Capitalismo ed istruzione. Bowles e Gintis e la scuola degli USA

Il progetto che portò alla pubblicazione di Schooling in Capitalist America, in italiano tradotto come L’istruzione nel capitalismo maturo, nacque nel 1968, in un contesto di intensi dibattiti accademici e conflitti sociali sulla struttura e gli obiettivi dell’istruzione. La prima collaborazione tra gli autori Samuel Bowles ed Herbert Gintis fu stimolata da una richiesta di Martin Luther King Jr. che chiese una serie di documenti preparatori per la Poor People’s March, poco prima della sua morte. Parallelamente, uno degli autori redasse un memorandum sulla politica educativa per il senatore Robert Kennedy, allora candidato alla nomina presidenziale democratica. La pubblicazione del libro Death at an Early Age di Jonathan Kozol, una denuncia sulle carenze delle scuole urbane, contribuì ulteriormente a orientare la riflessione. Gli autori sostenevano, e continuano a credere, che l’istruzione possa contribuire non solo a un’economia più produttiva ma anche a una vita migliore e a una più equa distribuzione delle opportunità. Tuttavia constatavano con rammarico come il sistema educativo statunitense fallisse nel raggiungere questi obiettivi, un fallimento che li ha spinti a tornare sull’argomento anni dopo. Il libro si basa su tre tesi fondamentali: lo sviluppo umano, la disuguaglianza e il processo di cambiamento sociale. Per quanto riguarda lo sviluppo umano, Bowles e Gints dimostrarono che, sebbene le abilità cognitive siano importanti, il contributo più significativo della scuola al successo economico degli individui risiede altrove. Le scuole preparano gli studenti ai ruoli lavorativi adulti, socializzandoli a funzionare all’interno delle strutture gerarchiche tipiche delle aziende e degli uffici pubblici. Questo avviene attraverso il principio di corrispondenza per cui le interazioni sociali e i sistemi di ricompensa scolastici replicano quelli del mondo del lavoro. L’attenzione non è quindi sul curriculum esplicito ma sul processo di socializzazione implicito nella struttura scolastica. Studi econometrici confermarono che le competenze cognitive apprese a scuola spiegano solo in minima parte il successo economico futuro. In secondo luogo gli autori evidenziarono come la classe sociale e lo status economico dei genitori influenzino le opportunità educative dei figli ma che i vantaggi economici delle famiglie benestanti vanno ben oltre la migliore istruzione ricevuta. Utilizzando dati statistici, dimostrarono che gli Stati Uniti erano lontani dall’offrire pari opportunità economiche e che l’ereditarietà genetica delle abilità cognitive (misurate dai test standardizzati) giocava un ruolo marginale nella persistenza intergenerazionale della ricchezza e della povertà. Infine, gli studi storici sull’evoluzione del sistema scolastico rivelarono che la sua formazione non fu guidata da ideali democratici o pedagogici ma da conflitti di classe legati alla trasformazione del lavoro e della società. Gli interessi delle élite economiche spesso prevalsero, non senza resistenze. In seguito Bowles e Gintis approfondirono l’idea che le scuole e il settore pubblico siano terreno di scontro tra le logiche del mercato e quelle della democrazia. A distanza di decenni entrambi riconoscono che molte delle loro tesi sono state confermate da ricerche successive. Studi recenti, basati su dati più accurati e metodi econometrici avanzati, hanno validato le loro conclusioni sull’elevata persistenza intergenerazionale delle disuguaglianze, sul limitato ruolo del QI ereditario e sull’importanza di fattori non cognitivi (come la personalità) nel successo economico. Inoltre ricerche nel campo dell’economia comportamentale hanno dimostrato che molte persone sono intrinsecamente orientate alla cooperazione e all’equità, suggerendo che la disuguaglianza spesso ostacola, anziché favorire, il progresso economico.

1. Riforme liberali ed istruzione negli USA

Il saggio di Bowles e Gintis esplora il ruolo dell’istruzione negli Stati Uniti come sostituto simbolico della frontiera occidentale, un tempo mitizzata come terra di opportunità e mobilità sociale. Nel XIX secolo l’espansione verso ovest rappresentava per molti una via di fuga dalla povertà e dalle dure condizioni delle città industriali. Questa possibilità si rivelò presto un’illusione quando le risorse e le terre furono monopolizzate da grandi compagnie ferroviarie, proprietari minerari e un’élite di agricoltori, lasciando alla maggior parte solo la dura realtà della sopravvivenza. Nonostante ciò, il mito della frontiera continuò a nutrire l’immaginario collettivo, alimentando l’idea che in America chiunque, indipendentemente dalle origini, potesse migliorare la propria condizione attraverso il lavoro e l’iniziativa individuale. Con la chiusura della frontiera fisica e l’affermazione definitiva del sistema industriale, l’educazione assunse il ruolo di nuova frontiera simbolica. Nel corso del XX secolo la scuola divenne l’istituzione chiave per garantire l’ascensore sociale, promettendo una competizione equa basata sul merito anziché sulla nascita. L’espansione dell’istruzione superiore, in particolare dopo la Seconda Guerra Mondiale, sembrò offrire una valvola di sfogo alle tensioni sociali, permettendo a un numero crescente di giovani di accedere al college. Già negli anni ’50 e ’60 emersero i limiti di questa narrativa poiché, nonostante l’aumento dei laureati, molti si ritrovarono disoccupati o sottoccupati, costretti a lavori umili come tassisti o addirittura dipendenti dall’assistenza sociale. Il sistema educativo stesso si stratificò progressivamente, riflettendo le disuguaglianze della società. Al vertice si collocarono le élite delle Ivy League, seguite da una gerarchia di università private, atenei statali e community college. Le speranze di una riforma egualitaria, incarnate da programmi come il War on Poverty e il Project Headstart, si scontrarono con una realtà deludente. Studi autorevoli, come il Coleman Report del 1966, dimostrarono che le risorse scolastiche avevano un impatto marginale sui risultati degli studenti mentre ricerche successive confermarono che l’istruzione, da sola, non bastava a ridurre le disparità di reddito. Gli anni ’60 e ’70 furono segnati da un’ondata di movimenti sociali che contestavano le disuguaglianze economiche e le relazioni autoritarie nella società, nella scuola e nella famiglia. Studenti, minoranze, donne e lavoratori portarono nelle piazze e nelle istituzioni la richiesta di maggiore uguaglianza e libertà. La risposta liberale a queste proteste fu una serie di riforme, tra cui l’istituzione delle free schools e l’introduzione di metodi pedagogici alternativi come l’open classroom. Queste innovazioni furono presto riassorbite dal sistema, perdendo il loro potenziale rivoluzionario e trasformandosi in strumenti per gestire il malcontento senza intaccare le strutture di potere. Il fallimento delle riforme educative alimentò una controffensiva conservatrice che attribuiva le disuguaglianze a fattori genetici (come nella teoria di Arthur Jensen sul QI ereditario) o culturali (come nelle tesi di Edward Banfield e Daniel Moynihan sulla “cultura della povertà”). Simili interpretazioni, sebbene ampiamente criticate, contribuirono a smantellare il consenso sulle politiche egualitarie, sostituendo l’ottimismo riformatore con un clima di pessimismo e rassegnazione. L’istruzione, nonostante le promesse, non è mai stata un vero motore di uguaglianza. L’aumento generale dei livelli di scolarizzazione non ha ridotto la dipendenza del successo economico dallo status familiare, né ha diminuito le disparità di reddito. Anche il dibattito sul QI e sulle capacità cognitive si è rivelato un vicolo cieco poiché il successo materiale dipende in misura minima da questi fattori. Il sistema educativo, invece di essere uno strumento di emancipazione, riflette e riproduce le contraddizioni della società capitalistica, funzionando come un meccanismo di selezione e controllo sociale. La conclusione è amara ma non priva di speranza: le riforme liberali hanno fallito perché hanno affrontato i sintomi senza intaccare le cause strutturali delle disuguaglianze. Solo una critica profonda dei fondamenti dell’ordine sociale può aprire la strada a un futuro più giusto. La crisi dell’istruzione non è che un riflesso della crisi più generale del sogno americano, un sogno che, congelato nelle sue contraddizioni, attende ancora di essere scongelato. La struttura del sistema scolastico americano non è affatto neutrale o casuale ma perfettamente allineata alle esigenze del capitalismo. L’istruzione non si limita a trasmettere competenze tecniche utili al mercato del lavoro visto che il suo vero ruolo è plasmare mentalità, comportamenti e gerarchie sociali che garantiscano la perpetuazione del sistema economico. Le scuole sono vere e proprie fabbriche di coscienze, dove gli studenti interiorizzano fin da giovani i meccanismi di obbedienza, competizione e subordinazione che troveranno poi nel mondo del lavoro. Questa corrispondenza tra scuola e sistema produttivo è sorprendentemente precisa. I rapporti di autorità tra dirigenti, insegnanti e alunni riproducono quelli tra manager, supervisori e operai; i voti e le valutazioni funzionano come un surrogato degli stipendi, abituando i ragazzi a cercare ricompense esterne anziché motivazioni genuine; la suddivisione rigida delle materie e la competizione tra studenti riflettono la frammentazione del lavoro nelle fabbriche e negli uffici. Persino le differenze tra scuole superiori, college e università rispecchiano la stratificazione del mercato del lavoro: istituti più rigidi e controllati per i futuri lavoratori manuali, maggiore autonomia per i quadri intermedi e libertà apparente (ma norme interiorizzate) per l’élite dirigente. Questa struttura non è immutabile. Il testo esamina i tentativi di riforma, come il movimento delle “free schools”, che negli anni ’60 e ’70 provarono a rompere con l’autoritarismo scolastico. Ma questi esperimenti, pur nobili, fallirono perché non misero mai realmente in discussione il sistema capitalistico che genera quelle stesse disuguaglianze. Anche quando alcune riforme riuscirono a democratizzare parzialmente l’istruzione, il mercato del lavoro trovò altri modi per riprodurre le gerarchie, ad esempio attraverso titoli di studio inflazionati o nuove forme di selezione. La scuola non è un’isola e finché l’economia rimane basata sullo sfruttamento e la disuguaglianza, l’istruzione continuerà a essere un apparato di controllo. Il sistema educativo però non è un meccanismo perfetto. Al suo interno nascono contraddizioni. Come produce lavoratori docili, genera anche ribellione. Le stesse università che formano i dirigenti hanno dato vita a movimenti studenteschi radicali; le scuole che dovrebbero insegnare obbedienza a volte diventano focolai di resistenza. Questo perché il capitalismo deve addestrare manodopera disciplinata ma non può eliminare del tutto il pensiero critico senza perdere innovazione. Fin dalla fine dell’Ottocento l’educazione è stata propagandata come la soluzione ai conflitti sociali generati dall’industrializzazione. Andrew Carnegie, uno dei protagonisti dell’ascesa del capitalismo delle corporations, sosteneva che solo l’istruzione avrebbe potuto garantire la stabilità di un sistema altrimenti minacciato dalle lotte operaie. La sua retorica, ripresa poi da politici come Lyndon B. Johnson, ha trasformato la scuola in uno strumento di legittimazione sociale, presentandola come il mezzo per correggere le ingiustizie senza intaccare le strutture economiche dominanti. Nonostante decenni di riforme progressiste le disuguaglianze di classe, razza e genere persistono, così come l’alienazione lavorativa e il degrado ambientale. Questo paradosso mette in discussione non solo l’efficacia delle politiche educative ma anche i fondamenti stessi della teoria liberale.

