Comunismo della decrescita: soluzione o scorciatoia?

Khoei Saito in Il capitale nell’Antropocene critica duramente gli Obiettivi di Sviluppo Sostenibile delle Nazioni Unite paragonandoli all’oppio dei popoli di marxiana memoria poiché distolgono l’attenzione dalla reale crisi climatica con soluzioni superficiali come l’uso di borse riutilizzabili o borracce che fungono da greenwashing senza affrontare il problema alla radice. Saito sostiene che queste azioni individuali, sebbene ben intenzionate, rischiano di assolvere la coscienza delle persone, impedendo un cambiamento radicale necessario per contrastare il riscaldamento globale. La situazione ambientale è descritta come irreparabile, con l’uomo che ha alterato profondamente il pianeta, tanto da far coniare il termine Antropocene per indicare l’era geologica dominata dall’impatto umano. Viene citato Paul Crutzen, premio Nobel per la Chimica, per sottolineare come le attività economiche abbiano modificato l’ambiente, con un’enorme diffusione di microplastiche negli oceani e un aumento senza precedenti della CO₂ atmosferica, passata da 280 ppm prima della Rivoluzione Industriale a oltre 400 ppm nel 2016. Questo incremento, paragonabile a livelli risalenti a quattro milioni di anni fa, potrebbe portare a un innalzamento catastrofico del livello dei mari e a un clima simile a quello del Pliocene. La crisi climatica minaccia la sopravvivenza stessa della civiltà umana, con le disuguaglianze sociali che si acuiscono. I ricchi potrebbero mantenere il loro stile di vita ma la maggior parte della popolazione sarà costretta a lottare per la sopravvivenza. Per Saito la vera causa della crisi climatica è nel capitalismo stesso, il cui sviluppo dalla Rivoluzione Industriale ha coinciso con l’aumento delle emissioni di CO₂. Per trovare una via d’uscita propone di rileggere Marx in modo innovativo, analizzando le connessioni tra capitale, società e natura nell’Antropocene non per riproporre un marxismo dogmatico ma per riscoprire aspetti del suo pensiero finora trascurati, nella speranza di immaginare una società più giusta e sostenibile.

1. Il cambiamento climatico

Saito analizza criticamente il rapporto tra capitalismo globale e crisi climatica partendo dalle controverse teorie economiche di William Nordhaus, premio Nobel 2018 per i suoi studi sull’economia dei cambiamenti climatici. Il suo approccio, sviluppato già nel 1991, proponeva un compromesso tra crescita economica e riduzione delle emissioni attraverso l’introduzione di una carbon tax. Il modello di Nordhaus prevedeva un aumento di 3,5°C della temperatura media globale entro il 2100 ma si è rivelato troppo permissivo, superando di gran lunga l’obiettivo di 1,5°C fissato dall’Accordo di Parigi come limite per evitare conseguenze catastrofiche. La situazione attuale dimostra come queste teorie abbiano di fatto legittimato l’inazione politica. Nonostante gli impegni formali, le proiezioni indicano che anche nel migliore dei casi si raggiungerebbero comunque +3,3°C, una cifra inquietantemente vicina alle previsioni di Nordhaus. Intanto il pianeta sta già sperimentando gli effetti del riscaldamento globale, con eventi estremi che si verificano con frequenza crescente. L’esempio più emblematico è forse il record di 38°C registrato in Siberia nel 2020, temperatura senza precedenti all’interno del Circolo Polare Artico, che minaccia di sciogliere il permafrost liberando enormi quantità di metano. Saito dimostra che questa crisi è strettamente legata alle disuguaglianze globali. I dati di Oxfam rivelano che il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile di oltre la metà delle emissioni globali di CO₂, mantenendo uno stile di vita insostenibile che Brand e Wissen hanno definito modello di vita imperiale. Questo sistema si basa sullo sfruttamento sistematico del Sud globale, sia in termini di risorse naturali che di forza lavoro a basso costo. Gli esempi abbondano, dalla produzione di olio di palma in Indonesia e Malesia (che ha distrutto vaste aree di foresta pluviale) alle tragiche condizioni dei lavoratori tessili in Bangladesh, dove il crollo del Rana Plaza nel 2013 causò oltre mille vittime. La teoria del sistema-mondo di Wallerstein viene ripresa per dimostrare come il capitalismo globale non solo sfrutti la manodopera delle periferie ma anche l’ambiente stesso. Disastri come quello della diga di Brumadinho in Brasile nel 2019, dove il cedimento di una struttura mineraria mal mantenuta uccise 250 persone e inquinò interi ecosistemi, mostrano la logica spietata di questo sistema. Come nota il sociologo Stephan Lessenich, i Paesi sviluppati hanno costruito la loro prosperità sull’esternalizzazione dei costi ambientali e sociali, rendendoli invisibili ai propri cittadini.

Per Saito la crisi climatica non può essere risolta senza affrontare le contraddizioni strutturali del capitalismo. Servono sia azioni immediate (come dimezzare le emissioni entro il 2030) sia un ripensamento radicale del sistema economico globale che finora ha dimostrato di privilegiare il profitto a breve termine rispetto alla sopravvivenza stessa del pianeta. I dati scientifici sono chiari: superare la soglia di 1,5°C significherebbe innescare meccanismi irreversibili, con conseguenze che colpiranno anche i Paesi più ricchi, dalle città costiere sommerse dall’innalzamento dei mari alla drastica riduzione della produzione agricola.

La nostra quotidianità è intrisa di pratiche che, mentre alleviano temporaneamente il senso di colpa per la crisi ecologica, come l’acquisto di borse riutilizzabili o magliette in cotone biologico, in realtà alimentano un ciclo di consumo insostenibile. Questi gesti apparentemente virtuosi, spinti da continue innovazioni di design e marketing, ci illudono di essere parte della soluzione mentre il sistema continua a depredare risorse e a sfruttare manodopera a basso costo nel Sud globale. Il greenwashing diventa così uno strumento per neutralizzare le critiche, permettendo al capitalismo di perpetuare un modello di sviluppo predatorio senza che i suoi veri costi siano mai messi in discussione. Come esempio di questi meccanismi Saito porta l’Olanda che dimostra come i paesi ricchi abbiano migliorato la qualità ambientale interna spostando altrove gli impatti più devastanti. L’Olanda, con la sua aria e acqua relativamente pulite, sembra un modello di sostenibilità ma questa apparente virtù nasconde una realtà ben più oscura visto che gran parte dell’inquinamento e dello sfruttamento delle risorse è stato semplicemente esportato verso il Sud del mondo, dove le popolazioni locali subiscono le conseguenze di un’economia globale che privilegia i consumi dei paesi sviluppati. Questo meccanismo si basa sull’illusione che il progresso tecnologico e la crescita economica possano risolvere magicamente i problemi ambientali, ignorando che il vero prezzo viene pagato altrove, sotto forma di terre impoverite, acque contaminate e comunità destabilizzate. L’Antropocene, l’epoca in cui l’attività umana domina gli ecosistemi planetari, è il risultato di questo sfruttamento sistematico. Il capitale ha saccheggiato senza sosta ogni risorsa disponibile, dal petrolio alle terre rare, trasformando intere regioni in periferie estrattive. Ma ora che queste periferie sono state sfruttate al limite, i costi stanno tornando al centro. I cambiamenti climatici, con i loro uragani, incendi e ondate di calore sempre più frequenti, non sono più una minaccia lontana, infatti stanno colpendo direttamente i paesi ricchi dimostrando che il modello di sviluppo attuale non è solo ingiusto ma anche autodistruttivo. Nonostante gli allarmi scientifici ripetuti da decenni il capitalismo ha continuato a privilegiare la crescita economica a breve termine, rinviando qualsiasi azione concreta. Già nel 1988 il climatologo James Hansen avvertì il Congresso degli Stati Uniti che il riscaldamento globale era inequivocabilmente legato all’attività umana e nello stesso anno nacque l’IPCC (Gruppo intergovernativo sul cambiamento climatico). Eppure, invece di agire, il mondo ha assistito al trionfo del neoliberismo post-Guerra fredda che ha accelerato il consumo di risorse. Si stima che circa metà di tutti i combustibili fossili bruciati nella storia dell’umanità sia stato consumato proprio a partire dal 1989. Trent’anni preziosi sono stati sprecati mentre la crisi climatica si aggravava. Greta Thunberg, con la sua denuncia impietosa, ha smascherato l’ipocrisia di un sistema che continua a parlare di “crescita sostenibile” mentre brucia il futuro delle nuove generazioni. Il suo messaggio è chiaro: finché il capitalismo anteporrà il profitto alla sopravvivenza del pianeta, non ci sarà alcuna soluzione reale. Marx, del resto, aveva già individuato le contraddizioni di questo sistema analizzando tre forme fondamentali di traslazione ovvero quella tecnologica (l’illusione che la tecnologia risolva magicamente i problemi ambientali, come nel caso dei fertilizzanti sintetici che hanno solo spostato l’impoverimento del suolo verso altre forme di inquinamento), quella spaziale (lo sfruttamento coloniale delle risorse altrui, come il guano del Perù che ha devastato ecosistemi e popolazioni locali) e quella temporale (la mentalità del “dopo di noi, il diluvio”, che scarica sui nostri discendenti i costi del nostro consumismo). Oggi, con l’esaurimento delle periferie globali, queste strategie di fuga stanno fallendo. I rifiuti di plastica che abbiamo scaricato negli oceani ritornano sulle nostre tavole sotto forma di microplastiche, i profughi climatici, in fuga da territori resi invivibili dalla siccità e dalla carestia, bussano alle nostre porte, le ondate di calore e gli eventi meteorologici estremi colpiscono anche l’Occidente. La pandemia da Covid-19 ha ulteriormente esposto queste contraddizioni. In Cile, ad esempio, l’acqua necessaria per lavarsi le mani è stata deviata verso le piantagioni di avocado destinate all’esportazione, lasciando la popolazione locale senza risorse idriche essenziali. Siamo dunque a un bivio storico. Come ha osservato Wallerstein, l’era dell’esternalizzazione illimitata è finita. Senza la possibilità di scaricare altrove i costi ambientali e sociali, il capitalismo globale è destinato a una crisi irreversibile. La scelta che ci attende è radicale: o abbracciamo un cambiamento sistemico o sprofonderemo in un caos di nazionalismi, disuguaglianze e collassi ecologici. Il monito di Rosa Luxemburg, “socialismo o barbarie”, risuona oggi con una nuova urgenza. Il tempo per soluzioni graduali è ormai esaurito e solo un ripensamento radicale del nostro modello di vita che ponga fine alla logica predatoria del capitale può evitare la catastrofe.

