema mondiale di macchine militari fedeli a Washington non elimina affatto la necessità di un enorme apparato militare all’interno degli Stati Uniti stessi. Con il crescere della protesta rivoluzionaria nei paesi sfruttati, è solo attraverso un intervento sempre più diretto e massiccio delle forze armate americane che il vecchio ordine può essere tenuto insieme ancora per un po’. Inoltre, con il passaggio alle armi nucleari e ai missili intercontinentali, viene meno persino la pretesa che il sistema globale di basi serva a proteggersi da un’aggressione sovietica. Poiché il socialismo è per sua natura un movimento internazionale, per gli Stati Uniti difendere il proprio impero significa combattere il socialismo ovunque esso esista, opponendosi a ogni rivoluzione e indebolendo ogni fonte di aiuto materiale o morale per esse. È il duplice impegno mondiale a favore dello status quo politico e sociale a definire e determinare le esigenze militari dell’oligarchia americana.

Soddisfare questo bisogno ha, per l’oligarchia, effetti interni diametralmente opposti a quelli di altre forme di spesa pubblica. A differenza degli investimenti in istruzione o welfare, che competono con gli interessi privati e minano i privilegi di classe, la spesa militare è un cliente ideale per il big business. È un affare redditizio e a basso rischio. Inoltre, sul piano sociale, il militarismo funziona come un potente disciplinante culturale. Incoraggia il rispetto per l’autorità, insegna atteggiamenti di docilità e conformità e tratta il dissenso come antipatriottico o addirittura sovversivo. In un tale clima l’oligarchia sente la propria autorità morale e la propria posizione materiale al sicuro. Questa analisi, che riecheggia le osservazioni di Thorstein Veblen, spiega il consenso bipartisan nel Congresso, dove i bilanci militari vengono approvati all’unanimità o con margini schiaccianti.

Tuttavia la funzione della spesa militare come “pompa” economica perpetua e garanzia di prosperità si è rivelata un’illusione. Baran e Sweezy identificano due limiti fondamentali. Il primo è di natura economica: la tecnologia bellica moderna (razzi, elettronica) richiede sempre più ricerca, sviluppo e manutenzione specializzata e sempre meno manodopera massificata e hardware standard. Ciò significa che una data somma di spesa militare crea molti meno posti di lavoro rispetto al passato e potrebbe non riuscire a raggiungere la piena occupazione, incontrando colli di bottiglia in competenze specialistiche prima di assorbire la disoccupazione di massa. Ironia della sorte, le tecnologie sviluppate per scopi militari spesso aumentano la produttività nel settore civile, riducendo ulteriormente la domanda di lavoro. Il secondo limite è militare-strategico: la corsa agli armamenti nucleari tra due potenze contrapposte rende entrambi i paesi militarmente più potenti ma nazionalmente meno sicuri, in una spirale autodistruttiva senza soluzioni tecniche. Questa consapevolezza ha portato a timidi tentativi di controllo degli armamenti, come il trattato sulla messa al bando parziale dei test, e a previsioni di una possibile riduzione della spesa per gli armamenti strategici.

Ciò non segnò la fine della Guerra Fredda o un reale disarmo. La battaglia si spostò nei teatri del Terzo Mondo, con un’enfasi crescente su forze di “contro-insurrezione”, guerre limitate e interventi diretti, come in Vietnam. Queste attività non sono state in grado di sostituire la corsa agli armamenti nucleari come motore per una spesa militare sufficientemente massiccia da sostenere l’economia. La domanda fatale del capitalismo monopolistico su come spendere per evitare la stagnazione, non avendo trovato risposta nel settore civile, si è insinuata subdolamente anche nell’establishment militare stesso rivelando una contraddizione profonda e irrisolta nel sistema.