La visione ottimistica dell’istruzione si basa su tre presupposti fondamentali: che la scuola possa integrare i giovani nel sistema produttivo, garantire pari opportunità e favorire lo sviluppo personale. John Dewey, il più influente pedagogista liberale, credeva che in una società democratica queste tre funzioni potessero armonizzarsi perché l’autorealizzazione individuale avrebbe coinciso con le esigenze di un’economia dinamica e inclusiva. Allo stesso tempo, la prospettiva tecnocratico-meritocratica, dominante nel dibattito contemporaneo, ha ridotto il problema delle disuguaglianze a una questione di competenze cognitive, sostenendo che un’istruzione neutrale e basata sul merito avrebbe permesso a tutti di competere equamente. Entrambe queste visioni ignorano i limiti strutturali imposti dal capitalismo. Dewey sperava che la scuola potesse trasformare il mondo del lavoro, rendendolo più umano e partecipativo, ma la realtà industriale è rimasta caratterizzata da gerarchie rigide e mansioni ripetitive. Allo stesso modo l’approccio meritocratico ha fallito nel compensare le disparità sociali perché ha sottovalutato il fatto che le disuguaglianze economiche non derivano da differenze innate nelle capacità individuali ma da meccanismi sistemici di esclusione e sfruttamento. La scuola è un’istituzione che riflette e riproduce le divisioni di classe. Le riforme educative, per quanto ben intenzionate, non possono da sole correggere le ingiustizie generate dall’economia capitalistica. Il fallimento delle promesse liberali è il risultato di una contraddizione insanabile, ovvero l’illusione che sia possibile riformare la società senza mettere in discussione i suoi fondamenti economici. La retorica ottimistica di pensatori come Lester Frank Ward, che vedeva nell’istruzione universale la chiave per abbattere ogni gerarchia artificiale, si scontra violentemente con la realtà documentata. Già i primi riformatori scolastici dell’Ottocento, pur sostenendo l’industrializzazione, riconoscevano con preoccupazione le sue conseguenze sociali. Henry Barnard descriveva le città industriali come luoghi di stridenti contrasti dove ricchezza e talento professionale convivevano con povertà, ignoranza e degradazione. Horace Mann, mentre esaltava la scuola come il bilanciere della macchina sociale, ammetteva implicitamente la sua funzione di pacificazione sociale quando scriveva che l’istruzione previene l’essere poveri. Questo doppio registro, promessa di mobilità e controllo delle classi pericolose, emerge con particolare chiarezza nell’approccio verso gli immigrati irlandesi. Il Massachusetts Teacher nel 1851 li paragonava alle acque fangose del Missouri che rischiavano di contaminare la società americana, proponendo l’istruzione obbligatoria come strumento di assimilazione forzata per purificare questa popolazione straniera. Non a caso il modello educativo proposto da Thomas Jefferson prevedeva esplicitamente un sistema a due livelli: un’istruzione di massa per i figli della classe lavoratrice e un’educazione elitaria per i futuri dirigenti, con borse di studio per estrarre qualche genio dalla spazzatura. I dati statistici del Novecento dimostrano la persistenza di queste disuguaglianze strutturali. Le ricerche citate da Bowles e Gintis mostrano che:

1) Un figlio di famiglia benestante (90° percentile socioeconomico) riceve in media 5 anni di istruzione in più rispetto a un coetaneo del 10° percentile.

2) Questa disparità rimane impressionantemente stabile (4,25 anni) anche confrontando bambini con lo stesso QI, dimostrando che le differenze cognitive spiegano solo marginalmente le disuguaglianze educative.

3) Tra i diplomati degli anni ’60, i figli di famiglie con reddito inferiore a $3.000 avevano 6 volte più probabilità di non accedere all’università rispetto a quelli di famiglie sopra i $15.000.

L’analisi quindi smonta sistematicamente tre grandi miti.

  1. Primo mito: l’espansione dell’istruzione riduce le disuguaglianze

I dati longitudinali mostrano che mentre il divario negli anni di scolarizzazione si è effettivamente ridotto (grazie all’innalzamento dell’obbligo scolastico), la disuguaglianza di reddito è rimasta stabile o è addirittura aumentata. Gli studi di Mincer e Chiswick dimostrano che la riduzione delle disparità educative avrebbe dovuto, in teoria, diminuire le differenze salariali dello 0,5%, un effetto statisticamente irrilevante.

  1. Secondo mito: i programmi compensativi possono riequilibrare le opportunità

Le valutazioni del War on Poverty rivelano che il ritorno economico dell’educazione compensativa è stato così basso che, nella maggior parte dei casi, trasferimenti diretti di denaro ai poveri avrebbero avuto un impatto redistributivo maggiore.

  1. Terzo mito: la parità educativa porta alla parità razziale

Tra il 1940 e il 1972 il divario educativo tra neri e bianchi si è ridotto dal 38% al 18% (fino al 4% per i giovani 25-34enni). Eppure, come dimostra Richard Freeman, il divario di reddito è rimasto sostanzialmente invariato (30% per i giovani), segno che altri meccanismi, segregazione abitativa, delocalizzazione dei lavori, discriminazione occupazionale, hanno sostituito la scuola come strumenti di mantenimento delle gerarchie razziali.