2. Riflessioni economiche di Saito

Il capitalismo, nella sua corsa sfrenata verso una crescita economica illimitata, non ha solo sfruttato il lavoro umano ma ha anche devastato l’ambiente, spingendo il pianeta verso una crisi ecologica senza precedenti. Per decenni i Paesi sviluppati hanno potuto ignorare le conseguenze di questo modello di sviluppo vivendo in un’illusoria bolla di prosperità mentre i costi ambientali venivano scaricati altrove, sulle spalle delle nazioni più povere e sulle generazioni future. Ma ora la realtà sta bussando alla porta con sempre maggiore insistenza. Gli ecosistemi stanno collassando, il clima impazzisce e i punti di non ritorno si avvicinano pericolosamente. In questo contesto drammatico il Green New Deal si presenta come una possibile via d’uscita, un tentativo di conciliare la salvaguardia del pianeta con la sopravvivenza del sistema capitalistico attraverso un keynesismo verde che promette di rilanciare l’economia mentre la trasforma in senso ecologico. L’idea, sostenuta con fervore da economisti come Thomas Friedman e Jeremy Rifkin, nonché da politici progressisti come Bernie Sanders e Yanis Varoufakis, è apparentemente seducente: massicci investimenti pubblici in energie rinnovabili, trasporti elettrici ed efficienza energetica creerebbero milioni di posti di lavoro ben retribuiti, stimolando la domanda e al contempo riducendo le emissioni di gas serra. Si tratterebbe, in sostanza, di ripetere il miracolo del New Deal rooseveltiano che salvò il capitalismo americano durante la Grande Depressione, applicandolo però alla crisi climatica. Le speranze riposte in questo progetto sono immense, tanto che alcuni parlano apertamente di una rivoluzione verde capace di rilanciare la crescita economica in modo sostenibile, trasformando la minaccia climatica in un’opportunità di business senza precedenti. Questa visione ottimista si scontra con una realtà fisica e biologica incontrovertibile dice Saito. Il nostro pianeta ha dei limiti ben precisi che non possono essere ignorati. Johan Rockström, scienziato di fama mondiale, ha identificato nove soglie critiche, i cosiddetti planetary boundaries, che, se superate, rischiano di innescare cambiamenti ambientali irreversibili e catastrofici. Tra queste troviamo il cambiamento climatico, la perdita di biodiversità, l’acidificazione degli oceani e l’alterazione dei cicli biogeochimici dell’azoto e del fosforo. Ebbene, la cruda verità è che l’umanità ha già oltrepassato quattro di queste soglie, spingendo il sistema Terra in un territorio pericolosamente instabile. In questo contesto perseguire una semplice “crescita verde” attraverso il Green New Deal significa affidarsi ciecamente alla possibilità di separare la crescita economica dall’impatto ambientale, un concetto noto come decoupling. Esso si presenta in due forme. La prima è quella relativa, dove le emissioni crescono meno del PIL grazie a miglioramenti nell’efficienza, e la seconda è di tipo assoluto, dove le emissioni diminuiscono nonostante la crescita economica. Mentre il primo è stato osservato in alcuni Paesi avanzati (anche se spesso a causa della delocalizzazione delle industrie inquinanti), il secondo rimane un fenomeno raro e generalmente temporaneo, legato più a crisi economiche che a reali progressi tecnologici. I dati raccolti da Tim Jackson, uno dei massimi esperti di economia ecologica, mostrano una realtà impietosa: a livello globale, le emissioni continuano ad aumentare a un tasso del 2,6% annuo, nonostante tutti i progressi tecnologici e gli sforzi di decarbonizzazione. Persino nei casi virtuosi, come la Germania o la Danimarca, dove si è osservato qualche timido segnale di decoupling assoluto, i risultati sono ben lontani da quanto necessario per rispettare gli accordi di Parigi che richiederebbero riduzioni annuali delle emissioni del 10% per limitare il riscaldamento globale a 1,5°C. Il problema fondamentale risiede in due trappole sistemiche del capitalismo che rendono impossibile una vera riconciliazione tra crescita economica e sostenibilità ecologica. La prima è la trappola della crescita economica. Ogni aumento del PIL, anche se ottenuto attraverso tecnologie più pulite, comporta un maggiore consumo di energia e risorse, rendendo sempre più difficile ridurre l’impronta ecologica complessiva. La seconda, ancora più insidiosa, è la trappola della produttività. In un sistema capitalistico ogni guadagno di efficienza si traduce in una pressione a produrre di più per mantenere i livelli di occupazione, annullando così i benefici ambientali potenziali. Queste dinamiche perverse spiegano perché, nonostante decenni di progresso tecnologico e di politiche ambientali, l’impatto ecologico dell’umanità continui a crescere inesorabilmente. Quando si analizzano i dati con onestà intellettuale emerge un quadro chiaro: l’idea che il capitalismo possa risolvere la crisi climatica semplicemente “tingendosi di verde” è un’illusione pericolosa. Il Green New Deal, per quanto ben intenzionato, rischia di essere solo l’ultima incarnazione di questa illusione, un modo per rimandare ancora una volta le scelte radicali che sarebbero necessarie. Come ha amaramente concluso lo stesso Rockström dopo anni di ottimismo, la crescita economica e la salvaguardia del clima sono obiettivi fondamentalmente incompatibili nel lungo periodo. Continuare a credere al contrario significa condannare il pianeta a un futuro di sempre maggiori perturbazioni ecologiche e sociali. La dura verità è che non esiste una soluzione tecnologica miracolosa che ci permetta di mantenere gli attuali livelli di consumo e crescita mentre salviamo il pianeta. Se vogliamo veramente affrontare la crisi ecologica dobbiamo avere il coraggio di mettere in discussione i dogmi fondamentali del nostro sistema economico come l’ossessione per la crescita infinita, il consumismo sfrenato, la disuguaglianza globale nella distribuzione delle risorse. Questo non significa tornare all’età della pietra ma piuttosto ripensare completamente cosa intendiamo per “progresso” e “benessere”, costruendo un’economia che operi entro i limiti ecologici del pianeta e che sia davvero al servizio delle persone e degli ecosistemi, non del profitto di pochi. Il Green New Deal potrebbe essere un primo passo in questa direzione ma solo se abbandona l’illusione del decoupling e affronta coraggiosamente la necessità di una profonda trasformazione del nostro modo di produrre, consumare e vivere. Il paradosso di Jevons rappresenta una delle contraddizioni più profonde nel rapporto tra progresso tecnologico e sostenibilità ambientale, dimostrando come i miglioramenti nell’efficienza energetica spesso portino a un aumento complessivo dei consumi anziché a una loro riduzione. Questo fenomeno, osservato per la prima volta dall’economista William Stanley Jevons nel 1856 riguardo all’uso del carbone nella rivoluzione industriale inglese, si ripete oggi in forme ancora più preoccupanti. Le energie rinnovabili, anziché sostituire i combustibili fossili, si stanno semplicemente aggiungendo al mix energetico globale per soddisfare una domanda in continua crescita, spinta proprio dall’illusione di un’energia più economica e abbondante. Questo meccanismo perverso si manifesta in ogni settore. Automobili più efficienti diventano più numerose e più grandi (come dimostra il boom dei SUV), elettrodomestici a basso consumo vengono usati più intensamente e in quantità maggiori e i presunti risparmi energetici vengono costantemente vanificati dall’aumento dei consumi complessivi. Il risultato è che il tanto celebrato decoupling tra crescita economica e impatto ambientale rimane prevalentemente un’illusione statistica, un gioco di prestigio che nasconde la continua espansione del nostro peso sul pianeta. Un altro esempio che dimostra come il mercato non possa risolvere la crisi ecologica è il “picco del petrolio”. Invece di portare a un naturale abbandono dei combustibili fossili come previsto da alcuni ottimisti, l’aumento dei prezzi ha semplicemente spinto le compagnie energetiche a sviluppare tecniche estrattive ancora più distruttive e costose, dalle sabbie bituminose allo shale oil, dimostrando come il capitalismo sia perfettamente capace di adattarsi alle crisi delle risorse senza per questo cambiare direzione. Le teorie di Jeremy Rifkin e altri profeti della terza rivoluzione industriale che immaginano una transizione dolce guidata dal mercato verso le energie rinnovabili si scontrano con la dura realtà di un sistema economico che, quando minacciato, reagisce intensificando lo sfruttamento delle risorse piuttosto che abbandonandole. Senza un intervento regolatorio radicale e senza la rottura delle logiche di accumulazione capitalista, ogni transizione ecologica rischia di essere solo un’operazione di facciata. La distribuzione scandalosamente ineguale delle responsabilità ambientali aggiunge un ulteriore livello di complessità alla crisi. Il 10% più ricco della popolazione mondiale è responsabile del 50% delle emissioni globali mentre il 50% più povero ne produce appena il 10%. Questo squilibrio non riguarda solo le differenze tra paesi ma soprattutto le disuguaglianze all’interno delle stesse società avanzate, dove una ristretta élite di super-ricchi (lo 0,1% della popolazione) con i suoi jet privati, yacht e residenze multiple ha un’impronta ecologica spropositata. Se le classi agiate dei paesi sviluppati riducessero il loro tenore di vita al livello medio europeo, le emissioni globali potrebbero crollare di un terzo, dimostrando che il problema non è la “crescita” in astratto ma il modello di consumo iper-lussuoso di una minoranza che sta divorando le risorse del pianeta. Saito poi prosegue ad elencare altre contraddizioni della transizione ecologica. Ad esempio le auto elettriche vengono presentate come soluzione miracolosa alla mobilità sostenibile. La produzione delle batterie al litio, però, richiede l’estrazione di minerali rari con conseguenze ambientali e sociali devastanti. In Cile l’estrazione del litio dalle saline sta prosciugando le falde acquifere in aree già aride minacciando interi ecosistemi e le comunità locali. Nella Repubblica Democratica del Congo l’estrazione del cobalto avviene in condizioni di lavoro disumane, con minori sfruttati e paghe da fame. Questo sistema di sfruttamento globale, perfettamente invisibile ai consumatori occidentali che acquistano auto “ecologiche”, dimostra come la nostra presunta transizione verde stia semplicemente spostando i costi ambientali e sociali verso i paesi più poveri, in una sorta di colonialismo ecologico del XXI secolo. Le tecnologie a emissioni negative (NET), spesso presentate come soluzione miracolosa per compensare le nostre emissioni, nascondono a loro volta problemi insormontabili. Il BECCS (Bio-Energy with Carbon Capture and Storage), considerato fondamentale negli scenari dell’IPCC per mantenere il riscaldamento sotto i 2°C, richiederebbe superfici agricole immense (equivalenti al doppio dell’India) per produrre la biomassa necessaria, con conseguenze disastrose per la sicurezza alimentare e gli ecosistemi naturali. Lo stoccaggio sotterraneo della CO2 presenta rischi di fughe e richiede quantità d’acqua proibitive mentre l’acidificazione degli oceani causata dallo stoccaggio marino potrebbe avere effetti catastrofici sulla vita marina. Anche in presenza di queste evidenti criticità la comunità internazionale continua a puntare su queste tecnologie speculative, in un pericoloso gioco d’azzardo con il futuro del pianeta. La dematerializzazione dell’economia, spesso celebrata come conseguenza della rivoluzione digitale, si rivela a sua volta un’illusione. L’industria tech consuma quantità enormi di energia e risorse, con data center che divorano elettricità e dispositivi elettronici che richiedono minerali sempre più rari. Il riciclo dei materiali rimane marginale (solo l’8,6% del totale) mentre la crescita esponenziale della produzione annulla qualsiasi progresso nell’efficienza. L’idea stessa di una crescita economica infinita in un pianeta finito si rivela sempre più chiaramente come una contraddizione insostenibile, un dogma economico che sta portando il sistema Terra verso punti di non ritorno sempre più pericolosi. Di fronte a questa realtà le proposte di Green New Deal che non mettono in discussione la logica della crescita infinita appaiono sempre più come operazioni di greenwashing su scala globale. La vera soluzione richiederebbe invece una decrescita selettiva e pianificata dei settori più distruttivi, una radicale redistribuzione della ricchezza e l’abbandono del modello di consumo iper-lussuoso delle élite globali. Questo non significherebbe un ritorno al passato ma la costruzione di un nuovo modello di società basato sulla sufficienza anziché sull’accumulazione, sulla cooperazione anziché sulla competizione, sulla qualità della vita anziché sulla quantità di merci consumate. Una transizione che, per quanto difficile e impopolare, rappresenta l’unica via reale per evitare il collasso ecologico e costruire un futuro davvero sostenibile per l’umanità e per il pianeta che abitiamo.