4. Le critiche

La critica alla trattazione della spesa pubblica e dell’imposizione fiscale nell’opera di Baran e Sweezy secondo Amos Cecchi costituisce un passaggio teorico di fondamentale importanza e al tempo stesso problematico. Cecchi riconosce che, nonostante Baran e Sweezy colgano nel segno nel sottolineare il ruolo espansivo della spesa pubblica per la crescita economica e l’assorbimento del surplus, il loro ragionamento nel capitolo dedicato a questo tema si espone a una critica articolata e multi-livello. La prima e più evidente lacuna è la scelta dichiarata di lasciare in secondo piano la questione cruciale dell’origine della spesa pubblica, ossia se essa sia finanziata attraverso il deficit o attraverso l’imposizione fiscale. Questa non è una mera questione contabile ma un nodo che determina conseguenze distributive e dinamiche economiche profondamente diverse, la cui sottovalutazione indebolisce fin dall’inizio la solidità dell’analisi.

Il fulcro della critica si concentra su due assunti specifici e interconnessi presenti nell’opera: la capacità assoluta attribuita alla grande corporation monopolistica di trasferire il proprio onere fiscale sui consumatori, attraverso l’aumento dei prezzi, o sui lavoratori, attraverso la compressione dei salari, e la conseguente spiegazione dell’origine delle imposte. Baran e Sweezy sostengono con decisione che “il grande imprenditore moderno comprende di poter scaricare la maggior parte delle imposte relative o in avanti sui consumatori o all’indietro sui lavoratori”. Da questa premessa discende una conclusione di ampia portata: se lo Stato assorbe attraverso la spesa un surplus che, data la tendenza stagnazionistica del capitalismo monopolistico, non sarebbe altrimenti stato prodotto, allora tale operazione non sottrarrebbe risorse a qualcuno ma, al contrario, creerebbe reddito netto, riportando nella produzione capitale e lavoro che altrimenti rimarrebbero inutilizzati. In questa visione l’aumento continuo della spesa e dell’imposizione pubblica diventa, in ultima analisi, funzionale e addirittura nell’interesse di tutte le classi sociali poiché sostiene la domanda effettiva e scongiura la crisi.

Questa costruzione teorica, come evidenziato dallo studioso John Bellamy Foster, viene giudicata “chiaramente inadeguata”. La critica si appunta sul fatto che, se i lavoratori consumano normalmente quasi per intero i loro redditi, non si può logicamente sostenere che la parte prelevata loro dallo Stato sotto forma di imposte “non sarebbe altrimenti prodotta”. La principale condizione del ragionamento di Baran e Sweezy, quindi, non regge. La radice di questa inadeguatezza è identificata in uno “scarto” evidente rispetto all’elaborazione di Michal Kalecki e Josef Steindl, due autori a cui gli stessi Baran e Sweezy si richiamano in generale ma dai quali in questo specifico frangente si distanziano in modo netto e significativo.

È proprio la lente kaleckiana, profondamente attenta alle dinamiche di classe all’interno degli aggregati economici, a fornire gli strumenti per una critica sistematica. Kalecki, in scritti come Teoria delle imposte sui consumi, sul reddito e sul capitale, opera una distinzione chirurgica degli effetti di diverse tipologie di prelievo fiscale. Un’imposta sulle merci-salario, essendo un costo primo, si traduce direttamente in un aumento dei prezzi, spostando potere d’acquisto dai salariati ai percettori di sussidi e gravando in misura minima e indiretta sui capitalisti. Un’imposta sul reddito delle corporation, al contrario, non è un costo primo nel breve periodo e viene assorbita all’interno dei profitti lordi. Il suo effetto è di lasciare invariato il reddito totale dei capitalisti mentre probabilmente stimola l’occupazione, innescando una redistribuzione interna tra lavoratori già occupati e nuovi assunti e mostrando una sostanziale neutralità sulla propensione ad investire. Ancora più significativa è l’analisi di un’imposta sul capitale che, non configurandosi come costo primo neppure nel lungo periodo, ha l’effetto più marcatamente espansivo: accresce l’occupazione, i profitti lordi e, in modo cruciale, la propensione ad investire, portando a un aumento sensibile del reddito dei capitalisti (al netto dell’imposta) e dei salari reali complessivi. Tuttavia Kalecki stesso ne segnala con realismo l’impraticabilità politica in un sistema capitalistico poiché essa “sembra indebolire il principio della proprietà privata”.