Il fallimento della scuola come equalizzatore sociale non è dunque un incidente di percorso ma il risultato prevedibile di un sistema che nasce esplicitamente per gestire (non eliminare) le disuguaglianze del capitalismo industriale, opera in un contesto economico che riproduce costantemente stratificazioni di classe e tratta le differenze sociali come se fossero differenze individuali di merito o capacità. La scuola americana, sin dalle sue origini, è stata concepita come un potente strumento di controllo sociale, un meccanismo raffinato per plasmare individui docili e funzionali all’ordine costituito. Questa realtà, spesso celata dietro retoriche pedagogiche progressiste, emerge con chiarezza quando si analizzano le pratiche concrete che hanno caratterizzato l’istituzione scolastica nel corso dei secoli. Già Benjamin Rush nel 1786 esprimeva senza mezzi termini questa funzione quando sosteneva che l’educazione doveva essere arbitraria, mirata a negare ai giovani la consapevolezza della propria volontà fino alla maggiore età perché solo così si potevano formare cittadini obbedienti alle leggi della repubblica. Quello che colpisce è la straordinaria continuità di questo modello educativo nonostante i mutamenti sociali. A fine Ottocento, Joseph Mayer Rice dipingeva un quadro desolante di aule scolastiche dove regnava un’atmosfera opprimente, con insegnanti che esercitavano un controllo dispotico su studenti ridotti a mere marionette, costretti a ripetere meccanicamente nozioni senza alcun coinvolgimento critico. Quasi settant’anni dopo, Charles Silberman riscontrava la stessa realtà: scuole grigie e repressive, dove l’originalità veniva sistematicamente scoraggiata a favore di un conformismo sterile. La persistenza di questo modello non può essere casuale, dimostra come la scuola sia stata strutturata per rispondere a precise esigenze di controllo più che a ideali educativi. Le radici di questo sistema affondano nel Puritanesimo del Seicento, quando i bambini venivano considerati esseri naturalmente depravati da redimere attraverso un’educazione repressiva. Jonathan Edwards predicava a ragazzi terrorizzati che Dio era quotidianamente adirato con loro, descrivendo l’infanzia come uno stato di perenne peccato. Questa visione si è evoluta ma non è mai scomparsa. Nell’Ottocento, con l’arrivo degli immigrati, la scuola assunse esplicitamente il ruolo di correttore delle presunte carenze morali delle famiglie povere e straniere. Documenti ufficiali del 1874 parlavano senza vergogna della necessità di compensare la mancanza di cure familiari attraverso una disciplina ferrea. Il Novecento ha visto un cambiamento apparente: dalla repressione violenta si è passati a un controllo più sofisticato e interiorizzato. Se prima l’insegnante esercitava un’autorità personale e brutale, il sistema iniziò a basarsi su meccanismi burocratici che inducono gli studenti ad autocontrollarsi. Le valutazioni scolastiche, in particolare, rivelano questa logica. Studi come quelli di Holland dimostrano che i voti alti premiano, invece di creatività e il pensiero critico, tratti come l’obbedienza alle regole e la motivazione estrinseca. Gli studenti originali e indipendenti, anche quando brillanti, vengono sistematicamente penalizzati. Il fallimento delle riforme progressiste è particolarmente illuminante. Nonostante il movimento di Dewey avesse teorizzato una scuola basata sull’autonomia e l’esperienza concreta, queste idee sono state costantemente neutralizzate dall’egemonia del modello industriale. La scuola è stata riorganizzata secondo i principi del Scientific Management di Taylor, dove gli insegnanti diventano semplici esecutori di programmi decisi altrove e gli studenti vengono trattati come prodotti da standardizzare. La retorica progressista è rimasta sulla carta mentre nella pratica si è mantenuto un sistema gerarchico e repressivo. Questa resistenza al cambiamento risponde a precise esigenze sociali. La scuola serve a riprodurre le gerarchie esistenti, preparando i futuri lavoratori ad accettare ruoli subordinati. Allo stesso tempo, funziona come filtro per marginalizzare chi mostra troppa indipendenza di pensiero. Infine, giustifica le disuguaglianze sociali presentandosi come redentrice dei bambini svantaggiati mentre in realtà ne smorza sistematicamente il potenziale trasformativo. Dietro la facciata delle riforme e delle buone intenzioni, la scuola rimane fondamentalmente quello che è sempre stata: un dispositivo di controllo sociale che premia il conformismo e reprime l’autonomia. Tuttavia il semplice accumulo di anomalie tra teoria e pratica non basta a delegittimare un paradigma dominante in assenza di un’alternativa convincente. Nel caso dell’educazione liberale, i fallimenti documentati, dall’incapacità di ridurre le disuguaglianze all’inefficacia nel promuovere uno sviluppo autentico dell’individuo, potrebbero essere interpretati come segnale di una transizione incompiuta. Il capitalismo, del resto, è un sistema ancora giovane, e la sua retorica ufficiale, con il suo enfatizzare tolleranza, mobilità sociale e realizzazione personale, potrebbe, in linea teorica, trovare piena attuazione in un futuro più “maturo”. Oppure, in un’ottica più pessimista, le disparità potrebbero essere il frutto di limiti strutturali insuperabili, come suggeriscono teorici come Jensen e Herrnstein, che attribuiscono le differenze socioeconomiche a fattori cognitivi innati. Una critica seria alla pedagogia liberale non può limitarsi a constatarne gli esiti fallimentari, essa deve smascherarne le contraddizioni teoriche e proporre una visione alternativa. L’argomento sviluppato da Bowles e Gintis è che il fallimento delle riforme educative progressive è strutturale, radicato nell’incompatibilità tra gli obiettivi dichiarati (integrazione sociale, uguaglianza, sviluppo personale) e le esigenze di un’economia capitalistica basata sulla gerarchia e l’alienazione. La versione democratica della teoria liberale, ispirata a John Dewey, sogna una scuola che prepari gli individui a una partecipazione politica attiva e a un lavoro inteso come estensione naturale delle proprie inclinazioni ma questa visione ignora la realtà autocratica del mondo produttivo capitalistico, dove le relazioni sociali sono rigidamente verticali, il controllo è centralizzato e il lavoratore non ha voce in capitolo se non quella di sottomettersi o rifiutare il lavoro, scelta che, in assenza di alternative, equivale a una condanna all’emarginazione economica. Dewey, pur consapevole di questa contraddizione (arriva a parlare di un’”aristocrazia industriale” che detta le regole del gioco), cade nell’ingenuità tipica del liberalismo: crede che l’istruzione, affidata a esperti, possa correggere le distorsioni del sistema senza metterne in discussione i fondamenti. Non considera che in un’economia di mercato la logica del profitto richiede necessariamente un controllo gerarchico e flessibile della forza lavoro, rendendo impossibile conciliare autentica democrazia interna all’impresa con le esigenze dell’accumulazione capitalistica. Parallelamente la versione tecnocratica della pedagogia liberale commette un errore opposto ma speculare quando riduce l’educazione a mero addestramento di competenze cognitive, presupponendo che siano queste a determinare il successo economico. Questa visione trascura il fatto che, al di là delle abilità tecniche, ciò che il sistema produttivo richiede è l’adattamento a relazioni sociali gerarchiche e disciplinate. La scuola è un apparato di riproduzione delle disuguaglianze e la sua organizzazione interna, con le sue gerarchie, i suoi sistemi di valutazione, la sua divisione tra indirizzi “prestigiosi” e professionalizzanti, riflette e rinforza la stratificazione del mercato del lavoro. Una simile “corrispondenza” tra relazioni educative e relazioni produttive spiega perché le riforme egualitarie siano destinate a fallire. In un’economia capitalistica la scuola non può essere contemporaneamente uno strumento di emancipazione e un meccanismo di selezione di classe. Le sperimentazioni più radicali hanno avuto scarso impatto perché agiscono in un contesto che ne neutralizza le potenzialità trasformative. L’uguaglianza formale nell’accesso all’istruzione non elimina le disuguaglianze materiali; al massimo le sposta ad altri livelli, magari sostituendo i criteri espliciti di esclusione con meccanismi più sottili ma non meno efficaci. La rivoluzione industriale ha plasmato la scuola per servire un duplice scopo: aumentare la produttività del lavoro e al tempo stesso legittimare l’ordine sociale esistente. Le riforme liberali, pur animate da ideali nobili, hanno finito per essere assorbite da questa logica, diventando parte integrante della macchina capitalistica piuttosto che suo correttivo.

2. Istruzione ed economia capitalista

Per Bowles e Gintis il fallimento delle riforme educative liberali deriva dalle teorie sociali che le sostengono e quindi da una comprensione incompleta e spesso mistificata della natura del sistema economico capitalistico. La tesi centrale è che solo attraverso un’analisi rigorosa e spregiudicata delle istituzioni economiche statunitensi sia possibile costruire una teoria educativa alternativa che non si limiti a ratificare lo status quo ma apra concreti percorsi di trasformazione. La riflessione prende le mosse da una citazione emblematica del Capitale di Marx che descrive il mercato capitalistico come un vero e proprio Eden dei diritti innati dell’uomo, dove regnano formalmente libertà e uguaglianza ma nella realtà si consuma la subordinazione del lavoratore al capitale. Questo paradosso tra uguaglianza formale e disuguaglianza sostanziale costituisce il filo conduttore dell’intera argomentazione. L’economia capitalistica viene concettualizzata come un apparato che fondamentalmente “produce persone”, modellando gli individui attraverso il lavoro e l’istruzione secondo le esigenze del profitto e del controllo sociale piuttosto che in base ai bisogni umani autentici.

Nonostante la cornice democratica del sistema politico statunitense, la sfera economica è strutturata secondo principi autoritari che negano ai lavoratori qualsiasi reale partecipazione al processo decisionale. Mentre la democrazia politica si fonda sull’ideale della massima partecipazione popolare e sulla protezione delle minoranze, l’economia capitalistica opera secondo una logica diametralmente opposta: minimizza il potere decisionale della maggioranza (i lavoratori), protegge gli interessi di una ristretta élite capitalistica e assicura la subordinazione sistematica della forza lavoro. Questa contraddizione fondamentale tra democrazia politica e autoritarismo economico viene analizzata come una delle tensioni costitutive del capitalismo contemporaneo. Il meccanismo centrale che sostiene questo sistema è identificato nella dinamica del profitto che spinge i capitalisti a massimizzare lo sfruttamento del lavoro attraverso molteplici strategie: l’intensificazione dei ritmi produttivi, l’estensione della giornata lavorativa, la compressione dei salari e la precarizzazione dell’occupazione. Queste pratiche generano un conflitto permanente tra capitale e lavoro che il sistema cerca di contenere attraverso un complesso apparato di controllo. Da un lato, ricorre a mezzi coercitivi diretti, come la repressione statale e la legislazione anti-sindacale; dall’altro, sviluppa meccanismi più sofisticati di dominio ideologico e organizzativo.