Saito sostiene che il capitalismo contemporaneo, nella sua forma globalizzata e finanziarizzata, sia strutturalmente incapace di rispondere alla crisi climatica perché il suo funzionamento dipende da tre pilastri interdipendenti e insostenibili: l’espansione costante dei mercati, l’accumulazione illimitata di capitale e lo sfruttamento sistematico delle risorse naturali. Attraverso un’analisi storica ed economica dettagliata viene mostrato come i tentativi di conciliare crescita economica e sostenibilità ambientale (dalla “crescita verde” alle varie forme di capitalismo sostenibile) si siano rivelati dei fallimenti poiché non affrontano le radici strutturali del problema. La teoria dell’economia a ciambella di Kate Raworth viene esaminata come quadro concettuale alternativo che ridefinisce i parametri dello sviluppo sostenibile stabilendo due confini fondamentali: una base sociale minima (che include accesso a cibo, acqua, energia, istruzione e servizi sanitari) al di sotto della quale nessuna società può considerarsi giusta e un tetto ambientale massimo (definito dai planetary boundaries) oltre il quale si mette a rischio la stabilità degli ecosistemi. L’analisi dimostra come le società industrializzate abbiano ampiamente superato i limiti ecologici mentre gran parte della popolazione mondiale rimane al di sotto della soglia minima di benessere. Studi quantitativi approfonditi, come quelli di Daniel O’Neill, rivelano che colmare questo divario richiederebbe un aumento relativamente modesto delle risorse globali. Appena l’1% in più di produzione alimentare basterebbe a sfamare 850 milioni di persone che soffrono la fame, lo 0,2% del reddito mondiale sarebbe sufficiente a sollevare dalla povertà estrema oltre un miliardo di individui, garantire l’accesso all’elettricità a 1,3 miliardi di persone comporterebbe solo l’1% di emissioni aggiuntive. Questi dati dimostrano che il problema non è la scarsità assoluta di risorse ma la loro distribuzione profondamente iniqua e il modello economico che privilegia l’accumulazione di ricchezza per pochi rispetto al benessere collettivo. Saito cerca di attaccare anche il mito secondo cui la crescita economica sia sinonimo di benessere analizzando casi concreti come quello degli Stati Uniti dove nonostante un PIL pro capite tra i più alti al mondo ampie fasce della popolazione non hanno accesso a servizi essenziali come sanità e istruzione, a differenza di molti paesi europei con livelli di PIL inferiori ma sistemi di welfare più avanzati. Questo paradosso dimostra che la qualità della vita dipende più dall’organizzazione sociale e dalla distribuzione della ricchezza che dalla crescita economica in sé. Saito esamina poi quattro possibili scenari futuri che potrebbero emergere dalla crisi climatica in corso, ciascuno con le sue dinamiche sociali, economiche e politiche specifiche. Il fascismo climatico rappresenta uno scenario distopico in cui una ristretta élite economica e politica si protegge dagli effetti più devastanti del collasso ambientale attraverso misure autoritarie e repressive creando enclavi fortificate di privilegio mentre la maggior parte della popolazione viene abbandonata al suo destino. Lo Stato selvaggio descrive invece un collasso completo delle istituzioni e un ritorno alla legge del più forte, dove la competizione per risorse sempre più scarse porta a una guerra generalizzata di tutti contro tutti. Il maoismo climatico prefigura un regime autoritario che impone drastiche misure ecologiche attraverso un controllo centralizzato dell’economia e della società, sacrificando le libertà individuali in nome della sopravvivenza collettiva. Infine, lo scenario alternativo (indicato come “X”) delinea una via d’uscita democratica e partecipativa, basata su principi di giustizia sociale, equa redistribuzione delle risorse e rispetto dei limiti ecologici, dove la decrescita non viene imposta dall’alto ma emerge da un processo collettivo di riorganizzazione sociale ed economica. La decrescita viene presentata come un profondo riorientamento del sistema produttivo e dei valori sociali, dove il benessere collettivo prevale sull’accumulazione privata, la qualità della vita sostituisce il consumismo come indicatore di progresso e le relazioni sociali ed ecologiche vengono valorizzate rispetto alla logica del profitto. Saito cerca di rispondere in modo articolato alle critiche secondo cui la decrescita condannerebbe le società alla povertà osservando che il capitalismo contemporaneo ha già creato condizioni di precarietà diffusa nonostante la crescita economica, con salari stagnanti, debiti crescenti, un sempre maggiore divario tra ricchi e poveri e un deterioramento della qualità della vita per la maggior parte della popolazione. Particolarmente significativa è l’analisi del ruolo delle nuove generazioni, in particolare la Generazione Z, che sta sviluppando una critica radicale al sistema capitalistico e sta spingendo per un cambiamento strutturale, come dimostrano i movimenti per la giustizia climatica e il sostegno a proposte come il Green New Deal. Figure come Greta Thunberg incarnano questa nuova consapevolezza ecologica e sociale che rifiuta le false soluzioni del capitalismo verde e chiede una trasformazione profonda del modello economico e sociale. Vengono anche esaminate le contraddizioni interne a queste proposte riformiste mostrando come anche le versioni più radicali di Green New Deal spesso non mettano in discussione i fondamenti della crescita economica e del sistema capitalistico. Il Green New Deal, nelle sue formulazioni più diffuse (come quelle proposte da figure quali Bernie Sanders, Robert Pollin e Noam Chomsky), rappresenta sì un tentativo di superamento delle politiche neoliberiste e dell’austerity ma rimane fondamentalmente ancorato ai paradigmi del sistema capitalistico. Questo approccio finisce per configurarsi come una misura di compromesso che non mette realmente in discussione le strutture portanti dell’economia contemporanea, mantenendo intatta la logica della crescita economica come obiettivo primario. Non a caso il Green New Deal progressista, pur differenziandosi dalle versioni più moderate di crescita verde (come quelle proposte da Thomas Friedman), condivide con esse un terreno comune: l’accettazione del quadro capitalistico come orizzonte insuperabile. Questo limite strutturale rende il Green New Deal incapace di affrontare radicalmente la crisi climatica poiché il perseguimento della crescita economica, anche nella sua versione verde, rimane incompatibile con un autentico decoupling tra sviluppo economico e impatto ambientale. Per Saito finché si opera all’interno del sistema capitalistico qualsiasi tentativo di riduzione dell’impatto ambientale è destinato a rimanere parziale e insufficiente poiché il capitalismo è strutturalmente dipendente dalla crescita e dall’espansione continua. Di fronte a queste contraddizioni Saito approfondisce il concetto di decrescita come alternativa radicale al paradigma della crescita analizzando le sue diverse formulazioni, distinguendo tra le versioni più tradizionali (come quelle proposte da Serge Latouche o dagli economisti giapponesi Hiroi Yoshinori e Saeki Keishi) e una nuova teoria della decrescita più radicale. Le versioni tradizionali vengono criticate per il loro tentativo di conciliare decrescita e capitalismo mantenendo intatti i meccanismi di mercato e la proprietà privata. Questo approccio è destinato al fallimento perché il capitalismo è per sua natura incompatibile con la decrescita: il moto perpetuo dell’accumulazione, la ricerca del profitto e l’espansione continua sono elementi costitutivi del sistema capitalistico che non possono essere semplicemente “moderati” o “regolati”. Particolarmente significativa è l’analisi che Saito compie del pensiero di Slavoj Žižek in relazione alle proposte di Joseph Stiglitz. Mentre Stiglitz immagina un capitalismo progressista caratterizzato da maggiore regolamentazione, tassazione progressiva e politiche redistributive, Žižek sostiene che questa visione sia utopica, in quanto il capitalismo non può essere riformato in modo sostanziale senza smantellarne le fondamenta. Saito ricorda come ogni tentativo storico di limitare la dinamica espansiva del capitale (come nel periodo keynesiano del secondo dopoguerra) sia stato sistematicamente neutralizzato dalla controffensiva neoliberista, dimostrando la resistenza strutturale del sistema a qualsiasi cambiamento che ne limiti la capacità di accumulazione. Il caso del Giappone, con il suo “trentennio perduto” di stagnazione economica, viene analizzato come esempio concreto delle contraddizioni di una decrescita non pianificata all’interno del sistema capitalistico. Contrariamente alle tesi di alcuni economisti che vedono nel modello giapponese un possibile esempio di società stazionaria, Saito sostiene che la stagnazione in contesto capitalistico abbia prodotto non una transizione verso la sostenibilità ma un aumento delle disuguaglianze, una precarizzazione del lavoro e un inasprimento della competizione sociale. Questo esempio serve a distinguere chiaramente tra una semplice contrazione economica (come quella causata da crisi o pandemie) e una vera decrescita pianificata che deve necessariamente essere accompagnata da una trasformazione radicale dei rapporti sociali ed economici.