La “non coerenza” del testo baran-sweeziano con questa impostazione è palese. L’opera, in questo capitolo, sembra più influenzata da un’ottica keynesiana che lavora su grandi aggregati economici senza distinzioni di classe che non da una prospettiva kaleckiana, la quale scava proprio nelle contraddizioni di classe alla base della formazione di quegli stessi aggregati. È interessante notare che questa posizione sia riconducibile in larga misura a Paul Sweezy, come attestato dal carteggio con Baran, e che rappresenti una distanza rispetto alle sue opere precedenti, come Teoria dello sviluppo capitalistico del 1942, e un’anticipazione di successivi ripensamenti. Già a metà degli anni ’60, analizzando le politiche economiche USA caratterizzate da tagli fiscali per le corporation e deficit pubblici crescenti, Sweezy avviò un percorso di autocritica, assieme a Huberman e poi con Magdoff, riconoscendo l’insostenibilità di un sistema che, attraverso questo meccanismo, innesca una perversa redistribuzione del reddito dai meno abbienti ai più abbienti.

Un punto di chiarezza teorica definitivo su questa intricata questione viene dalla riflessione di Craig Medlen, pienamente condivisa da Sweezy e Magdoff in un intervento del 1984. Medlen smonta il meccanismo del trasferimento delle imposte sul reddito delle società con un ragionamento microeconomico stringente. L’impresa oligopolistica, argomenta, fissa già i propri prezzi al livello che massimizza il profitto. Un’imposta che grava direttamente sui profitti, senza influire in via primaria su costi o ricavi, non può essere semplicemente scaricata alzando i prezzi perché una tale mossa sarebbe irrazionale e controproducente, allontanando l’impresa dal suo punto di ottimo e riducendo le sue quote di mercato. Di conseguenza questa imposta ricade principalmente sui proprietari del capitale. La conclusione politica che ne deriva è netta: una riforma fiscale progressiva che colpisca i profitti delle corporation non è solo una questione di giustizia sociale ma un potente impulso allo sviluppo economico, deviando verso la spesa pubblica produttiva un flusso di potere d’acquisto che altrimenti verrebbe destinato ad attività speculative o non produttive. Questo si contrappone radicalmente al circolo vizioso dei deficit pubblici finanziati da un’imposizione regressiva, un meccanismo socialmente ingiusto, moralmente corrosivo ed economicamente instabile che, soprattutto in un contesto di alti tassi di interesse, non fa che alimentare una spirale di disuguaglianza e stagnazione.

5. Arriva la stagflazione

Dopo la conclusione della stesura de Il capitale monopolistico con Paul Baran, Paul Sweezy non abbandona affatto la riflessione teorica ma la sviluppa e la articola in un contesto storico profondamente mutato. La sua elaborazione, pur non prendendo più la forma di un’opera organica e sistematica come quella che lo aveva reso celebre, prosegue con intensità attraverso un instancabile lavoro di intervento pubblico, caratterizzato da conferenze, dibattiti in varie parti del mondo e, soprattutto, attraverso una prolifica produzione sulla rivista Monthly Review. In questa nuova fase trova un collaboratore fondamentale in Harry Magdoff, subentrato alla direzione della rivista dopo la scomparsa di Leo Huberman. Insieme a Magdoff Sweezy dà vita a una serie di saggi, poi spesso raccolti in volumi come The Dynamics of US Capitalism, La fine della prosperità in America e The Deepening Crisis of U.S. Capitalism, che costituiscono il laboratorio del suo pensiero maturo.