Particolarmente interessante è l’analisi delle trasformazioni storiche nell’organizzazione del processo lavorativo. Il testo ricostruisce il passaggio dal sistema del lavoro a domicilio (putting-out system) alla fabbrica capitalistica, mostrando come questo abbia rappresentato una radicale espropriazione dell’autonomia operaia. Nell’organizzazione pre-capitalistica gli artigiani mantenevano il controllo sul processo produttivo, decidendo tempi e modalità del proprio lavoro, mentre la fabbrica moderna concentra tutto il potere decisionale nelle mani del capitale. Questo processo di espropriazione si è accompagnato alla progressiva erosione delle forme di produzione autonoma (piccola proprietà contadina, botteghe artigiane) e alla creazione di un proletariato sempre più dipendente dalla vendita della propria forza lavoro. Il fallimento storico delle esperienze cooperative viene analizzato come un momento cruciale di questa dinamica. Nonostante i ripetuti tentativi del movimento operaio di costruire alternative alla produzione capitalistica (dalle cooperative degli anni 1840 alle esperienze dei Knights of Labor negli anni 1880), questi progetti sono stati sistematicamente sabotati dalla mancanza di accesso al credito, dalla concorrenza sleale delle imprese capitalistiche e dalla difficoltà di accumulare capitale in un sistema dominato dalle grandi imprese. Nell’evoluzione del capitalismo statunitense dalla fase concorrenziale a quella monopolistica la concentrazione della proprietà e la centralizzazione del capitale hanno prodotto un sistema dominato da grandi corporations che controllano quote sempre maggiori della ricchezza nazionale. Le statistiche citate sono impressionanti: già negli anni ‘70 lo 0,1% delle maggiori corporation controllava il 60% di tutti gli asset aziendali mentre il 94% delle imprese più piccole deteneva meno dell’8% della ricchezza delle corporation. Questo processo di concentrazione ha avuto profonde implicazioni sull’organizzazione del lavoro, con l’affermazione di strutture burocratiche sempre più gerarchiche e autoritarie.

Queste trasformazioni economiche hanno influenzato direttamente il sistema educativo. La scuola viene concettualizzata come un apparato che riproduce le relazioni sociali del capitalismo, adattando i giovani alle gerarchie del mondo del lavoro attraverso la selezione meritocratica, la frammentazione del sapere e l’inculcazione di valori conformisti. Allora le riforme educative progressiste del Novecento vengono interpretate come risposte funzionali alle esigenze di un capitalismo sempre più legato alle corporations e alla loro burocrazia.

Un concetto centrale nell’analisi del capitalismo di Bowles e Gintis è quello di sviluppo ineguale, inteso come una caratteristica intrinseca e sistemica del capitalismo che si manifesta attraverso profonde contraddizioni e squilibri strutturali. Questa dinamica implica una vera e propria trasformazione qualitativa delle forme di disuguaglianza, della natura del lavoro e delle richieste poste al sistema educativo. Il capitalismo si espande orizzontalmente, sostituendo progressivamente le forme di produzione pre-capitalistiche (artigianato, agricoltura familiare, economia domestica) con il lavoro salariato e la produzione per il profitto mentre contemporaneamente approfondisce verticalmente i meccanismi gerarchici di controllo, creando un sistema sempre più sofisticato di dominio sul lavoro. Lo sviluppo ineguale si manifesta su molteplici livelli, ciascuno dei quali mostra la natura contraddittoria del processo capitalistico. A livello settoriale, si osserva una crescita accelerata nella produzione di beni di consumo e servizi privati mentre settori cruciali per il benessere sociale come la tutela ambientale, la coesione comunitaria e la qualità del lavoro subiscono un processo di stagnazione o addirittura di deterioramento. A livello geografico, Bowles e Gintis evidenziano forti squilibri nello sviluppo regionale, con alcune aree del paese che beneficiano della crescita economica mentre altre vengono lasciate indietro e con un divario crescente tra aree urbane e rurali. Su scala globale questa dinamica si riproduce nel rapporto tra nazioni ricche e povere all’interno della sfera capitalistica internazionale, dove lo sviluppo delle prime avviene spesso a spese delle seconde. La radice di questi squilibri viene individuata nella distribuzione estremamente diseguale della proprietà del capitale e nell’accesso ineguale al potere politico e alle informazioni economicamente rilevanti. La crescita economica capitalista è un processo intrinsecamente turbolento e imprevedibile, caratterizzato da innovazioni tecnologiche, apertura di nuovi mercati e sviluppo di nuovi prodotti. Coloro che possiedono capitale, potere politico e informazioni privilegiate sono in grado di cogliere tempestivamente queste opportunità, consolidando ulteriormente la loro posizione dominante e creando un circolo vizioso di accumulazione. Al contrario, chi è privo di queste risorse è costretto ad attendere che i benefici della crescita “tracimino” verso il basso, in un processo che raramente riesce a colmare le disparità iniziali.

Il caso storico degli Stati Uniti viene analizzato come un esempio paradigmatico di questa dinamica. Fin dal periodo prebellico il capitale era concentrato nelle mani di poche centinaia di famiglie che controllavano il commercio, il credito e le istituzioni finanziarie del Nord mercantile. Queste élite, ricche e politicamente influenti, hanno fornito la base per lo sviluppo industriale, l’espansione verso ovest e la capitalizzazione dell’agricoltura. Dopo la Guerra Civile, anche il Sud e l’Ovest hanno sviluppato i propri circoli di ricchezza capitalistica, sebbene con un potere non paragonabile a quello delle élite nordorientali. La concentrazione del capitale ha generato sviluppo ineguale attraverso molteplici meccanismi: la superiorità delle risorse ha permesso alle grandi imprese di eliminare la concorrenza su piccola scala grazie a un maggiore potere di mercato, a un’organizzazione più coordinata, alla capacità di impiegare tecnologie avanzate e su larga scala e a un conseguente tasso più elevato di accumulazione di capitale. A ciò si aggiunge la capacità del capitale concentrato di influenzare il governo, ottenendo legislazioni favorevoli, decisioni giudiziarie vantaggiose e, quando necessario, interventi armati per facilitare la propria espansione.

Un’importante conseguenza di questi modelli contrastanti di avanzamento tecnologico e accumulazione di capitale è la stagnazione delle regioni arretrate e dei settori a basso profitto dell’economia, come la produzione imprenditoriale individuale altamente competitiva. Mentre il settore delle corporations dinamico sfrutta le regioni e le industrie più redditizie, gli altri settori vengono lasciati indietro, creando un contrasto stridente tra crescita e stagnazione che caratterizza la disuguaglianza economica. Sebbene parte del dinamismo del settore delle corporations possa “tracimare” verso altre parti dell’economia, i proprietari dei mezzi di produzione nei settori meno potenti, come i capitalisti imprenditoriali individuali, i lavoratori autonomi o i piccoli proprietari, sono sostanzialmente esclusi dall’accesso diretto alle forze dinamiche dell’economia. Parallelamente allo sviluppo ineguale del settore delle corporations, Bowles e Gintis analizzano lo sviluppo ineguale della forza lavoro capitalistica, un fenomeno che ha implicazioni significative per il sistema educativo, in particolare nel trattamento delle minoranze razziali ed etniche. Storicamente, gruppi con caratteristiche distintive di classe sociale, razza, etnia e genere sono stati integrati nel sistema di lavoro salariato statunitense attraverso “ondate” successive. Ogni gruppo, inizialmente sfruttato in modo particolarmente intenso e stigmatizzato socialmente, ha poi gradualmente ottenuto una posizione più stabile in settori e livelli specifici della produzione, soprattutto grazie all’organizzazione politica e alla comparsa di nuove ondate di lavoratori che andavano a occupare i gradini più bassi della scala occupazionale. Queste ondate di integrazione sono avvenute in fasi cruciali della crescita economica e di conseguenza le esperienze dei diversi gruppi sono state qualitativamente diverse sia in termini di occupazione che di possibilità di mobilità. Il testo fornisce diversi esempi storici di questa dinamica: l’esperienza degli operai specializzati bianchi nativi nel XIX secolo, integrati nella produzione industriale con l’ascesa del capitale imprenditoriale, è radicalmente diversa da quella degli immigrati dell’Europa settentrionale nella prima ondata di espansione capitalistica, quando la maggior parte dei nuovi lavori erano essenzialmente dequalificati. Entrambe queste esperienze differiscono a loro volta da quella degli immigrati dell’Europa meridionale e orientale, associati a una seconda ondata di consolidamento delle corporations alla fine del XIX secolo, quando i “sottoproletariati” etnici divennero elementi stabili della struttura di classe urbana. Allo stesso modo, il passaggio dei neri americani dall’agricoltura del Sud al lavoro salariato urbano nel periodo successivo alla Prima Guerra Mondiale presenta differenze significative rispetto alle esperienze dei loro predecessori e ha permesso un miglioramento della posizione dei lavoratori bianchi etnici, per cui questi ultimi avevano lottato per decenni. Non meno importante è il movimento storico delle donne dentro e fuori dal settore del lavoro salariato mentre mantenevano le loro posizioni nella produzione domestica, un fenomeno che conferisce all’analisi dell’oppressione femminile un’impronta caratteristica. Lo sviluppo ineguale dell’economia porta naturalmente alla segmentazione dei lavoratori in gruppi distinti, basata sulle loro esperienze storiche uniche nel processo di integrazione nell’economia capitalistica, sul potere relativo che hanno ottenuto in vari settori, sulla loro coesione sociale, razziale, etnica e sessuale, nonché sul trattamento differenziale da parte dei datori di lavoro. Oltre alle ovvie segmentazioni tra bianchi e non bianchi, uomini e donne, “etnici” e WASP, il testo identifica una divisione più ampia tra coloro che operano nei cosiddetti mercati del lavoro “primari” e “secondari”. Il segmento primario è localizzato prevalentemente nei settori delle corporations e statale, dove i lavori sono caratterizzati da salari relativamente alti e un certo grado di sicurezza del lavoro garantita dai sindacati dei colletti bianchi e blu. Nel settore primario del mercato del lavoro, dove l’ordine burocratico e la divisione gerarchica del lavoro sono la norma, esistono scale salariali ben definite, regole di anzianità e opportunità di promozione. In questo contesto le credenziali educative svolgono un ruolo importante e i lavoratori sono prevalentemente maschi bianchi adulti ma non anziani. Accanto a questo settore primario esiste un segmento secondario caratterizzato da salari bassi, grande instabilità occupazionale, alto turnover e scarsa sindacalizzazione. Nel mercato del lavoro secondario le scale salariali sono rare e le possibilità di promozione scarse. Le credenziali educative non sono requisiti importanti per l’ingresso nel lavoro; i lavori offrono poche opportunità di apprendimento di competenze e i lavoratori non vengono retribuiti in base alla formazione e alle competenze. Infine, i lavoratori sono relativamente impotenti rispetto al datore di lavoro; minacce e coercizione sono i mezzi usuali per garantire la conformità. Una parte significativa dei lavori nel settore capitalistico imprenditoriale su piccola scala può essere considerata parte di questo mercato del lavoro secondario, sebbene anche i lavori di livello più basso nel settore corporations assumano spesso questa forma. L’occupazione secondaria è il destino atteso dei gruppi sociali più oppressi: neri, portoricani, chicanos, nativi americani, donne, anziani, giovani e altri gruppi minoritari.