3. Saito e il comunismo della decrescita

Saito si propone di riabilitare il pensiero di Karl Marx come strumento critico fondamentale per affrontare la crisi ecologica globale, sfidando le interpretazioni tradizionali che lo associano a modelli statalisti e produttivisti falliti, come quelli dell’Unione Sovietica o della Cina maoista. Riconosce che nell’immaginario collettivo il marxismo è spesso legato a regimi autoritari e a un’economia pianificata dall’alto, con conseguenze disastrose sia sul piano politico che ambientale. Sostiene che questa rappresentazione sia riduttiva e che, soprattutto negli ultimi anni, si stia assistendo a un rinnovato interesse per Marx, in particolare tra le giovani generazioni che vedono nel capitalismo la radice delle disuguaglianze sociali e della catastrofe climatica. Uno dei motivi di questo rilancio è la crescente consapevolezza che il capitalismo, nella sua ricerca infinita di profitto e crescita, abbia portato il pianeta sull’orlo del collasso ecologico. Di fronte a questa crisi, l’idea che non ci siano alternative al sistema dominante comincia a vacillare. Sondaggi recenti, soprattutto negli Stati Uniti, mostrano che molti giovani preferirebbero un sistema socialista a quello capitalista, segnale di un malessere diffuso verso un modello economico percepito come insostenibile e ingiusto. Ma perché tornare proprio a Marx e non ad altri pensatori critici del capitalismo? La risposta di Saito è che Marx, se riletto oltre le vecchie interpretazioni dogmatiche, offre strumenti teorici potenti per ripensare un’alternativa radicale al sistema attuale. In particolare il filosofo giapponese si concentra sul concetto di comune inteso come una forma di gestione collettiva e democratica delle risorse essenziali, dall’acqua alla terra, dall’energia all’istruzione, che sfugga sia alla logica mercificatrice del neoliberismo sia al controllo statale burocratico del socialismo reale. Questa idea, sviluppata da autori a noi molto cari come Antonio Negri e Michael Hardt nella tetralogia che ebbe inizio con Impero, rappresenta una terza via tra il capitalismo e il centralismo sovietico, puntando invece a una società in cui i beni fondamentali siano amministrati direttamente dalle comunità in modo orizzontale e partecipativo. L’economista giapponese Uzawa Hirofumi, con la sua teoria del Social Common Capital, ha contribuito a questa riflessione sostenendo che una società davvero prospera richiede la tutela di beni condivisi, come l’ambiente, le infrastrutture pubbliche e i servizi sociali, che non possono essere lasciati né al mercato né allo Stato ma devono essere gestiti attraverso meccanismi comunitari. Tuttavia mentre Uzawa affida la gestione di questi beni a esperti, la prospettiva marxista radicale insiste su un controllo democratico e dal basso, con l’obiettivo ultimo di espandere sempre più la sfera del comune fino a superare del tutto il capitalismo. Marx stesso, del resto, non concepiva il comunismo come un sistema statalizzato ma come una società in cui i produttori avrebbero gestito direttamente e in comune i mezzi di produzione. Un passaggio chiave del primo libro del Capitale descrive questo processo come la negazione della negazione, prima il capitalismo espropria i lavoratori dai mezzi di produzione (accumulazione originaria), poi i lavoratori, riappropriandosene attraverso la lotta, li restituiscono alla collettività non come proprietà privata né statale ma come bene comune. Questo schema astratto, per Saito, contiene in nuce l’idea di un’alternativa ecologica al capitalismo poiché presuppone una gestione sostenibile e condivisa della Terra, liberata dalla logica predatoria del profitto. Slavoj Žižek ha ripreso questa prospettiva sostenendo che il capitalismo globale oggi minaccia quattro beni comuni fondamentali: la cultura (mercificata dall’industria dei contenuti), la natura esterna (devastata dall’estrattivismo), la natura interna (manipolata dalle biotecnologie) e l’umanità stessa (ridotta a forza lavoro precaria). Per Žižek la difesa di questi beni giustifica una rinascita del comunismo, inteso non come ritorno al socialismo di Stato, ma come ricostruzione di un tessuto sociale ed ecologico basato sulla condivisione. Marx, in realtà, usava raramente i termini comunismo o socialismo, preferendo parlare di associazioni, ovvero forme spontanee di cooperazione che anticipavano una società post-capitalista. Saito cita l’antropologo David Graeber per ricordare che molte istituzioni del welfare moderno, dalle biblioteche pubbliche agli ospedali, nacquero proprio da iniziative associative prima di essere inglobate dallo Stato. A partire dagli anni ’80 il neoliberismo ha smantellato queste reti di mutualismo, privatizzando o indebolendo i servizi pubblici. Oggi tornare al keynesismo statale non basta. In un’epoca di crisi climatica globale servono modelli che superino sia il mercato sia lo Stato-nazione, puntando a una gestione transnazionale e democratica dei beni comuni. Per comprendere appieno questa potenzialità rivoluzionaria del pensiero marxiano Saito invita a guardare oltre le opere canoniche, esplorando gli scritti inediti di Marx, molti dei quali sono ancora poco studiati. La nuova edizione critica MEGA (Marx-Engels-Gesamtausgabe), che raccoglie l’intero corpus dei manoscritti marxiani, sta portando alla luce appunti e riflessioni che rivelano un Marx molto diverso da quello del Manifesto del Partito comunista. Mentre il giovane Marx esaltava lo sviluppo delle forze produttive come motore della storia, il Marx maturo, soprattutto dopo il fallimento delle rivoluzioni del 1848 e la crisi del 1857, avrebbe abbandonato questa visione progressista elaborando una critica più radicale al capitalismo come sistema non solo ingiusto ma anche ecologicamente distruttivo. La visione progressista della storia attribuita a Marx (e ripresa dal marxismo ortodosso) si basa su due pilastri problematici: il primato della produzione (l’idea che l’aumento della produttività porti necessariamente a una società migliore) e l’eurocentrismo (la convinzione che il modello occidentale di sviluppo sia universale). Questa prospettiva ha portato a sottovalutare i danni ambientali e a legittimare politiche industriali insostenibili, contribuendo alla crisi ecologica. Per Saito il tardo Marx ha superato queste posizioni, riconoscendo i limiti ecologici del capitalismo e immaginando un’alternativa fondata sulla gestione comune e sostenibile delle risorse. La teoria metabolica sviluppata da Karl Marx rappresenta una delle più profonde e anticipatrici critiche ecologiche al capitalismo, un’analisi che affonda le radici nella sua rilettura del rapporto tra uomo e natura attraverso il prisma del concetto di ricambio organico (Stoffwechsel). Questo sviluppo teorico non fu un’illuminazione improvvisa ma il frutto di un lungo percorso intellettuale che vide Marx confrontarsi con le più avanzate ricerche scientifiche del suo tempo, in particolare con i lavori del chimico agrario Justus von Liebig la cui analisi dell’agricoltura industriale e dello sfruttamento intensivo dei suoli ebbe un impatto rivoluzionario sul pensiero marxiano. Nella settima edizione della sua opera fondamentale, Die organische Chemie in ihrer Anwendung auf Agricultur und Physiologie del 1862, Liebig dimostrava come il capitalismo agricolo, nella sua frenesia produttivistica, stesse compromettendo irreversibilmente la fertilità del suolo attraverso il sistematico impoverimento dei nutrienti, un processo che egli definì rapina della terra. Marx, che già nel Capitale aveva iniziato a elaborare una teoria dello sfruttamento che includeva sia il lavoro umano che le risorse naturali, trovò in Liebig la conferma scientifica della sua intuizione fondamentale: il capitalismo non solo aliena il lavoratore dal proprio lavoro ma aliena l’intera società dai suoi fondamenti naturali, creando una frattura insanabile nel metabolismo uomo-natura. Questa frattura metabolica diventa nella riflessione marxiana matura il concetto chiave per comprendere la crisi ecologica del capitalismo. Marx osserva come tutti gli organismi viventi, compreso l’essere umano, siano inseriti in complessi cicli di scambio materiale con l’ambiente. Pensiamo al salmone che risale i fiumi morendo dopo la deposizione delle uova e fertilizzando con il suo corpo le foreste circostanti, alle foglie che cadono dagli alberi e nutrono il suolo; all’acqua che evapora dagli oceani e ritorna come pioggia, tutti esempi di quel metabolismo naturale che il capitalismo industriale interrompe con la sua logica estrattiva. L’essere umano, attraverso il lavoro, media il proprio rapporto con la natura ma mentre nelle società premoderne questa mediazione avveniva in forme sostanzialmente sostenibili (seppur con eccezioni, come dimostrano i casi di deforestazione nell’antichità), il capitalismo trasforma questo rapporto in un processo unidirezionale di saccheggio. La grande industria agricola, analizzata da Marx attraverso gli studi di Liebig, non restituisce al suolo i nutrienti sottratti ma li concentra nelle città sotto forma di cibo e rifiuti, interrompendo il ciclo naturale della rigenerazione. Le foglie e gli escrementi che nelle società contadine tornavano ai campi come concime nelle metropoli industriali si accumulano come immondizia, contaminando fiumi e falde acquifere. Questa intuizione si approfondisce e si radicalizza negli ultimi quindici anni di vita di Marx, come dimostrano i suoi quaderni di appunti recentemente pubblicati nella MEGA. In questi scritti Marx estende la sua analisi ecologica ben oltre la questione agricola, studiando con impressionante ampiezza discipline come la geologia, la chimica, la botanica e la fisiologia. Particolarmente significativi sono i suoi studi sull’opera di Karl Fraas, Klima und Pflanzenwelt in der Zeit del 1847, in cui l’agronomo tedesco dimostrava come il disboscamento intensivo avesse alterato i microclimi e contribuito al collasso di antiche civiltà come quella mesopotamica, egizia e greca. Marx vede in queste ricerche la conferma che la frattura metabolica non è un fenomeno limitato al capitalismo moderno ma rappresenta una tendenza ricorrente nelle civiltà che perseguono uno sviluppo antiecologico, sebbene con il capitalismo questa tendenza raggiunga un’inedita scala globale. L’interesse di Marx per le ricerche di William Stanley Jevons sul picco del carbone dimostra inoltre come egli avesse intuito il problema dell’esaurimento delle risorse non rinnovabili, un tema che diventerà centrale nell’ecologia politica del Novecento. Parallelamente a queste ricerche scientifiche Marx sviluppa una radicale autocritica delle sue precedenti posizioni eurocentriche e produttiviste. Se negli scritti giovanili, come gli articoli sull’India del 1853, aveva visto nel colonialismo britannico un “male necessario” per modernizzare società considerate statiche, negli ultimi anni approfondisce lo studio delle società precapitalistiche e non occidentali, scoprendo in esse forme di organizzazione sociale ed economica alternative. I suoi appunti sulle comuni rurali russe, sulle comunità indigene americane e sui sistemi di proprietà collettiva in India e Algeria rivelano un Marx profondamente diverso da quello stereotipato del determinismo storico. In particolare la sua corrispondenza con i populisti russi e la famosa lettera a Vera Zasulič del 1881 dimostrano come egli avesse abbandonato l’idea che tutte le società dovessero necessariamente passare attraverso la fase capitalistica, aprendo alla possibilità che paesi come la Russia potessero costruire il socialismo a partire dalle loro tradizioni comunitarie, saltando la fase della distruzione capitalistica. Questa evoluzione teorica ha implicazioni rivoluzionarie per la concezione marxiana del socialismo. Se nel Manifesto del Partito Comunista il socialismo era visto principalmente come l’erede e il completamento dello sviluppo delle forze produttive capitalistiche, negli ultimi scritti emerge una visione radicalmente diversa: il socialismo come riconciliazione metabolica tra uomo e natura, come ripristino consapevole di quei cicli ecologici che il capitalismo ha spezzato. Marx arriva a concepire una forma di ecosocialismo ante litteram in cui la pianificazione democratica dell’economia deve tener conto della giustizia sociale e degli equilibri ecologici. La riduzione dell’orario di lavoro, tema caro a Marx negli ultimi anni, non è più solo una rivendicazione di giustizia distributiva ma diventa una necessità ecologica perché meno lavoro significa meno produzione, meno spreco, meno pressione sulle risorse naturali. Questa riflessione ecologica del Marx maturo sfida alcune delle interpretazioni più consolidate del marxismo. La famosa frase del Capitale secondo cui il paese industrialmente più sviluppato mostra a quello meno sviluppato l’immagine del suo futuro viene radicalmente ripensata alla luce della consapevolezza che quel futuro potrebbe essere ecologicamente insostenibile. Allo stesso tempo, Marx evita sia l’ottimismo tecnologico che vede nella crescita delle forze produttive la soluzione a tutti i problemi, sia il catastrofismo che considera il collasso ecologico inevitabile. La sua analisi della frattura metabolica non è una profezia di sventura ma la base per una critica scientifica del capitalismo che punti a un’alternativa concretamente realizzabile. L’attualità di questa riflessione è straordinaria. Mentre la crisi climatica globale dimostra la validità dell’analisi marxiana della frattura metabolica, i movimenti ecosocialisti contemporanei trovano in questi scritti tardivi di Marx un fondamento teorico solido per coniugare giustizia sociale e sostenibilità ecologica. La lezione più profonda che emerge da questa rilettura è che il socialismo, per essere all’altezza delle sfide del XXI secolo, non può limitarsi a redistribuire più equamente i prodotti dello sfruttamento capitalistico della natura ma deve trasformare radicalmente il modo in cui la società umana si inserisce nei cicli naturali. L’ecosocialismo marxiano rappresenta il compimento più coerente e necessario del pensiero originario di Marx. Tracce di questo Marx si trovano, per Saito, anche nella Critica al programma di Gotha del 1875 dove il concetto di genossenschaftliche Reichthum (ricchezza collettiva) assume il significato di una completa riconcettualizzazione delle relazioni economiche basata su principi comunitari e anti-mercantili, dove la ricchezza non è più misurabile in termini di accumulazione di merci ma come qualità delle relazioni sociali e armonia con l’ambiente naturale. Questa visione, che Saito chiama comunismo della decrescita rappresenta una rottura epistemologica tanto con il marxismo ortodosso successivo, rimasto ancorato al mito dello sviluppo illimitato delle forze produttive, quanto con le varie forme di ecosocialismo che, pur riconoscendo la crisi ambientale, continuano a credere nella possibilità di una crescita economica sostenibile e verde. L’originalità e l’attualità della posizione marxiana stanno proprio nel riconoscere che la vera alternativa al capitalismo non può prescindere da un superamento dell’ideologia della crescita infinita, aprendo così la strada a una riconciliazione tra umanità e natura che passa attraverso la riscoperta di quei principi comunitari che le società pre-capitalistiche avevano sviluppato in forme diverse. Questa fondamentale svolta teorica è rimasta largamente inesplorata e sottovalutata sia per la morte prematura di Marx, che lasciò incompiuta la sua opera maggiore, sia per l’egemonia successiva di un marxismo riduzionista e produttivista che, attraverso l’opera di Engels e poi dei movimenti socialisti e comunisti del Novecento, ha finito per oscurare gli aspetti più radicali e innovativi del pensiero dell’ultimo Marx.

Il comunismo della decrescita si contrappone ad altre opzioni politiche diventate di moda negli ultimi anni come l’accelerazionismo di sinistra rappresentato da pensatori come Aaron Bastani che propone un comunismo di lusso completamente automatizzato basato sull’idea che l’innovazione tecnologica, dalle energie rinnovabili alla carne sintetica, dall’estrazione mineraria spaziale all’intelligenza artificiale, possa risolvere magicamente i problemi ecologici senza rinunciare alla crescita economica. Secondo questa visione il capitalismo, pur essendo un sistema ingiusto, ha il merito di sviluppare le forze produttive a un livello tale da rendere possibile, in un futuro prossimo, un’abbondanza post-scarsità dove i beni saranno così economici e accessibili da rendere superflua la lotta per le risorse. Questa prospettiva viene smontata pezzo per pezzo da Saito perché non solo ignora i limiti fisici del pianeta (il cosiddetto paradosso di Jevons per cui l’aumento dell’efficienza energetica non riduce i consumi ma li stimola) ma anche perché riproduce una forma di imperialismo ecologico in cui lo sfruttamento delle risorse del Sud globale viene semplicemente spostato su nuovi fronti, dall’estrazione di litio e cobalto alla colonizzazione dello spazio. L’accelerazionismo, inoltre, si fonda su una fiducia acritica nella tecnocrazia delegando a esperti e politici il compito di guidare la transizione attraverso riforme top-down, senza coinvolgere le masse in un reale processo di trasformazione sociale. Questo approccio, definito politicismo, è destinato a fallire perché sottovaluta il potere strutturale del capitale, che condiziona ogni tentativo di riforma dall’interno, svuotandolo di senso. La storia dimostra che lo Stato, da solo, non può imporre leggi che contrastino gli interessi del capitale senza incontrare una resistenza feroce, come dimostrano i casi di nazionalizzazioni fallite o di politiche ambientali annacquate sotto la pressione delle lobby. Per questo l’accelerazionismo finisce per essere nient’altro che una versione progressista del capitalismo della Silicon Valley in cui la retorica della sostenibilità nasconde la perpetuazione di un modello di consumo insostenibile, basato sull’obsolescenza programmata, sul superfluo e sullo sfruttamento del lavoro e della natura. Di fronte a queste illusioni il comunismo della decrescita non propone un ritorno al passato o un rifiuto della tecnologia ma un riorientamento completo dell’economia verso la sufficienza anziché l’accumulazione, la cooperazione anziché la competizione, la democrazia diretta anziché il governo delle élite.