Il panorama in cui si muove questa riflessione è radicalmente diverso da quello in cui era nato Il capitale monopolistico. L’ondata mondiale del Sessantotto, il Maggio francese e una nuova fase di lotte operaie in Europa creano un clima politico-culturale effervescente che riporta Marx e il marxismo critico al centro del dibattito. Il successo internazionale dell’opera baran-sweeziana, divenuta un punto di riferimento obbligato, e la crisi “ideale e materiale” del capitalismo che sembra confermarne le tesi di fondo spingono Sweezy a un ragionamento che non esita a essere anche autocritico rispetto ad aspetti specifici del libro, spingendolo a ridefinire il modello di funzionamento del sistema alla luce dei mutamenti strutturali in atto. La sua analisi si concentra così sul declino delle forze che avevano temporaneamente contrastato il trend al ristagno, sull’ingresso in una nuova fase di crisi generale post-età dell’oro e sul fenomeno nuovo e perturbante della stagflazione, ovvero la coesistenza di stagnazione e inflazione. È da questa base che la sua attenzione, progressivamente, si focalizza in modo sempre più penetrante sulla dinamica inedita assunta dalla finanza che da elemento accessorio diventa sempre più centrale nel reggere l’intero sistema.

Alcuni interpreti, come Michael Lebowitz e John Bellamy Foster, hanno letto in questa fase un cambiamento di rotta nel pensiero di Sweezy, ipotizzando che i concetti cardine di spreco e monopolio perdessero centralità a favore di quello di maturità del sistema capitalistico. Una disamina accurata dei testi sweeziani di questo periodo smentisce questa ricostruzione. Sweezy mantiene una linea teorica coerente e tenacemente ancorata al quadro concettuale del capitalismo monopolistico. La maturità di cui parla non è un’alternativa al monopolio ma ne è il contesto storico di piena realizzazione. Per Sweezy la maturità rappresenta la fase in cui il processo di industrializzazione si è compiuto, le sezioni produttive sono pienamente sviluppate e l’autonomia propulsiva della sezione I (dei beni strumentali) si è esaurita. È proprio in questo scenario che il monopolio, inteso come il “nuovo modus operandi del sistema”, dispiega appieno i suoi effetti, generando una tendenza forte, persistente e crescente alla sovraccumulazione e, quindi, alla stagnazione che diventa la “condizione normale” delle economie capitalistiche avanzate. Il monopolio non viene abbandonato ma anzi viene visto come un “processo storico in corso” che, rendendo il sistema più monopolistico, ne rafforza la tendenza alla stagnazione.

Un altro sviluppo teorico di grande rilievo riguarda la concettualizzazione del surplus. Sweezy opera una significativa chiarificazione ricollocando esplicitamente il plusvalore totale, il quale diventa quasi un sinonimo più esplicito del surplus, al centro dell’analisi. Egli spiega che la scelta terminologica di surplus non intendeva affatto rigettare la teoria marxiana del valore-lavoro ma serviva a segnare una discontinuità e a concentrare l’attenzione sulla nuova, differenziata e funzionale distribuzione del sovrappiù nella fase monopolistica. In questo capitalismo maturo il surplus/plusvalore non si manifesta più principalmente come reddito da proprietà (profitti, interessi, rendite) ma si articola in una moltitudine di forme: transita massicciamente attraverso la spesa pubblica (civile e militare), si deposita in parte nel salario, si espande enormemente nei costi di circolazione come la promozione delle vendite e, aspetto che diventerà cruciale, si assorbe attraverso il sistema finanziario. Il lavoro improduttivo, generato da queste forme di assorbimento, finisce per prevalere su quello produttivo nelle metropoli capitalistiche. Sweezy arriverà a esprimere rammarico per non aver esplicitato meglio questa continuità teorica con Marx, ammettendo che sarebbe stato necessario partire dalla teoria del valore-lavoro per poi mostrare come essa venga modificata prima dai prezzi di produzione e, nella fase attuale, dai prezzi di monopolio.

Insieme a Magdoff Sweezy ridefinisce ulteriormente la teoria dell’impresa e dell’accumulazione nel capitalismo monopolistico. L’impresa monopolistica, grazie alla sua forza tecnica, organizzativa e finanziaria, non può più accontentarsi di giocare un ruolo oligopolistico nel suo mercato tradizionale, dove la maturità del settore frena le possibilità di espansione. Spinta da un impulso interno a valorizzare l’enorme plusvalore che controlla, è obbligata a espandersi oltre i suoi confini storici, dando vita a due fenomeni epocali: la conglomerazione (diversificazione in settori diversi) e la multinazionalizzazione (espansione geografica). Il classico meccanismo per cui il capitale fluisce verso i settori a più alto saggio di profitto viene meno. Ciò che conta per l’impresa monopolistica è confrontare il profitto di un investimento addizionale in un nuovo settore con quello di un investimento addizionale nel suo campo tradizionale. Il sistema nel suo complesso vede dissolversi l’idea di un saggio medio del profitto, sostituito da una “gerarchia di saggi del profitto” determinata dalle barriere all’entrata di ciascun settore.