Questa analisi complessiva delle relazioni di mercato e di proprietà, delle relazioni sociali di lavoro e delle dinamiche dello sviluppo ineguale porta a considerare la necessità di collocare gli individui nella società in gruppi identificabili ai fini dell’analisi, piuttosto che concepirla come un continuum di status sociali. Bowles e Gintis introducono quindi il concetto di classe come gruppo di individui che si relazionano al processo produttivo in modi simili, una struttura che emerge naturalmente dalle istituzioni del capitalismo statunitense. Le relazioni di proprietà sono un aspetto essenziale della classe ma altrettanto importanti sono le relazioni di controllo. Nella sua delineazione più ampia, la classe capitalistica possiede e controlla i mezzi di produzione mentre i lavoratori non possiedono i prodotti del loro lavoro, né controllano gli strumenti, gli edifici e le strutture del processo produttivo. Una visione più dettagliata e analiticamente utile della struttura di classe distingue diversi segmenti all’interno sia della classe capitalistica che di quella lavoratrice. I capitalisti del settore corporations dominante possono essere distinti dai proprietari di piccole imprese, così come i lavoratori in diversi settori e a diversi livelli della divisione gerarchica del lavoro all’interno di un settore formano strati sociali distinti, come fanno i lavoratori in diversi segmenti del mercato del lavoro. Comprendere le dinamiche delle relazioni di classe è essenziale per apprezzare adeguatamente il legame tra economia e educazione poiché le istituzioni della vita economica non operano meccanicamente per produrre risultati sociali ma cambiano e si sviluppano attraverso i tipi di relazioni di classe che generano. Il sistema educativo è coinvolto nella riproduzione e nel cambiamento di queste relazioni di classe e non può essere compreso semplicemente “sommando” gli effetti della scolarizzazione su ciascun individuo per arrivare a un impatto sociale totale. Le classi sono importanti perché gli individui nella società statunitense non si relazionano tra loro solo come individui ma come gruppi. In altre parole, la classe è un concetto sociale e le classi sono definite solo attraverso come si relazionano ad altre classi. Allo stesso modo, gli strati sociali all’interno delle classi possono essere individuati solo attraverso le loro relazioni di potenziale armonia e conflitto con altri strati. Il conflitto di classe può verificarsi all’interno di un settore, per esempio tra lavoratori e proprietari nel settore imprenditoriale, o tra settori, come tra capitalisti delle corporations nell’agrobusiness e piccoli agricoltori. Le esperienze quotidiane comuni nella produzione e le lotte comuni contro classi opposte, o in cooperazione con classi alleate, danno origine a un insieme comune, non identico, di valori e percezioni o a una coscienza comune, all’interno di una classe. Bowles e Gintis sviluppano anche una profonda analisi del rapporto tra lavoro, potere e tecnologia all’interno del sistema capitalistico, evidenziando come la mercificazione della forza lavoro rappresenti il punto nodale di un processo di alienazione che trasforma l’attività umana in mera merce soggetta alle leggi della domanda e dell’offerta. Questo processo di oggettivazione del lavoro, che Marx definisce come riduzione della “forza lavoro” a semplice capacità produttiva separata dalla totalità dell’esperienza umana, si approfondisce storicamente attraverso una triplice dinamica: la progressiva separazione dei lavoratori dai mezzi di produzione, l’approfondimento dei meccanismi di controllo gerarchico all’interno del processo produttivo e la creazione strutturale di un esercito industriale di riserva composto da gruppi sociali marginalizzati e precarizzati. La critica al determinismo tecnologico rappresenta l’asse portante dell’argomentazione, dimostrando come l’organizzazione gerarchica del lavoro non sia una necessità imposta dalla tecnologia bensì il risultato di precise scelte di classe finalizzate al mantenimento del controllo sul processo produttivo. A sostegno di questa tesi, gli autori lavorano con grande precisione sul caso della Rivoluzione Industriale, smontando i tre argomenti classici di Adam Smith a favore della divisione tecnica del lavoro. Contrariamente all’opinione comune, l’aumento di destrezza derivante dalla specializzazione si ottiene in poche settimane, come dimostrano i casi storici dell’industria tessile britannica durante le guerre napoleoniche, quando le donne sostituirono rapidamente gli uomini al telaio, o dell’industria statunitense durante la Seconda Guerra Mondiale, dove la riconversione della manodopera avvenne senza lunghi periodi di formazione. Allo stesso modo, il presunto risparmio di tempo nei passaggi tra diverse operazioni non richiede necessariamente una struttura gerarchica e può essere ottenuto attraverso un semplice coordinamento tra lavoratori con pari competenze, come avveniva nelle botteghe artigiane medievali. L’esempio più lampante della non neutralità della tecnologia emerge dall’analisi dell’industria calzaturiera statunitense, dove l’introduzione di macchinari specializzati avvenne solo dopo la riorganizzazione gerarchica della produzione, dimostrando che furono i rapporti di potere a determinare l’evoluzione tecnica e non viceversa. Questo caso trova un parallelo significativo nello studio di Katherine Stone sull’industria siderurgica tra il 1890 e il 1910, periodo in cui la produttività triplicò mentre i salari reali aumentarono solo del 50%. Prima del 1890 gli operai specializzati delle acciaierie, organizzati nell’Amalgamated Association of Iron, Steel and Tin Workers, controllavano effettivamente il processo produttivo attraverso il sistema della paga a tonnellata che garantiva loro autonomia nell’organizzazione del lavoro e un potere contrattuale tale da poter bloccare qualsiasi innovazione non concordata. La rottura di questo equilibrio di potere, simboleggiata dallo scontro violento di Homestead del 1892, fu il prerequisito necessario per l’introduzione delle nuove tecnologie e l’imposizione di un rigido controllo gerarchico, dimostrando che l’obiettivo primario dei capitalisti non era l’efficienza produttiva in sé ma il rafforzamento del loro dominio sul processo lavorativo.

Le evidenze empiriche sull’organizzazione democratica del lavoro, tratte da studi come il Piano Scanlon e confermate dalle ricerche citate da Vroom e Blumberg, rivelano un paradosso significativo: quando i lavoratori partecipano alle decisioni produttive, la produttività aumenta in media del 23% annuo, un dato sette volte superiore alla media nazionale statunitense. Questi miglioramenti, sistematicamente replicati in diversi contesti industriali, dimostrano che le strutture gerarchiche non sono solo alienanti ma anche inefficienti sotto il profilo strettamente economico. Eppure queste esperienze di democrazia industriale vengono regolarmente abbandonate una volta superata la crisi che le aveva rese necessarie perché minano alla base il principio fondamentale del capitalismo: il controllo di classe sul processo produttivo. La sezione dedicata alla “Economia del controllo” chiarisce le ragioni profonde di questa contraddizione, analizzando la triplice logica che guida l’organizzazione capitalistica del lavoro. In primo luogo, l’efficienza tecnica viene sistematicamente subordinata agli imperativi del controllo gerarchico, ottenuto attraverso la frammentazione dei compiti e la divisione artificiale dei lavoratori lungo linee di razza, genere e qualifica. In secondo luogo, il sistema capitalistico richiede una costante opera di legittimazione delle sue gerarchie, ottenuta mediante l’uso strategico di credenziali educative, differenze salariali e codici comportamentali che trasformano le disuguaglianze sociali in apparenti necessità tecniche. Questa analisi rivela come l’alienazione del lavoro sia il risultato intenzionale di rapporti di potere che trovano nella scuola uno dei loro principali dispositivi di riproduzione. Il sistema educativo, lungi dall’essere neutrale, viene plasmato per preparare i giovani ad accettare come naturale un’organizzazione del lavoro che nega loro qualsiasi controllo reale sul processo produttivo, perpetuando così quel circolo vizioso di dominio e subordinazione che costituisce il vero motore dell’accumulazione capitalistica.