Uno degli esempi più concreti di questa alternativa è rappresentato dalle assemblee cittadine sul clima emerse dai movimenti di base come Extinction Rebellion e i gilet gialli. Queste assemblee, dove i partecipanti sono scelti a sorte per garantire una rappresentanza autentica, hanno prodotto proposte ben più radicali di quelle dei governi, come la tassazione dei grandi patrimoni, il divieto di pubblicità per i SUV, o l’inserimento dell’ecocidio nel diritto penale. Ciò dimostra che quando la democrazia viene liberata dalla gabbia del parlamentarismo e del lobbismo è capace di soluzioni audaci che mettono in discussione lo status quo. Il principale ostacolo a questa trasformazione è la sussunzione reale della vita sotto il capitale, cioè la dipendenza totale degli individui dal sistema produttivo capitalistico che li ha privati delle capacità autonome di sopravvivenza (dalla produzione del cibo alla costruzione di abitazioni) rendendoli schiavi del consumo. Senza un’inversione di tendenza questa condizione di impotenza rischia di perpetuarsi, anche perché il capitale, attraverso la separazione tra concezione ed esecuzione del lavoro, ha monopolizzato il sapere tecnico, lasciando ai lavoratori solo compiti frammentati e alienanti.

Saito muove una critica radicale anche alle cosiddette tecnologie chiuse, come la geoingegneria e le NET (Negative Emissions Technologies), che invece di offrire soluzioni reali alla crisi climatica rischiano di aggravare le disuguaglianze globali e di consolidare un modello autoritario di gestione del pianeta. L’idea che interventi su larga scala, come l’iniezione di aerosol nella stratosfera per raffreddare artificialmente il clima o la cattura massiccia di CO₂, possano risolvere magicamente il problema senza richiedere cambiamenti strutturali è un’illusione pericolosa. Queste tecnologie, infatti, non solo sono irreversibili e cariche di effetti collaterali imprevedibili ma tendono a privilegiare i paesi ricchi, scaricando i costi ambientali e sociali sulle regioni più povere del mondo. In un contesto di crescente emergenza climatica, dove la paura per la sopravvivenza immediata rischia di soffocare ogni dibattito democratico, il ricorso a soluzioni tecnocratiche potrebbe aprire la strada a forme di maoismo climatico in cui governi autoritari impongono misure draconiane in nome della salvezza del pianeta, sacrificando libertà e giustizia sociale. Il problema non è solo politico ma anche culturale e immaginativo. La società contemporanea, dominata dal mito del progresso tecnologico, ha perso la capacità di concepire alternative radicali al sistema attuale. L’ossessione per l’innovazione, spinta da giganti come Google, Amazon e Facebook, ha trasformato la tecnologia in una vera e propria ideologia che nasconde l’irrazionalità di un modello basato sull’eterna crescita e sullo sfruttamento illimitato delle risorse. Invece di stimolare un ripensamento critico degli stili di vita, queste “tecnologie da sogno” ci illudono che sia possibile mantenere lo status quo, bruciando combustibili fossili mentre si affidano a futuri miracoli ingegneristici. Il risultato è un impoverimento dell’immaginazione collettiva, dove ogni crisi, anziché diventare un’occasione per ripensare il sistema, viene affrontata con più tecnologia, più controllo, più dipendenza dalle élite tecnocratiche. Per uscire da questa trappola Saito propone un cambio di paradigma, ovvero abbandonare le tecnologie chiuse, monopolizzate da corporations e governi, a favore di tecnologie aperte che restituiscano alle comunità il controllo sui processi produttivi e sulle risorse. Invita anche a ridefinire il concetto stesso di abbondanza svincolandolo dalla logica consumistica del capitalismo. Oggi, infatti, l’abbondanza è un’illusione. In un mondo dove 26 miliardari possiedono quanto 3,8 miliardi di poveri la scarsità non è un dato naturale ma un prodotto del sistema capitalista che crea artificialmente disuguaglianze per mantenere il proprio potere. La vera sfida è immaginare un’abbondanza non mercificata, fatta di beni comuni, relazioni sociali, tempo libero, che possa fiorire in un’economia di decrescita, dove la ricchezza non si misura in PIL ma in sostenibilità e giustizia.

Il capitalismo, quindi, è un sistema che produce artificialmente scarsità per mantenere e accrescere il potere e la ricchezza di pochi a spese della maggioranza. Questa dinamica si manifesta in modo evidente nel mercato immobiliare di metropoli come New York e Londra dove interi quartieri sono dominati da appartamenti vuoti, acquistati non per essere abitati ma come beni speculativi mentre migliaia di persone vengono sfrattate dalle loro case e finiscono per ingrossare le fila dei senzatetto. La speculazione edilizia che fa lievitare i prezzi fino a livelli inaccessibili per la classe media e i lavoratori è solo un esempio di come il capitalismo crei carenze artificiali in settori fondamentali come l’abitazione, trasformando un diritto primario in un privilegio riservato a chi possiede grandi capitali. Questa logica è un meccanismo intrinseco al capitalismo che affonda le sue radici nel processo storico dell’accumulazione originaria, analizzato da Karl Marx. Tra il XVI e il XVIII secolo in Inghilterra le cosiddette enclosures sottrassero ai contadini le terre comuni un tempo gestite collettivamente per trasformarle in proprietà private destinate a un’agricoltura capitalistica più redditizia. Privati dei mezzi di sussistenza i contadini furono costretti a migrare verso le città e a vendere la propria forza lavoro in cambio di salari miserabili, diventando così la base della nascente classe operaia. Questo passaggio ricorre spesso nella storia del capitalismo. L’espropriazione dei beni comuni e la loro trasformazione in merci scarse e paganti è una costante del sistema che continua a riprodursi in forme diverse. Lo stesso schema si ripete oggi nella privatizzazione di risorse essenziali come l’acqua, un tempo considerata un bene comune accessibile a tutti, ora imbottigliata e venduta come merce, o nella transizione dall’energia idrica, sostenibile e abbondante, ai combustibili fossili, più facili da monopolizzare e controllare. Andreas Malm in Fossil Capital dimostra che la rivoluzione industriale britannica abbandonò l’energia idrica perché il carbone permetteva ai capitalisti di spostare le fabbriche nelle città, dove potevano sfruttare una manodopera più numerosa e disciplinata. La scelta del carbone, oltre a inquinare l’ambiente, creò una dipendenza da risorse scarse e inquinanti, consolidando il potere del capitale sui lavoratori e sulla società.

Questa creazione artificiale di scarsità è stata teorizzata già all’inizio dell’Ottocento dal conte di Lauderdale che nel suo Ricerche sulla natura ed origine della pubblica ricchezza formulò quello che oggi è noto come il paradosso di Lauderdale: l’aumento della ricchezza privata richiede necessariamente la riduzione della prosperità pubblica. In altre parole, perché pochi possano arricchirsi molti devono essere privati dell’accesso a beni essenziali. Lauderdale portava come esempio il tabacco distrutto per mantenerne alto il prezzo o le vigne abbattute per limitare la produzione di vino. Sono situazioni in cui l’abbondanza viene deliberatamente sabotata per generare profitto. Questo paradosso è ancora più evidente oggi quando interi raccolti vengono distrutti per evitare un crollo dei prezzi mentre milioni di persone soffrono la fame. Marx rielaborò questa contraddizione nella sua teoria del conflitto tra valore di scambio e valore d’uso. Il valore d’uso rappresenta l’utilità concreta di un bene (come l’acqua che disseta o la casa che protegge dal freddo), il valore di scambio è la sua traduzione in denaro sul mercato. Nel capitalismo il valore di scambio domina sul valore d’uso, trasformando tutto in merce e sacrificando i bisogni reali delle persone alla logica del profitto. Questo spiega perché, nonostante l’enorme capacità produttiva del sistema, persistano povertà, disuguaglianze e carenze artificiali in settori fondamentali come la sanità, l’istruzione e l’abitazione. La mercificazione dei beni comuni peggiora la qualità della vita e mina anche la sostenibilità ambientale. Le terre comuni, un tempo gestite in modo collettivo e rispettoso degli equilibri naturali, sono state sostituite da proprietà private sfruttate intensivamente per massimizzare i profitti con conseguenti desertificazione, inquinamento e perdita di biodiversità. Allo stesso modo la privatizzazione dell’acqua ha portato a sprechi, inquinamento ed esclusione dei più poveri dall’accesso a una risorsa vitale. Contrariamente alla teoria della tragedia dei beni comuni di Garrett Hardin, che attribuisce il degrado ambientale all’uso collettivo e non regolamentato delle risorse, la vera tragedia è quella della merce. La trasformazione di beni abbondanti in prodotti scarsi e paganti distrugge sia l’ambiente che la coesione sociale. Questa logica è un processo continuo e in espansione. Il capitalismo, per sua natura, deve costantemente generare nuove forme di scarsità per mantenere in vita il meccanismo dell’accumulazione. Le crisi economiche, i disastri ambientali e persino le pandemie diventano occasioni per ulteriori espropriazioni, come dimostrato dall’aumento esponenziale della ricchezza delle élite durante la crisi del COVID-19, mentre milioni di persone perdevano il lavoro e l’accesso a cure mediche. Privati dell’accesso diretto alle risorse essenziali le persone si ritrovano immerse in un mondo saturo di merci ma incapaci di acquistarle senza denaro, il quale diventa l’unico mezzo per ottenere beni e servizi. Questa dipendenza dal denaro crea una condizione di precarietà e ansia permanente poiché i modi per guadagnarlo sono limitati e spesso insufficienti a garantire una vita dignitosa. Marx definiva questa situazione come una forma di schiavitù, anzi peggiore di quella antica, perché mentre gli schiavi del passato erano considerati beni preziosi di cui i padroni si prendevano cura per preservarne il valore, i lavoratori moderni sono facilmente sostituibili e abbandonati a se stessi in caso di disoccupazione, esposti al rischio della fame e dell’emarginazione sociale. Questa dinamica si intensifica ulteriormente con l’introduzione del debito, un altro strumento di controllo che lega i lavoratori al sistema capitalista. Il debito, come nel caso dei mutui trentennali per l’acquisto della casa, costringe le persone a lavorare incessantemente per decenni, interiorizzando una mentalità produttivistica che sacrifica ogni aspetto della vita personale e familiare in nome della stabilità economica. Il debito diventa così una catena invisibile che trasforma i lavoratori in schiavi salariati, obbligati a sottostare a ritmi di lavoro estenuanti pur di evitare il fallimento finanziario. Questo meccanismo impoverisce la qualità della vita individuale e ha anche effetti distruttivi sull’ambiente poiché spinge a una produzione eccessiva e insostenibile di beni spesso superflui, alimentando un ciclo di consumo e spreco che danneggia l’ecosistema. Un ulteriore livello di controllo è esercitato attraverso la creazione di una scarsità relativa, ottenuta mediante la pubblicità e la brandizzazione. In un’epoca di sovrabbondanza di merci il capitalismo deve stimolare continuamente nuovi desideri per mantenere attivo il ciclo produttivo. A questo scopo i marchi costruiscono attorno ai prodotti un’aura di esclusività e status, trasformando oggetti banali in simboli di distinzione sociale. Ad esempio, possedere una Ferrari o un Rolex non risponde a un reale bisogno funzionale ma al desiderio di distinguersi dagli altri, in una competizione infinita che rende ogni acquisto rapidamente obsoleto. Questo sistema genera un’insoddisfazione cronica poiché il consumatore è costantemente spinto a desiderare l’ultimo modello, l’ultimo trend, senza mai raggiungere una reale appagamento. L’industria del marketing, una delle più potenti al mondo, alimenta questa spirale con investimenti miliardari in pubblicità e packaging, spesso sprecando risorse preziose (come la plastica degli imballaggi) senza alcun reale beneficio per la società. Il comunismo della decrescita si oppone alla logica capitalistica della scarsità artificiale e vuole la riappropriazione collettiva dei beni comuni. L’obiettivo è ripristinare un’abbondanza radicale dove risorse essenziali come l’energia, l’acqua e i mezzi di produzione siano gestiti democraticamente dalle comunità anziché essere controllati da privati o dallo Stato. Un esempio concreto è la gestione dell’energia da parte dei cittadini organizzati in cooperative autogestite che producono e distribuiscono energia rinnovabile a livello locale, eliminando la dipendenza dalle grandi corporations e riducendo gli sprechi. Questo modello, già sperimentato in paesi come la Danimarca e la Germania, dimostra che un’economia non profit e decentralizzata è possibile e anzi più sostenibile sia socialmente che ambientalmente. Allo stesso modo le cooperative di lavoratori rappresentano un’alternativa reale al sistema salariale capitalista. In queste organizzazioni i lavoratori possiedono e gestiscono collettivamente i mezzi di produzione, prendendo decisioni democratiche su produzione, distribuzione degli utili e condizioni di lavoro. Marx stesso vedeva nelle cooperative un embrione di comunismo poiché dimostravano che un’economia basata sulla collaborazione e non sullo sfruttamento era possibile. Oggi, esperienze come la Mondragon Corporation in Spagna o le cooperative di lavoratori in Giappone e negli Stati Uniti mostrano che questo modello può funzionare su larga scala, garantendo maggiore stabilità e dignità ai lavoratori. Saito però riconosce che le cooperative da sole non bastano a sovvertire il sistema capitalista poiché devono comunque competere in un mercato dominato dalla logica del profitto. Per questo è necessario un cambiamento più profondo che riduca la centralità del PIL come misura del benessere e promuova invece un’economia della sufficienza, dove la ricchezza sia distribuita equamente e il tempo libero valorizzato più del consumo compulsivo. In una società del genere le persone avrebbero più opportunità di dedicarsi ad attività creative, culturali e comunitarie, riducendo la dipendenza dal lavoro salariato e dal consumismo. La vera libertà, secondo Marx, non consiste nell’accumulo illimitato di beni materiali ma nella possibilità di trascendere la mera sopravvivenza per dedicarsi a ciò che rende la vita autenticamente umana: l’arte, la conoscenza, le relazioni sociali. Per raggiungere questa meta è necessario superare l’ideologia della crescita infinita e adottare un’etica dell’autoregolamentazione, dove le comunità decidono democraticamente quali limiti imporre alla produzione per preservare l’ambiente e garantire equità. Questo richiede una rottura con la dittatura del capitale che oggi impedisce qualsiasi forma di autocontrollo collettivo, spingendo invece verso un consumo distruttivo e insostenibile.