In una importante polemica teorica con gli esponenti della linea di Mattick (come Cogoy e Yaffe), Sweezy ha modo di precisare ulteriormente la sua posizione. Contro chi sosteneva l’irrilevanza del monopolio per la legge dell’accumulazione Sweezy ribadisce che il monopolio incide profondamente, elevando il saggio globale del plusvalore attraverso due canali: un trasferimento di plusvalore dai settori concorrenziali a quelli monopolistici e uno spostamento di valore dal salario al plusvalore. Contesta, inoltre, la centralità esclusiva data da alcuni marxisti alla legge della caduta tendenziale del saggio di profitto, sostenendo che la contraddizione fondamentale del capitale come valore che si autovalorizza sia piuttosto lo squilibrio tra la capacità di produrre e la capacità di consumare, una contraddizione che il capitalismo monopolistico, con la sua spinta all’aumento del saggio di plusvalore e di accumulazione, non fa che esacerbare. In questa fase la grande corporation, conglomerata e multinazionale, tende a staccarsi dall’operatività produttiva diretta per concentrarsi sempre più sulla finanza, divenendone soggetto primario e realizzando una “fusione di industria e finanza” che è l’essenza del capitalismo monopolistico contemporaneo.

La crisi degli anni ’70 e ’80, con il suo volto inedito della stagflazione, viene interpretata da Sweezy come la piena conferma della sua teoria. Con l’esaurirsi dei fattori straordinari che avevano sostenuto l’età dell’oro (la ricostruzione post-bellica, l’ondata di motorizzazione, l’egemonia USA e il sistema di Bretton Woods, l’innovazione tecnologica militare riversata nel civile, le guerre regionali e l’industria bellica permanente) riemerge in tutta la sua forza la tendenza al ristagno. La reazione protettiva del sistema, per evitare un tracollo come quello degli anni ’30, si scatena attraverso un ricorso massiccio e ormai strutturale all’indebitamento, sia pubblico che privato, e all’espansione monetaria. In un’economia dominata dai monopoli e dagli oligopoli questa iniezione di domanda non si traduce in un corrispettivo aumento della produzione e dell’occupazione ma si scontra con la capacità delle grandi imprese di amministrare i prezzi. Il risultato è un’inflazione persistente che coesiste con una cronica sottoutilizzazione della capacità produttiva e della forza-lavoro: la stagflazione, appunto.

Sweezy, che già in un vivace scambio epistolare con Baran e in una polemica andata a vuoto con Joan Robinson negli anni ’50 aveva intuito la possibilità che il capitalismo monopolistico potesse avere “il peggio di entrambi i mondi”, sviluppa ora compiutamente questa teoria. Spiega che l’impostazione keynesiana, la quale presupponeva un’economia concorrenziale in cui l’aumento della domanda portava a più occupazione fino al pieno impiego, fallisce miseramente in un contesto monopolistico. Qui l’aumento della domanda si traduce in inflazione ben prima di raggiungere la piena occupazione, rendendo la strategia keynesiana non solo inefficace ma controproducente. L’inflazione, una volta innescata, tende a strutturarsi nel sistema, innescando meccanismi di difesa (rivendicazioni salariali, aumenti preventivi dei prezzi) che la rendono cronica. La finanza allora cessa definitivamente la sua funzione tradizionale di servizio all’economia produttiva e diventa essa stessa un gigantesco e autonomo meccanismo di assorbimento del surplus, un pilastro strutturale per tenere in piedi un sistema la cui tendenza organica è ormai il ristagno ma la cui crisi si manifesta attraverso un debordante e instabile capitalismo finanziario.

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