I dati sulla distribuzione del reddito tra il 1910 e il 1972 mostrano una stabilità sconcertante nelle disparità economiche: nonostante la vigorosa crescita del secondo dopoguerra, l’espansione senza precedenti dell’istruzione pubblica e l’introduzione di politiche sociali progressiste come la tassazione progressiva e il sistema di welfare, la forbice tra ricchi e poveri rimane incredibilmente immutata. Il 20% più ricco della popolazione continua ad accaparrarsi circa il 40% del reddito totale, una percentuale che non accenna a diminuire nonostante i profondi mutamenti sociali e tecnologici del periodo, mentre il 20% più povero si deve accontentare di una misera fetta del 5%. Questa impressionante stabilità delle disuguaglianze attraversa indenne persino l’introduzione delle tasse sulle successioni che si rivelano del tutto inefficaci nel ridurre la concentrazione della ricchezza. L’analisi della distribuzione della ricchezza offre un quadro ancora più drammatico: l’1% più ricco detiene saldamente circa un quinto di tutta la ricchezza nazionale e la metà del capitale azionario mentre il restante 50% delle azioni è controllato quasi interamente dal successivo 19% della popolazione. Questo sistema di privilegio si autoalimenta generazione dopo generazione attraverso il controllo quasi esclusivo del risparmio personale, con il 90% del risparmio totale che proviene dal 20% più ricco, creando una vera e propria dinastia capitalistica pressoché impermeabile alle mobilitazioni sociali e alle politiche redistributive. La critica al dogma liberale della separazione tra “uguaglianza delle opportunità” e “uguaglianza dei risultati” raggiunge il suo apice quando viene smascherata l’ipocrisia di questa distinzione attraverso dati inoppugnabili. Le riforme anti-discriminatorie e l’espansione educativa hanno clamorosamente fallito nel ridurre le disparità. Le donne continuano a guadagnare sostanzialmente meno degli uomini nonostante il suffragio universale e le trasformazioni culturali; i neri restano intrappolati in una condizione di svantaggio economico nonostante i progressi nell’istruzione e il declino del pregiudizio razziale dichiarato e soprattutto, la mobilità intergenerazionale si rivela un’illusione, con i figli delle classi agiate che guadagnano in media più del doppio rispetto ai loro coetanei di umili origini, a parità di istruzione e competenze. Lo studio di Barry Bluestone sui determinanti salariali offre una chiave di lettura impietosa della realtà. Nel divario retributivo tra un ipotetico operaio bianco sindacalizzato nel segmento primario del mercato del lavoro e una donna nera nel segmento secondario, ben il 36% della differenza è attribuibile al genere, il 17% alla razza e il 22% alla segmentazione del mercato del lavoro stesso, lasciando solo un residuale 25% a fattori potenzialmente meritocratici come istruzione ed esperienza. Questi numeri squarciano il velo ideologico della meritocrazia, rivelando come classe, razza e genere, non il talento o l’impegno individuale, siano i veri architravi della stratificazione sociale nel capitalismo avanzato. L’organizzazione gerarchica del processo produttivo emerge come un perfetto meccanismo di riproduzione delle disuguaglianze, dove i lavoratori vengono inseriti in “scale salariali” con possibilità di avanzamento rigidamente predeterminate. L’accesso ai livelli superiori è filtrato da una complessa alchimia di criteri che privilegiano caratteristiche ascriptive (razza, sesso, età) e modalità di presentazione di sé (linguaggio, abbigliamento, atteggiamento) piuttosto che competenze effettive. Le ricerche citate sono spietate nella loro evidenza empirica. L’altezza di un laureato influisce sul suo stipendio più del voto di laurea; i dirigenti sovrappeso subiscono penalizzazioni fino a 1.000 dollari per chilo e l’aspetto fisico risulta essere il fattore determinante nell’assunzione dei lavoratori svantaggiati, superando di gran lunga esperienza, formazione e titoli di studio. Il sistema educativo, lungi dall’essere il grande equalizzatore sociale come vorrebbe la retorica liberale, si rivela invece un sofisticato apparato di ratifica delle disuguaglianze preesistenti. I dati dimostrano che il rendimento economico dell’istruzione è sistematicamente distorto a favore dei già privilegiati: vale il doppio per i maschi bianchi rispetto a neri e donne e ben il 66% in più per i bianchi di origine borghese rispetto ai loro omologhi di umili origini o ai neri. Analogamente, l’età, e quindi l’esperienza, diventa fonte di vantaggio economico solo per chi ha accesso a posizioni di autorità, tipicamente maschi bianchi con il giusto pedigree sociale, mentre per gli altri gruppi sociali l’anzianità di servizio non si traduce in significativi miglioramenti retributivi.