Per superare il modello produttivo imperiale occorre l’azione trasformativa dei movimenti sociali, partendo dal presupposto che i luoghi di produzione non siano meri spazi economici ma veri e propri generatori di comunità che possano espandersi a cerchi concentrici fino a influenzare l’intero tessuto sociale e politico. Questa visione organica del cambiamento sociale si contrappone radicalmente all’idea di riforme calate dall’alto. La politica, per essere realmente efficace nel contrastare la crisi climatica e le contraddizioni del capitalismo, deve necessariamente sviluppare la capacità di sfidare il capitale ma questo slancio trasformativo può nascere solo da un solido sostegno dei movimenti sociali organizzati. Ovviamente Saito immagina che questi movimenti facciano propria l’idea del comunismo della decrescita. Esso si articola attraverso cinque dimensioni fondamentali che formano un sistema coerente di pensiero e azione. La prima dimensione riguarda il passaggio a un’economia del valore d’uso che implica un radicale ripensamento dell’intero sistema produttivo, abbandonando la produzione di merci superflue per concentrarsi sui beni realmente essenziali, con un conseguente impatto positivo sia sulla riduzione degli sprechi che sull’ambiente. Questo cambiamento non è semplicemente quantitativo ma qualitativo poiché richiede una riconversione strutturale dell’apparato produttivo che deve essere pianificato socialmente anziché lasciato alla cieca logica del profitto. La seconda dimensione, strettamente collegata alla prima, è la riduzione dell’orario di lavoro che emerge come conseguenza quasi fisiologica dell’eliminazione dei cosiddetti bullshit jobs, quelle occupazioni inutili e alienanti che proliferano nel capitalismo contemporaneo, liberando così tempo ed energie per attività più significative e migliorando complessivamente la qualità della vita senza necessariamente ridurre il benessere materiale. La terza dimensione riguarda l’abolizione della divisione standardizzata del lavoro che mira a restituire dignità e creatività al lavoratore, superando quella frammentazione e ripetitività che caratterizzano il sistema capitalista e che rappresentano una delle fonti principali di alienazione. Questo aspetto è particolarmente significativo perché mette in discussione il mito dell’efficienza come valore assoluto e indiscutibile, proponendo invece un modello alternativo in cui il lavoro possa diventare occasione di autorealizzazione e espressione creativa. La quarta dimensione è rappresentata dalla democratizzazione del processo produttivo che sostituisce il dispotismo del capitale con meccanismi decisionali collettivi che, seppur potenzialmente più lenti e complessi, garantiscono maggiore giustizia sociale e sostenibilità ambientale.

La quinta e ultima dimensione riguarda la valorizzazione dei lavori essenziali, come l’assistenza, la cura e l’agricoltura, che rappresenta un completo ribaltamento delle priorità sociali, spostando l’attenzione verso quelle attività a basso impatto ambientale ma ad altissimo valore umano e sociale. Questi settori, tradizionalmente sottopagati e marginalizzati nel sistema capitalista, diventano invece centrali in un’ottica di decrescita poiché incarnano perfettamente il principio del valore d’uso in netta contrapposizione alla logica astratta del valore di scambio. Saito, in seguito, riflette sulle lotte sociali che già ora prefigurano questo cambiamento epocale, come la cosiddetta rivolta delle classi di cura che vede operatori sanitari, insegnanti e assistenti sociali organizzarsi contro lo sfruttamento e per il riconoscimento del valore del loro lavoro e le varie esperienze di autogestione che stanno emergendo in diversi settori produttivi. Questi movimenti, seppur ancora embrionali e frammentati, dimostrano che un’alternativa concreta al sistema attuale non solo è possibile ma è già in fase di sperimentazione in varie parti del mondo. Queste esperienze trovano un importante punto di contatto con visioni più ampie e radicate come quella del buen vivir, filosofia ispirata alle culture indigene sudamericane che propone un modello di benessere collettivo radicalmente alternativo a quello occidentale, fondato sull’armonia con la natura e sulla valorizzazione delle relazioni comunitarie. Saito prosegue la riflessione analizzando esperienze concrete, come quella della città di Barcellona che attraverso la Dichiarazione dello stato di emergenza climatica del 2020 ha delineato un piano radicale per raggiungere la decarbonizzazione entro il 2050, un obiettivo ambizioso che non si limita a vuote dichiarazioni di intenti ma si traduce in oltre duecentoquaranta misure specifiche, tra cui la creazione di spazi verdi, la transizione verso l’autosufficienza energetica e alimentare, la riduzione del traffico automobilistico e la lotta alla povertà energetica. Questa iniziativa è il frutto di un lungo processo di mobilitazione sociale che affonda le sue radici nel movimento 15M del 2011, quando migliaia di giovani occuparono le piazze per protestare contro le politiche di austerità imposte dall’Unione Europea e contro le disuguaglianze generate dalla globalizzazione neoliberista. Da quel movimento è emersa una nuova forma di partecipazione politica, culminata nella vittoria elettorale di Barcelona en comú e nell’elezione di Ada Colau, un’attivista per il diritto alla casa, a sindaca nel 2015. L’amministrazione comunale ha cercato di mantenere un legame diretto con i cittadini, istituendo meccanismi di democrazia partecipativa che hanno permesso a gruppi di quartiere, cooperative e movimenti sociali di contribuire attivamente alla definizione delle politiche pubbliche. La stessa Dichiarazione per l’emergenza climatica è stata elaborata attraverso un processo collettivo che ha coinvolto oltre trecento persone provenienti da più di duecento organizzazioni, tra cui rappresentanti delle case popolari, lavoratori del settore energetico e esperti di vari ambiti, dimostrando come il sapere necessario per il cambiamento sociale nasca dall’esperienza concreta di chi è impegnato nei processi di produzione e riproduzione della vita quotidiana. Un aspetto centrale di questa esperienza è il ruolo delle cooperative che a Barcellona rappresentano una realtà economica significativa, arrivando a generare l’8% dell’occupazione cittadina e contribuendo al 7% del PIL locale. Queste cooperative, attive in settori che vanno dalla manifattura all’agricoltura, dall’istruzione alla gestione degli alloggi, sono veri e propri laboratori di democrazia economica dove i lavoratori prendono decisioni collettivamente e dove l’obiettivo non è il profitto immediato ma la creazione di relazioni sociali basate sulla solidarietà e sulla mutualità. A Barcellona il rapporto tra amministrazione comunale e cooperative ha creato un circolo virtuoso: da un lato il comune ha favorito l’accesso delle cooperative agli appalti pubblici, privilegiando fornitori locali e garantendo condizioni di lavoro dignitose, dall’altro le cooperative hanno contribuito a rafforzare la partecipazione democratica, promuovendo modelli di sviluppo urbano alternativi alla gentrificazione e al turismo di massa. Ma l’orizzonte di Barcellona non si limita alla dimensione locale. La città fa parte di una rete internazionale di Fearless Cities (Città Senza Paura) che riunisce amministrazioni locali impegnate a contrastare le politiche neoliberiste e a promuovere alternative concrete, come la rinazionalizzazione dei servizi pubblici privatizzati o la regolamentazione degli affitti turistici per contrastare la speculazione immobiliare. Questa rete, che include città come Amsterdam, Parigi e Grenoble, si è estesa anche al Sud globale, creando legami di solidarietà tra realtà urbane di diversi continenti. Il municipalismo europeo ha dovuto confrontarsi con le critiche provenienti proprio dal Sud globale, dove movimenti sociali come gli zapatisti in Messico o Via Campesina, che riunisce milioni di piccoli agricoltori in tutto il mondo, da decenni sperimentano forme di autogoverno e di resistenza al capitalismo globale. Questi movimenti hanno sottolineato come la lotta per la giustizia climatica e la sovranità alimentare non possa prescindere dal riconoscimento delle asimmetrie di potere tra Nord e Sud del mondo e dal ripensamento radicale del modello di sviluppo imposto dall’Occidente. Proprio su questo punto Saito invita a un ripensamento profondo delle strategie di trasformazione sociale. Di fronte alla crisi ecologica non basta proporre soluzioni tecniche o invocare un nuovo “illuminismo” basato su principi astratti di cittadinanza globale. È necessario invece imparare dalle pratiche di resistenza che emergono dal Sud globale, dove comunità indigene, contadine e urbane stanno già sperimentando modelli alternativi di organizzazione sociale ed economica, fondati sulla cura dei beni comuni, sulla democrazia partecipativa e sulla giustizia ambientale.

4. Osservazioni critiche

Le nostre osservazioni critiche ignorano deliberatamente tutti i dibattiti filosofici sulla liceità di un Marx sostenitore del comunismo della decrescita. Il nostro scopo è valutare la correttezza della prospettiva della decrescita dal punto di vista della teoria economica. Per fare ciò ci serviremo in primis delle riflessioni dell’economista Giovanni Mazzetti. L’impianto ideologico dei decrescisti è inefficace sul piano propositivo e fondato su una visione distorta della storia, dell’economia e della stessa natura umana. Il nucleo della critica mazzettiana si concentra sull’ambivalenza del concetto di cambiamento, cardine della dialettica storica ma frainteso dai teorici della decrescita. Maurizio Pallante, figura emblematica del movimento, dipinge il cambiamento come un’artificiosa imposizione del “mito del progresso”, sostenuta da un apparato mediatico onnipresente che plasmerebbe bisogni indotti. Mazzetti replica che tale rappresentazione è grottesca: il mutamento non è un’invenzione capitalistica, bensì la cifra stessa dell’esistenza. Attraverso un’analisi quasi fenomenologica dello sviluppo ontogenetico, dalla prima respirazione neonatale all’apprendimento del linguaggio, dalla socializzazione alla partecipazione produttiva, dimostra come l’uomo sia costitutivamente proiettato verso la trasformazione. La vita, in quanto processo dinamico, richiede continua adattabilità e pretenderne il congelamento in nome di un presunto equilibrio primordiale equivale a negarne l’essenza. Spesso questi teorici idealizzano il mondo precedente al capitalismo o, come nel caso di Saito, le realtà sociali marginali rispetto allo sviluppo del capitalismo come le realtà indigene del Sud del mondo. Questa impostazione ci sembra una correzione di lotta rispetto a quanto affermava in passato Serge Latouche, sulla scia di Marshall Sahlins, per quanto riguarda le società del Paleolitico. Queste società pre-agricole sarebbero state “opulente” perché caratterizzate da bisogni limitati e poche ore di lavoro giornaliero. Esattamente come per le realtà del Sud del mondo di Saito, questa è una proiezione romantica. Mazzetti richiama dati archeologici e antropologici incontrovertibili: alta mortalità per conflitti tribali, carestie ricorrenti, fatica estenuante nella caccia e nell’approvvigionamento idrico. Quella che Latouche descrive come un’esistenza “giocosa e comunitaria” era in realtà una lotta quotidiana per la sopravvivenza, dove la violenza e l’insicurezza erano endemiche. L’errore metodologico è lampante, cioè scambiare la povertà materiale per sobrietà volontaria e l’assenza di alternative per libertà autentica. Sul piano economico Mazzetti contesta la tesi secondo cui le società moderne non sarebbero realmente “abbondanti” a causa dell’insoddisfazione generata dal consumismo. Qui la decrescita cade in un paradosso logico perché esalta l’abbondanza immaginaria del Paleolitico (dove i bisogni erano pochi e facilmente soddisfatti) ma nega che l’attuale surplus produttivo costituisca abbondanza, solo perché distorto da dinamiche di mercato. Per Mazzetti questo ragionamento confonde due piani distinti cioè quello materiale (la reale capacità di produrre beni) e quello soggettivo (la percezione dei bisogni). L’abbondanza va misurata in termini oggettivi, la possibilità di soddisfare bisogni storici e complessi, e non ridotta a uno stato psicologico di appagamento. La critica al consumismo è legittima ma la soluzione non è il ritorno a un’economia della scarsità, bensì una riorganizzazione sociale che orienti la ricchezza verso bisogni emancipativi. La decrescita, inoltre, pecca di un’ingenuità politica fatale quando immagina che il rallentamento produttivo possa avvenire per scelta collettiva, senza considerare le asimmetrie di potere che strutturano il capitalismo globale. Mazzetti osserva che, in assenza di un progetto alternativo di trasformazione radicale, la decrescita si riduce a un’utopia borghese, praticabile solo da élite privilegiate, mentre per le masse significherebbe precarietà e deprivazione. Il movimento, in questo senso, ricade nello stesso moralismo velleitario che critica nel progressismo liberale. Mazzetti individua nella decrescita anche una contraddizione antropologica fondamentale: essa nega la specificità umana, ovvero la capacità di trascendere i bisogni immediati e di autodeterminarsi storicamente. Citando Marx e Marcuse, ricorda che l’uomo è per definizione un essere “eccedente”, la cui ricchezza risiede proprio nell’espansione dei bisogni e delle capacità. Proporre come modello una società di autolimitazione significa negare questa potenzialità, riducendo l’umanità a una condizione pre-culturale. Un altro punto da sviluppare è la critica alla visione romantica di un’armonia originaria tra uomo e natura, spesso evocata dai teorici della decrescita. Mazzetti argomenta che la separazione tra uomo e natura non è una deviazione recente ma un processo storico necessario che ha permesso all’umanità di sviluppare cultura, tecnologia e autonomia rispetto ai vincoli naturali. Riconosce che questa separazione ha generato problemi ecologici ma ritiene che la soluzione non sia un ritorno a un’unità immediata e idealizzata, bensì una mediazione più consapevole tra attività umana e ambiente. L’umanità ha valore proprio perché non è mera natura ed è in grado di trasformarla in modo cosciente. Sul piano storico, Mazzetti difende il ruolo progressivo del capitalismo pur riconoscendone i limiti e le contraddizioni. Contrariamente a chi lo demonizza come un sistema di oppressione pura, sottolinea che esso ha permesso lo sviluppo di forze produttive senza precedenti, l’emancipazione da rapporti feudali e l’espansione di diritti e conoscenze. Tuttavia osserva che sia il capitalismo sia il compromesso keynesiano del Welfare State hanno ormai esaurito la loro spinta progressiva e sono diventati ostacoli a un ulteriore sviluppo. La crisi attuale, e qui concorda con Saito, è sistemica e richiede un superamento che non può essere semplicemente “decretato” ma deve emergere da un’analisi concreta delle condizioni materiali. Sul tema dello sviluppo e della crescita, Mazzetti dissente dalla decrescita su due fronti. Contesta l’equiparazione riduttiva tra sviluppo e mera crescita economica, tipica del pensiero neoliberale e rifiuta la demonizzazione della crescita in sé, sostenendo che essa è stata storicamente una componente necessaria del progresso umano. Saito non è totalmente assimilabile ai teorici della decrescita come Latouche perché nella sua proposta del comunismo della decrescita ha bene in mente la necessità di sovvertire i rapporti di produzione e riorganizzare la società con il fine di rivedere la struttura economica in funzione della sostenibilità ambientale. Su questo punto sostiene una sorta di deindustrializzazione controllata per limitare o cancellare determinati settori produttivi sviluppandone altri più funzionali al modello di società socialista che ha in mente. Segnaliamo però come manchi il soggetto rivoluzionario che dovrebbe eventualmente farsi carico di una simile transizione transmodale, perché di questo si tratta.

Le nostre osservazioni, grazie all’economista Robert Pollin e al suo saggio De-Growth vs a Green New Deal, si spostano sul tema centrale della crescita. Pollin riconosce che le versioni più articolate della decrescita pongono l’accento su una critica ampia e strutturale alla crescita economica, definendola come ingiusta, ecologicamente insostenibile e mai sufficiente. Però questa prospettiva tende a rimanere vaga e poco concreta quando si tratta di delineare un piano effettivo per la stabilizzazione del clima. Questa carenza è stata notata persino da Herman Daly, uno dei padri intellettuali del movimento della decrescita, il quale, pur dichiarandosi favorevolmente incline all’idea ha espresso perplessità sull’assenza di proposte operative dettagliate, limitandosi a definirla ancora poco più che uno slogan.

Pollin chiarisce fin da subito di condividere molti degli obiettivi e dei valori dei sostenitori della decrescita, in particolare la critica agli sprechi del capitalismo contemporaneo e alle disuguaglianze generate da un sistema economico che privilegia il consumo eccessivo delle élite globali. Concorda sul fatto che il PIL, come indicatore economico, sia profondamente limitato poiché non tiene conto dei danni ambientali, del lavoro non retribuito (svolto soprattutto da donne) e delle disparità nella distribuzione della ricchezza ma contesta l’idea, diffusa tra molti teorici della decrescita, che la crescita del PIL sia una sorta di “religione” del mondo moderno, sostenendo invece che il neoliberismo ha in realtà perseguito principalmente l’aumento dei profitti per pochi, anche a scapito della crescita economica complessiva che è stata molto più lenta rispetto al periodo keynesiano del dopoguerra.

Ritornando al tema centrale del cambiamento climatico, Pollin insiste sul fatto che la vera priorità non è discutere se la crescita in sé sia buona o cattiva ma piuttosto identificare quali settori debbano espandersi rapidamente e quali invece debbano essere drasticamente ridotti. In particolare, sostiene che l’industria delle energie rinnovabili debba crescere in modo massiccio mentre quella dei combustibili fossili vada smantellata progressivamente nei prossimi decenni, fino alla sua quasi totale scomparsa. Per Pollin concentrarsi su questi aspetti concreti è molto più utile che dibattere in astratto sui meriti o i demeriti della crescita economica. Uno dei punti chiave del suo argomento è il concetto di decoupling assoluto, ovvero la necessità di ridurre in termini assoluti il consumo di combustibili fossili (e quindi le emissioni di CO₂) mentre l’economia continua a crescere. Pollin cita i dati dell’IPCC, secondo i quali le emissioni globali di CO₂ devono diminuire del 40% entro 20 anni e dell’80% entro il 2050 per evitare un aumento catastrofico delle temperature. La realtà attuale è ben lontana da questo obiettivo. Tra il 2000 e il 2015 le emissioni sono aumentate del 43%, passando da 23 a 32 miliardi di tonnellate annue, e secondo le proiezioni dell’International Energy Agency (IEA) anche nello scenario più ottimistico (che include gli impegni non vincolanti dell’accordo di Parigi), le emissioni continueranno a salire, raggiungendo i 36 miliardi di tonnellate nel 2040. Pollin sottolinea che alcuni paesi, tra cui Stati Uniti, Germania e Regno Unito, sono già riusciti a ottenere un disaccoppiamento assoluto tra crescita economica ed emissioni tra il 2000 e il 2014, dimostrando che una transizione è possibile. Questi esempi rimangono limitati e insufficienti rispetto alla scala della crisi climatica. La vera sfida, quindi, non è rifiutare in toto la crescita ma ripensare il sistema energetico globale, abbandonando i combustibili fossili e investendo in infrastrutture verdi.

Il Green New Deal rappresenta una proposta ambiziosa e radicale per affrontare la crisi climatica attraverso una trasformazione strutturale dell’economia globale, basata su massicci investimenti in efficienza energetica e energie rinnovabili. Al cuore di questa strategia c’è l’idea di destinare annualmente una quota compresa tra l’1,5% e il 2% del PIL mondiale a progetti che migliorino gli standard di efficienza e amplino la capacità di generazione da fonti pulite. Questo sforzo finanziario, sostenuto nel tempo, permetterebbe di ridurre le emissioni globali di CO₂ del 40% nell’arco di vent’anni rispetto ai livelli attuali, mantenendo al contempo la crescita del tenore di vita e creando nuove opportunità occupazionali su vasta scala. Proseguendo con lo stesso ritmo di investimento si potrebbe arrivare all’azzeramento completo delle emissioni in un periodo compreso tra quaranta e cinquant’anni. Un aspetto cruciale di questo modello è che una più rapida crescita economica accelererebbe paradossalmente la transizione ecologica poiché un PIL più elevato significherebbe maggiori risorse disponibili per finanziare progetti di energia pulita. Questa transizione si scontra con gli interessi consolidati delle grandi compagnie petrolifere, sia private come ExxonMobil e Chevron, sia statali come Saudi Aramco e Gazprom, che detengono un enorme potere politico ed economico e hanno tutto l’interesse a ostacolare la riduzione del consumo di idrocarburi. La loro opposizione rappresenta una delle maggiori sfide politiche da superare per realizzare il Green New Deal. Dal punto di vista occupazionale gli investimenti in efficienza energetica e rinnovabili genererebbero decine di milioni di nuovi posti di lavoro in tutte le regioni del mondo poiché la costruzione di un’economia verde richiede attività più labor-intensive rispetto al mantenimento dell’attuale infrastruttura basata sui fossili. Questa trasformazione comporterebbe inevitabilmente perdite per i lavoratori e le comunità legate all’industria del petrolio, del carbone e del gas. Senza politiche di sostegno adeguate questi soggetti rischierebbero licenziamenti, riduzione dei redditi e tagli ai servizi pubblici. È quindi essenziale che il progetto globale di crescita verde includa misure di transizione generose per chi verrà colpito dal declino dei combustibili fossili. Una questione dibattuta è il ruolo del gas naturale come “combustibile ponte” verso un futuro a basse emissioni. Se è vero che bruciare gas produce il 40% in meno di CO₂ rispetto al carbone e il 15% in meno rispetto al petrolio, i benefici climatici di un eventuale passaggio massiccio a questa fonte sono stati sovrastimati. Anche ipotizzando un’improbabile conversione del 50% del mix energetico globale al gas, le emissioni si ridurrebbero solo dell’8%. Inoltre questo calcolo non tiene conto delle perdite di metano durante l’estrazione, in particolare con il fracking. Ricerche recenti dimostrano che se più del 5% del gas estratto con questa tecnica si disperde nell’atmosfera (cosa che avviene regolarmente), qualsiasi vantaggio ambientale rispetto al carbone viene annullato. Negli Stati Uniti le misurazioni delle perdite variano dallo 0,18% all’11,7% a seconda dei siti e si può presumere che in altre regioni del mondo, con standard meno rigorosi, le fughe siano ancora maggiori. Il Green New Deal dovrebbe concentrarsi su tecnologie mature, sicure e già disponibili su larga scala. Per quanto ci riguarda non escludiamo neanche l’utilizzo dell’energia nucleare.