Questa analisi radicale conclude che le radici profonde della disuguaglianza non vanno cercate nella natura umana o nelle esigenze tecnologiche bensì nelle dinamiche stesse dell’economia capitalistica, nella proprietà privata dei mezzi di produzione che concentra il potere economico nelle mani di pochi; nello sviluppo ineguale che crea sacche di privilegio settoriale e geografico e soprattutto nelle relazioni sociali di produzione gerarchiche che trasformano differenze di razza, genere e classe in disuguaglianze economiche strutturali e autoperpetuanti. L’istruzione non può che riflettere e riprodurre i rapporti di potere esistenti, a meno di non diventare parte di un più ampio progetto di trasformazione dei fondamenti stessi dell’organizzazione economica. La meritocrazia si rivela una finzione ideologica che serve a legittimare un sistema di disparità strutturali, presentandolo come neutro e tecnico mentre in realtà cristallizza forme di oppressione che attraversano generazioni. Solo riconoscendo questa realtà e agendo direttamente sui rapporti di produzione può aprirsi la strada a una vera democratizzazione della vita economica e sociale. Frank Freeman nel 1924 descrive senza mezzi termini la missione della scuola nell’aiutare gli studenti ad accettare le ineguaglianze sociali “con il minor attrito possibile”, gettando così luce sull’essenza adattiva e conservatrice dell’istituzione scolastica. Il sistema educativo opera su più livelli per riprodurre e giustificare la stratificazione sociale esistente. Esso costruisce un’apparenza di meritocrazia attraverso meccanismi apparentemente oggettivi come voti, test standardizzati e tracciamento degli studenti che però si rivelano solo tangenzialmente collegati alle reali esigenze di efficienza sociale. Questi strumenti, presentati come neutrali e tecnici, nascondono in realtà la loro funzione principale, ovvero quella di allocare gli individui in posizioni sociali predeterminate, mantenendo intatte le gerarchie esistenti. L’ideologia meritocratica, profondamente radicata sia nella cultura popolare che nel pensiero accademico dominante, viene smontata pezzo per pezzo attraverso evidenze empiriche incontrovertibili. Gli studi citati, come quello di Daniel C. Rogers che analizza i guadagni nel corso della vita di 1.827 maschi testati nel 1935, dimostrano che il rendimento economico dell’istruzione è sostanzialmente indipendente dal QI, smentendo l’assunto fondamentale del merito come determinante del successo. Ancora più significativo è il caso del City College di New York, dove l’esperimento di ammissione libera ha mostrato come studenti con punteggi iniziali più bassi raggiungessero progressi accademici comparabili a quelli degli studenti regolari, evidenziando l’arbitrarietà dei criteri selettivi tradizionali. Il sistema educativo opera quindi come un sofisticato apparato di socializzazione che, attraverso la ripetizione di successi e fallimenti nel contesto scolastico, induce gli studenti ad interiorizzare il proprio destino sociale. Questo processo di “messa a posto” delle aspirazioni è particolarmente efficace perché avviene gradualmente, attraverso anni di esposizione alla competizione scolastica, fino a quando la maggior parte degli studenti arriva a convincersi della propria incapacità di raggiungere livelli superiori. Così la scuola riproduce le disuguaglianze e fa sì che vengano percepite come legittime e inevitabili. Il mito meritocratico serva a giustificare anche l’organizzazione gerarchica e alienante del lavoro nel capitalismo avanzato. Presentando la divisione gerarchica del lavoro come necessità tecnica piuttosto che come scelta sociale e dipingendo l’allocazione dei ruoli lavorativi come frutto di valutazioni oggettive delle capacità individuali, il sistema educativo contribuisce a rendere accettabile una struttura produttiva fondamentalmente antidemocratica. La contraddizione insita in questo meccanismo di legittimazione emerge con forza nel dibattito sulle ammissioni universitarie libere, dove sia i sostenitori che gli oppositori danno per scontata la connessione tra merito scolastico ed efficienza sociale, nonostante l’evidenza dimostri il contrario. Questo dimostra quanto profondamente l’ideologia meritocratica sia interiorizzata, al punto da diventare un presupposto incontestato anche da chi si batte per maggiore equità. Il rapporto tra educazione, disuguaglianza e meritocrazia è un tema complesso che sfida molte delle concezioni tradizionali sul ruolo dell’istruzione nella società. L’idea diffusa, spesso definita come prospettiva tecnocratico-meritocratica, è che l’educazione aumenti il reddito individuale migliorando le competenze cognitive, le quali a loro volta accrescono la produttività economica. Secondo questa visione, il sistema scolastico funzionerebbe come un meccanismo meritocratico in cui il successo è legato alle capacità intellettuali e quindi le disuguaglianze economiche sarebbero, almeno in parte, giustificate da differenze nelle abilità cognitive. Questa interpretazione trascura una serie di evidenze empiriche e concettuali che dimostrano come il legame tra istruzione, competenze cognitive e successo economico sia molto più debole di quanto comunemente si creda, e come, invece, il sistema educativo svolga funzioni sociali più ampie e meno esplicite, legate alla riproduzione delle gerarchie sociali piuttosto che alla loro riduzione. Un primo elemento da considerare è che, sebbene esista una correlazione statisticamente significativa tra anni di istruzione e reddito, questa relazione non può essere spiegata principalmente dal ruolo delle scuole nel migliorare le capacità cognitive. Analisi dettagliate mostrano che, anche quando si confrontano individui con lo stesso livello di abilità cognitive, coloro che hanno più anni di istruzione tendono comunque a ottenere redditi più alti. Ciò suggerisce che il valore economico dell’istruzione non risieda tanto nelle competenze che essa trasmette, quanto piuttosto in altri fattori, come il suo ruolo di filtro sociale, di certificazione di determinate caratteristiche personali (quali disciplina, conformità alle norme, capacità di adattarsi alle gerarchie lavorative) o di accesso a reti sociali privilegiate. In altre parole, il sistema educativo funziona non solo come produttore di conoscenze ma anche come meccanismo di selezione e stratificazione che contribuisce a mantenere e legittimare le disuguaglianze esistenti. Un esempio storico riportato nel testo è particolarmente illuminante: un industriale del Massachusetts, a metà Ottocento, sosteneva che i lavoratori più istruiti fossero più produttivi, meglio disciplinati e meno inclini a proteste rispetto a quelli ignoranti. Tuttavia, studi successivi sui registri delle fabbriche dell’epoca dimostrarono che non vi era alcuna correlazione tra alfabetizzazione (misurata dalla capacità di firmare i registri paga) e produttività individuale. Questo caso mostra come le credenze sul legame tra istruzione e competenze lavorative siano spesso basate su pregiudizi ideologici piuttosto che su dati concreti e come il sistema educativo possa essere utilizzato per giustificare gerarchie preesistenti, attribuendo il successo o l’insuccesso economico a presunte differenze di merito individuale. Un ulteriore aspetto critico riguarda il dibattito sull’ereditarietà del QI e il suo ruolo nella determinazione della posizione sociale. Negli anni ‘60 e ‘70 autori come Arthur Jensen e Richard Herrnstein sostennero che le disuguaglianze economiche fossero in gran parte dovute a differenze innate nell’intelligenza, trasmissibili geneticamente. Secondo questa prospettiva, la società meritocratica avrebbe inevitabilmente prodotto una stratificazione basata sul QI, con i più intelligenti che si collocano ai vertici della scala sociale e i meno dotati che rimangono ai livelli inferiori. Questa tesi, però, si basa su un presupposto non verificato, cioè che il QI sia effettivamente il fattore determinante del successo economico. Al contrario, i dati mostrano che, anche ammettendo una certa ereditarietà del QI, la sua influenza sulla trasmissione intergenerazionale dello status socioeconomico è marginale. Infatti, se si analizza la relazione tra background familiare e reddito individuale, tenendo costante il QI, si osserva che la correlazione tra origine sociale e successo economico rimane pressoché invariata. Ciò significa che le disuguaglianze si riproducono indipendentemente dalle capacità cognitive, attraverso meccanismi alternativi, quali l’accesso a risorse economiche, reti sociali privilegiate o la trasmissione di tratti non cognitivi (come la motivazione, l’autodisciplina o la capacità di adattarsi alle aspettative delle élite). Anche ipotizzando che il QI sia altamente ereditabile, il suo contributo alla riproduzione delle disuguaglianze economiche sarebbe comunque minimo poiché la maggior parte della trasmissione dello status avviene attraverso canali non legati all’intelligenza. Questa evidenza mette in discussione non solo le teorie genetiche della stratificazione sociale ma anche l’intera impostazione liberale che vede nell’istruzione il principale strumento di mobilità sociale. Se infatti le scuole non sono in grado di compensare le disuguaglianze di partenza, e se le competenze cognitive da sole non garantiscono l’ascesa economica, allora le politiche educative basate sull’espansione dell’accesso all’istruzione rischiano di rivelarsi inefficaci nel ridurre le disparità. Al contrario, il sistema scolastico potrebbe addirittura rafforzare le divisioni sociali, attribuendo l’insuccesso a presunti deficit individuali (mancanza di talento, scarso impegno) piuttosto che a strutture economiche e culturali inique. Il sistema educativo statunitense rappresenta un paradosso fondamentale nella società americana, un paradosso che merita un’analisi approfondita per essere compreso nella sua complessità. A prima vista, ci si aspetterebbe che un sistema scolastico nato in un contesto culturale che celebra valori come la libertà individuale e l’uguaglianza delle opportunità riflettesse questi stessi principi nella sua organizzazione interna. Tuttavia, osservando più da vicino le dinamiche quotidiane che caratterizzano l’esperienza educativa, emerge un quadro radicalmente diverso, dove le relazioni interpersonali sono spesso strutturate secondo rigide gerarchie e modelli di dominanza e subordinazione che sembrano contraddire i presupposti ideologici della società americana. Questa contraddizione apparente solleva interrogativi fondamentali sulle vere funzioni dell’istruzione nella società contemporanea. Se infatti non possiamo attribuire queste caratteristiche del sistema educativo semplicemente a esigenze tecnologiche o all’incompetenza degli educatori, spiegazioni che appaiono troppo superficiali per rendere conto di un fenomeno così pervasivo e strutturato, dobbiamo allora cercare spiegazioni più profonde che affondano le loro radici nella struttura stessa della società capitalistica avanzata. È necessario, in altre parole, esaminare il sistema scolastico attraverso la lente delle relazioni sociali che caratterizzano la sfera economica poiché è in questa direzione che possiamo trovare le chiavi interpretative più feconde. L’analisi proposta suggerisce che l’organizzazione dell’istruzione non sia casuale né determinata da fattori puramente pedagogici ma rifletta in modo sostanziale le gerarchie e le dinamiche di potere proprie del mondo del lavoro capitalistico. Questa corrispondenza strutturale tra scuola e sistema produttivo svolge una funzione cruciale nel preparare i giovani a inserirsi nell’apparato economico come forza lavoro docile e frammentata, priva di quella coesione che potrebbe minacciare gli equilibri di potere esistenti. Ciò che emerge con particolare chiarezza è che non sono i contenuti formali dell’apprendimento, ciò che tradizionalmente si considera il “programma scolastico”, a svolgere questa funzione, quanto piuttosto l’esperienza stessa della scuola, con le sue routine, i suoi rituali, le sue gerarchie implicite ed esplicite. Una simile prospettiva rende sterile e fondamentalmente fuorviante il dibattito tradizionale che si interroga se il sistema educativo promuova principalmente uguaglianza o disuguaglianza, se abbia una funzione liberatoria o repressiva. Queste categorie, seppur importanti, appaiono secondarie rispetto alla constatazione più radicale che la scuola costituisce un elemento integrale e insostituibile nel processo di riproduzione della struttura di classe esistente. Certamente, il sistema educativo possiede una sua autonomia relativa e una sua dinamica interna però i valori che esso trasmette, i criteri con cui valuta la giustizia sociale, i limiti che impone all’immaginario delle possibilità individuali sono profondamente plasmati dall’esperienza lavorativa e dalla natura della struttura di classe dominante. In ultima analisi, la funzione primaria della scuola di preparare i giovani ai loro futuri ruoli lavorativi finisce per vincolare e distorcere le possibilità di sviluppo personale in modi che spesso entrano in diretto conflitto con le sue potenzialità educative più autentiche. Per comprendere appieno questo meccanismo è necessario esaminare più da vicino il concetto di riproduzione delle relazioni sociali di produzione. La vita economica contemporanea presenta un complesso intreccio di rapporti di potere e proprietà che mostrano una notevole stabilità nel tempo. Questa stabilità non è affatto un dato naturale o automatico ma il risultato di meccanismi sociali specifici che operano costantemente per mantenere e rafforzare gli schemi dominanti di potere e privilegio. L’insieme di questi meccanismi e delle loro interazioni costituisce quello che possiamo definire il processo di riproduzione sociale. Tra le molteplici relazioni sociali che caratterizzano l’esperienza quotidiana alcune emergono come particolarmente rilevanti per la nostra analisi del sistema educativo. Si tratta precisamente di quelle relazioni che sono essenziali per garantire la sicurezza dei profitti capitalistici e la stabilità della divisione capitalistica del lavoro: i modelli di dominanza e subordinazione nel processo produttivo, la distribuzione della proprietà delle risorse produttive, i gradi di distanza sociale e solidarietà tra i diversi segmenti della popolazione lavoratrice, uomini e donne, bianchi e neri, lavoratori manuali e impiegati, per citare solo alcune delle divisioni più evidenti. Ma attraverso quali meccanismi concreti si riproducono questi aspetti delle relazioni sociali di produzione nella società americana? Una parte di questa stabilità è certamente garantita dall’apparato legale e dalla forza coercitiva dello Stato. Le carceri americane ospitano numerosi individui che hanno operato al di fuori del sistema di mercato basato sulla proprietà privata. È significativo notare che la moderna polizia urbana così come la Guardia Nazionale trovano le loro origini, in larga misura, nella risposta alla paura dei sommovimenti sociali evocati dall’azione militante del movimento operaio. Allo stesso modo, i lavoratori dissenzienti sono soggetti al licenziamento e i dirigenti che non si conformano alla “razionalità capitalistica” vengono sostituiti. Attribuire il processo di riproduzione sociale esclusivamente all’uso della forza sarebbe riduttivo e fondamentalmente errato. In condizioni normali, l’efficacia della coercizione dipende almeno in parte dall’incapacità o dalla mancanza di volontà di coloro che ne sono soggetti di unirsi per opporvisi. Le leggi generalmente considerate illegittime tendono a perdere il loro potere coercitivo e l’uso della forza, quando troppo scoperto e frequente, tende a rivelarsi controproducente. La storia del capitalismo è stata segnata da lotte di intensità furibonda ma gli episodi in cui la forza è stata dispiegata contro un’opposizione unita e attiva sono stati sporadici e hanno generalmente lasciato il posto a varie forme di accomodamento attraverso una combinazione di compromesso, cambiamento strutturale e adattamento ideologico. È quindi evidente che la coscienza dei lavoratori, il complesso delle loro credenze, valori, autoconcetti, tipi di solidarietà e frammentazione, nonché i loro modelli di comportamento personale e di sviluppo, rappresenta un elemento integrale per la perpetuazione, la validazione e il funzionamento regolare delle istituzioni economiche. La riproduzione delle relazioni sociali di produzione dipende in larga misura dalla riproduzione di una certa forma di coscienza. Sotto quali condizioni gli individui accettano lo schema di relazioni sociali che delimita le loro vite? Se credono che lo sviluppo a lungo termine del sistema esistente offra prospettive di soddisfazione dei loro bisogni, potrebbero abbracciare attivamente queste relazioni sociali. In mancanza di questa convinzione, e in assenza di una visione alternativa che prometta un miglioramento significativo della loro situazione, potrebbero accettare fatalisticamente la loro condizione. Anche disponendo di una tale visione alternativa, potrebbero sottomettersi passivamente al quadro della vita economica e cercare soluzioni individuali ai problemi sociali se ritengono che le possibilità di realizzare un cambiamento siano remote. La questione della riproduzione della coscienza entra in gioco in ciascuna di queste valutazioni.