Uno dei pilastri fondamentali del programma è il miglioramento dell’efficienza energetica, cioè la capacità di ottenere gli stessi servizi (riscaldamento, illuminazione, trasporti) consumando meno energia. Esempi concreti includono l’isolamento termico degli edifici, l’uso di veicoli più efficienti o, meglio ancora, il potenziamento dei trasporti pubblici e la riduzione degli sprechi nella generazione e distribuzione di elettricità. Questi interventi non solo riducono le emissioni ma abbassano anche i costi per i consumatori. Secondo uno studio dell’Accademia delle Scienze statunitense, negli USA esistono già tecnologie in grado di tagliare i consumi energetici del 30% risparmiando denaro. Nei paesi in via di sviluppo una ricerca McKinsey stima che gli investimenti in efficienza potrebbero far risparmiare il 10% del PIL in costi energetici. Mara Prentiss, nel suo libro Energy Revolution, sostiene che queste stime siano addirittura conservative rispetto al potenziale reale. Un possibile effetto collaterale dell’efficienza energetica è il cosiddetto rebound effect, cioè l’aumento dei consumi dovuto al minor costo dell’energia. Nelle economie avanzate questo fenomeno è limitato perché la domanda di molti servizi energetici (come l’illuminazione o l’uso di elettrodomestici) ha già raggiunto la saturazione. Nei paesi in via di sviluppo l’effetto potrebbe essere più marcato ma può essere contrastato con politiche come la tassazione delle emissioni. In ogni caso, l’espansione delle rinnovabili permetterebbe di aumentare i consumi energetici senza incrementare le emissioni. Per quanto riguarda le energie rinnovabili, l’Agenzia Internazionale per le Energie Rinnovabili (IRENA) ha calcolato che nel 2018 i costi medi di generazione da fonti pulite (eolico, idroelettrico, geotermico, bioenergia a basse emissioni) sono ormai pari a quelli dei combustibili fossili, senza nemmeno considerare i danni ambientali di questi ultimi. Il solare fotovoltaico, pur avendo costi leggermente più alti in media, ha visto un crollo del 70% dei prezzi tra il 2010 e il 2017 e dovrebbe raggiungere la parità con le fonti tradizionali entro pochi anni. Una critica frequente alle rinnovabili riguarda il loro presunto consumo eccessivo di suolo. Gli studi dimostrano che queste preoccupazioni sono infondate. Negli Stati Uniti, ad esempio, il solare potrebbe soddisfare l’intero fabbisogno energetico nazionale utilizzando appena lo 0,4% del territorio, considerando anche i miglioramenti nell’efficienza. Più della metà di questa superficie potrebbe essere ricavata installando pannelli su tetti e parcheggi, riducendo ulteriormente l’impatto sul suolo. L’eolico richiede più spazio (circa il 7,5% del territorio statunitense per coprire il 100% della domanda) ma le turbine possono coesistere con le attività agricole con perdite minime di produttività. Stati come Iowa, Kansas, Oklahoma e South Dakota già oggi generano oltre il 30% della loro elettricità dal vento. Naturalmente il mix energetico ideale combina diverse fonti rinnovabili per minimizzare l’uso del suolo e garantire stabilità. L’integrazione tra queste tecnologie aiuta anche a risolvere le sfide dell’intermittenza e della distribuzione geografica disomogenea delle risorse. Investimenti in sistemi di accumulo e reti di trasmissione avanzate sono quindi parte integrante del Green New Deal. Anche in paesi con minore disponibilità di spazio e sole, come Germania e Regno Unito, le rinnovabili sono fattibili. Questi stati, operando ad alta efficienza, dovrebbero destinare circa il 3% del loro territorio al solare, integrandolo con altre fonti e con importazioni moderate da zone più favorevoli, magari in un sistema europeo di produzione dell’energia elettrica capace di sfruttare le potenzialità di produzione dell’energia rinnovabile di ogni area dell’UE.

Pollin analizza anche il legame tra la creazione di posti di lavoro e la necessità di una transizione energetica giusta ed equa, evidenziando come gli investimenti in energia pulita possano generare un aumento significativo dell’occupazione rispetto al mantenimento delle infrastrutture basate sui combustibili fossili. Le ricerche condotte dal Political Economy Research Institute dimostrano che questa dinamica si applica a paesi con diversi livelli di sviluppo, tra cui Brasile, Cina, Germania, India, Indonesia, Porto Rico, Sudafrica, Corea del Sud, Spagna e Stati Uniti. In particolare l’aumento percentuale dei posti di lavoro creati varia notevolmente, dal 75% in Brasile fino a un impressionante 350% in Indonesia. Un caso emblematico è quello dell’India, dove un incremento annuo degli investimenti in energia pulita pari all’1,5% del PIL per un periodo di venti anni potrebbe generare circa 10 milioni di nuovi posti di lavoro netti all’anno, anche tenendo conto delle perdite occupazionali nei settori legati ai combustibili fossili. Non è scontato che questi nuovi impieghi offrano salari dignitosi, condizioni di lavoro migliori, una maggiore rappresentanza sindacale o una riduzione delle discriminazioni contro donne, minoranze e altri gruppi sottorappresentati. Nonostante ciò il fatto che nuovi investimenti stiano prendendo piede crea un’opportunità politica per mobilitarsi su larga scala, al fine di migliorare la qualità del lavoro, estendere la copertura sindacale e garantire maggiore equità nell’accesso all’occupazione. Allo stesso tempo è innegabile che la transizione verso l’energia pulita avrà un impatto negativo su lavoratori e comunità che dipendono economicamente dal petrolio, dal carbone e dal gas naturale. Per garantire il successo di questa transizione a livello globale, è essenziale fornire un adeguato sostegno a queste fasce della popolazione, attraverso misure che includano assistenza al reddito, programmi di riqualificazione professionale e supporto alla rilocazione per i lavoratori colpiti dalla riconversione industriale, oltre alla garanzia delle pensioni e a iniziative specifiche per le comunità attualmente legate ai combustibili fossili. Negli Stati Uniti, ad esempio, è stato stimato che il costo massimo per un programma di questo tipo si aggirerebbe intorno ai 600 milioni di dollari all’anno, una cifra relativamente modesta se paragonata al bilancio federale del 2018, rappresentando meno dello 0,2% della spesa totale. Per raggiungere l’obiettivo di investire l’1,5% del PIL globale annuale in energia pulita, è indispensabile l’adozione di politiche industriali mirate e ben strutturate. Nonostante gli investimenti in efficienza energetica si ripaghino generalmente in un arco di tre-cinque anni e il costo medio delle energie rinnovabili sia ormai comparabile a quello dei combustibili fossili, rimane il fatto che qualcuno dovrà anticipare il capitale iniziale e assumersi i rischi del progetto. A seconda delle condizioni specifiche di ciascun paese le politiche industriali dovranno favorire l’innovazione tecnologica e l’adattamento delle tecnologie esistenti, attraverso una combinazione di strumenti che includano sostegno alla ricerca e sviluppo, trattamenti fiscali preferenziali per gli investimenti in energia pulita e accordi di mercato stabili nel lungo periodo, come quelli garantiti dai contratti di approvvigionamento pubblico.

Allo stesso tempo, queste politiche dovranno prevedere standard di emissione per i servizi pubblici e il settore dei trasporti, nonché una regolamentazione dei prezzi sia per i combustibili fossili che per l’energia pulita. Tra gli strumenti più discussi in questo ambito c’è senza dubbio la tassazione delle emissioni di carbonio che può assumere la forma di una carbon tax o di un sistema di cap-and-trade e che deve costituire una componente fondamentale del pacchetto di politiche industriali. Una carbon tax, in particolare, potrebbe generare entrate significative, utilizzabili sia per finanziare ulteriori investimenti in energia pulita sia per ridistribuire risorse alle famiglie a basso reddito. Un altro aspetto critico per sostenere investimenti in energia pulita pari all’1,5% del PIL globale è la riduzione dei requisiti di redditività per tali investimenti, il che solleva inevitabilmente la questione della proprietà delle nuove imprese e infrastrutture energetiche. In particolare, è necessario esplorare il potenziale di forme alternative di proprietà, tra cui quella pubblica, quella comunitaria e quella di piccole imprese private, nel promuovere l’agenda degli investimenti in energia pulita. Storicamente, il settore energetico ha operato sotto una varietà di strutture proprietarie, tra cui aziende pubbliche o municipalizzate, cooperative private e grandi corporation. Nel settore del petrolio e del gas naturale, ad esempio, le compagnie nazionali a controllo pubblico detengono circa il 90% delle riserve mondiali e il 75% della produzione, oltre a gran parte delle infrastrutture. Tra queste figurano colossi come Saudi Aramco, Gazprom, la China National Petroleum Corporation, la National Iranian Oil Company, Petróleos de Venezuela, Petrobras in Brasile e Petronas in Malaysia. Tuttavia non vi è alcuna evidenza che queste aziende pubbliche siano più inclini a sostenere la transizione verso l’energia pulita rispetto alle loro controparti private, dato che i progetti di sviluppo nazionale, le carriere lucrative e il potere politico dipendono ancora in larga misura dal flusso di ricavi generati dai combustibili fossili. D’altra parte gli investimenti in energia pulita creano nuove opportunità per modelli di proprietà alternativi, tra cui combinazioni di proprietà pubblica, privata e cooperativa su scala ridotta. Un esempio di successo in questo senso è rappresentato dai parchi eolici comunitari che da quasi due decenni operano con ottimi risultati in paesi come Germania, Danimarca, Svezia e Regno Unito. Uno dei motivi principali del loro successo è che queste realtà operano con requisiti di redditività più bassi rispetto alle grandi corporation, il che le rende più flessibili e adattabili. Questa prospettiva si avvicina a quella sostenuta da alcuni teorici della decrescita, come Juliet Schor, che nel suo libro True Wealth sostiene che il settore emergente delle energie verdi sarà dominato da piccole e medie imprese, grazie alla loro agilità, dinamismo e spirito imprenditoriale. Nel lungo periodo queste realtà potrebbero formare un settore ampio e diversificato di imprese a basso impatto ambientale, contribuendo a rivitalizzare le comunità locali e a fornire mezzi di sussistenza su larga scala.

Come bisogna ripartire i costi di tali investimenti in modo equo tra i diversi individui, paesi e regioni del mondo. Quale criterio di equità dovrebbe essere applicato? Se il progetto globale di investimento in energia pulita qui delineato da Pollin avesse successo le emissioni medie pro capite di CO₂ scenderebbero dalle attuali 4,6 tonnellate a 2,3 tonnellate in venti anni, corrispondendo a una riduzione delle emissioni totali da 32 a 20 miliardi di tonnellate.

Anche al termine di questo ciclo ventennale di investimenti, le emissioni pro capite degli Stati Uniti si attesterebbero comunque a 5,8 tonnellate, quasi tre volte la media cinese e mondiale e cinque volte quella dell’India. Questa disparità è ingiusta, soprattutto se si considera che, nel corso dell’ultimo secolo, le emissioni cumulative degli Stati Uniti hanno superato quelle di Cina e India messe insieme di circa il 400%. Un principio di equità potrebbe quindi richiedere che i paesi ricchi, a cominciare dagli Stati Uniti, riducano le loro emissioni pro capite fino a raggiungere i livelli dei paesi a basso reddito e che le persone ad alto reddito, a prescindere dal paese di residenza, non possano emettere più CO₂ di chiunque altro. Sebbene questa proposta abbia un solido fondamento etico, è praticamente impossibile che venga implementata. Data l’urgenza di stabilizzare il clima non c’è tempo da perdere in battaglie globali per obiettivi irraggiungibili. Nel caso degli Stati Uniti, ad esempio, sarebbe più costruttivo richiedere, oltre alla riduzione delle proprie emissioni a circa 6 tonnellate pro capite in venti anni, anche un sostegno finanziario su larga scala agli altri paesi per aiutarli a sviluppare i loro progetti di energia pulita.

Purtroppo la teoria della decrescita non fornisce un quadro realistico per la stabilizzazione climatica. Semplici calcoli aritmetici dimostrano che, anche ipotizzando una contrazione del 10% del PIL globale nei prossimi vent’anni, una riduzione quattro volte maggiore di quella registrata durante la crisi finanziaria del 2007-09, le emissioni di CO₂ diminuirebbero solo del 10%, passando da 32 a 29 miliardi di tonnellate, ben lontane dall’obiettivo di 20 miliardi necessario per evitare catastrofi climatiche. Inoltre, una contrazione del PIL di questa portata comporterebbe inevitabilmente una massiccia perdita di posti di lavoro e un peggioramento delle condizioni di vita delle classi lavoratrici e dei poveri, come dimostrato dall’aumento di oltre 30 milioni di disoccupati durante la Grande Recessione. Senza un piano concreto per evitare queste conseguenze, la decrescita rischia di essere più un ostacolo che una soluzione. Forse Saito con il comunismo della decrescita potrebbe contribuire a dare corpo ad un programma macroeconomico più strutturato per la decrescita ma restano in piedi tutti i dubbi riguardo al concetto stesso di decrescita che abbiamo esposto all’inizio di queste osservazioni.

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