Il sistema economico sarà abbracciato quando, in primo luogo, i bisogni percepiti dagli individui sono congruenti con i tipi di soddisfazione che il sistema economico può oggettivamente fornire. Sebbene i bisogni percepiti possano essere, in parte, biologicamente determinati, per la maggior parte essi sorgono attraverso l’insieme delle esperienze che gli individui fanno nella società. Così, le relazioni sociali di produzione si riproducono in parte attraverso un’armonia tra i bisogni che il sistema sociale genera e i mezzi di cui dispone per soddisfarli. In secondo luogo, la visione secondo cui un cambiamento sociale fondamentale non è fattibile, operativo o utopico è normalmente sostenuta da una complessa rete di prospettive ideologiche profondamente radicate nella vita culturale e scientifica della comunità e riflesse nella coscienza dei suoi membri. Favorire la “coscienza dell’inevitabilità” non è compito esclusivo del sistema culturale. Devono anche esistere meccanismi che sistematicamente ostacolino lo sviluppo spontaneo di esperienze sociali che contraddicano queste credenze. La convinzione della futilità dell’organizzazione per un cambiamento sociale radicale è ulteriormente facilitata da distinzioni sociali che frammentano le condizioni di vita delle classi subalterne. La strategia del “divide et impera” ha permesso alle classi dominanti di mantenere il loro potere fin dall’alba della civiltà. Ancora una volta, la coscienza frammentata di una classe subalterna non è il prodotto esclusivo di fenomeni culturali ma deve essere riprodotta attraverso le esperienze della vita quotidiana. La coscienza si sviluppa attraverso la percezione diretta e la partecipazione dell’individuo alla vita sociale. In effetti, l’esperienza quotidiana stessa agisce spesso come una forza stabilizzatrice inerziale. Per esempio, quando la popolazione lavorativa è efficacemente stratificata, i bisogni individuali e gli autoconcetti si sviluppano in modo corrispondentemente frammentato. I giovani di diverse caratteristiche razziali, sessuali, etniche o economiche percepiscono direttamente le posizioni economiche e le prerogative del “loro tipo di persona”. Adeguando di conseguenza le loro aspirazioni, non solo riproducono la stratificazione a livello di coscienza personale, ma portano i loro bisogni in (almeno parziale) armonia con le condizioni frammentate della vita economica. Allo stesso modo, gli individui tendono a indirizzare lo sviluppo delle loro potenzialità, cognitive, emotive, fisiche, estetiche e spirituali, verso ambiti in cui avranno l’opportunità di esercitarle. Così, per esempio, il carattere alienato del lavoro porta le persone a indirizzare le loro potenzialità creative verso aree esterne all’attività economica: il consumo, i viaggi, la sessualità e la vita familiare. In questo modo bisogni e possibilità di soddisfazione tendono nuovamente a convergere e il lavoro alienato si riproduce a livello di coscienza personale. Questa congruenza è continuamente disturbata perché la soddisfazione dei bisogni dà origine a nuovi bisogni. Questi nuovi bisogni derivano sia dalla logica dello sviluppo personale che dall’evoluzione della struttura materiale della vita e a loro volta minano la riproduzione della coscienza. Per questo motivo la riproduzione della coscienza non può essere il semplice sottoprodotto non intenzionale dell’esperienza sociale. Piuttosto, le relazioni sociali devono essere consapevolmente organizzate per facilitare la riproduzione della coscienza. Prendiamo, per esempio, l’organizzazione dell’impresa capitalistica. Le relazioni di potere e i criteri di assunzione all’interno dell’impresa sono organizzati in modo da riprodurre i concetti di sé dei lavoratori, la legittimità dei loro compiti all’interno della gerarchia, un senso dell’inevitabilità tecnologica della divisione gerarchica del lavoro stesso e la distanza sociale tra i gruppi di lavoratori nell’organizzazione. In effetti, mentre i gesti simbolici verso l’autogestione dei lavoratori possono essere un espediente motivazionale di successo, qualsiasi delega di potere reale ai lavoratori diventa una minaccia ai profitti perché tende a minare i modelli di coscienza compatibili con il controllo capitalistico. Generando nuovi bisogni e possibilità, dimostrando la fattibilità di una democrazia economica più radicale, aumentando la solidarietà operaia, un programma integrato e politicamente consapevole di partecipazione dei lavoratori al processo decisionale può minare la struttura di potere dell’impresa. Il management accetterà tali cambiamenti solo sotto l’estrema pressione della ribellione operaia e di un morale rapidamente disintegrante, se mai lo farà. La riproduzione della coscienza non può essere assicurata solo da questi meccanismi diretti. L’iniziazione dei giovani al sistema economico è ulteriormente facilitata da una serie di istituzioni, tra cui la famiglia e il sistema educativo, che sono più immediatamente legate alla formazione della personalità e della coscienza. L’istruzione opera principalmente attraverso le relazioni istituzionali a cui gli studenti sono sottoposti. Così, la scuola favorisce e premia lo sviluppo di certe capacità e l’espressione di certi bisogni mentre ostacola e penalizza altri. Attraverso queste relazioni istituzionali, il sistema educativo adatta i concetti di sé, le aspirazioni e le identificazioni di classe sociale degli individui ai requisiti della divisione sociale del lavoro. La misura in cui il sistema educativo riesce effettivamente a raggiungere questi obiettivi varia considerevolmente da un periodo all’altro. Più volte nella storia degli Stati Uniti questi meccanismi di riproduzione hanno fallito, a volte in modo piuttosto spettacolare. Nella maggior parte dei periodi i tentativi di utilizzare le scuole per riprodurre ed estendere le relazioni di produzione capitalistiche sono stati contrastati sia dalla dinamica interna del sistema educativo che dall’opposizione popolare. Precedentemente abbiamo identificato i due principali obiettivi delle classi dominanti nella politica educativa: la produzione di forza lavoro e la riproduzione di quelle istituzioni e relazioni sociali che facilitano la traduzione della forza lavoro in profitti. Possiamo ora essere molto più concreti sul modo in cui le istituzioni educative sono strutturate per raggiungere questi obiettivi. In primo luogo, la scuola produce molte delle competenze tecniche e cognitive richieste per un’adeguata prestazione lavorativa. In secondo luogo, il sistema educativo contribuisce a legittimare la disuguaglianza economica. L’orientamento oggettivo e meritocratico dell’istruzione americana riduce il malcontento sia per la divisione gerarchica del lavoro che per il processo attraverso il quale gli individui raggiungono una posizione in essa. In terzo luogo, la scuola produce, premia ed etichetta le caratteristiche personali rilevanti per l’assegnazione di posizioni nella gerarchia. In quarto luogo, il sistema educativo, attraverso lo schema di distinzioni di status che favorisce, rafforza la coscienza stratificata su cui si basa la frammentazione delle classi economiche subordinate. Quali aspetti del sistema educativo gli permettono di svolgere queste varie funzioni? La capacità del sistema educativo di riprodurre la coscienza dei lavoratori risiede in un semplice principio di corrispondenza: da almeno un secolo, la scuola ha contribuito a riprodurre le relazioni sociali di produzione soprattutto attraverso la corrispondenza tra struttura scolastica e struttura di classe. Con un minimo di riflessione, questa affermazione non è affatto sorprendente. Tutte le principali istituzioni in un sistema sociale “stabile” indirizzeranno lo sviluppo personale in una direzione compatibile con la sua riproduzione. Naturalmente, questo non è, di per sé, una critica al capitalismo o all’istruzione americana. In qualsiasi società concepibile gli individui sono costretti a sviluppare le loro capacità in una direzione o nell’altra. L’idea di un sistema sociale che permetta semplicemente alle persone di svilupparsi liberamente secondo la loro “natura interiore” è piuttosto impensabile poiché la natura umana acquista una forma concreta solo attraverso l’interazione del mondo fisico e delle relazioni sociali preesistenti. La critica di Bowles e Gintis all’educazione e ad altri aspetti dello sviluppo umano negli Stati Uniti riconosce pienamente la necessità di una qualche forma di socializzazione. La domanda critica è: per che cosa? Negli Stati Uniti l’esperienza dello sviluppo umano è dominata da una struttura economica antidemocratica, irrazionale e sfruttatrice. I giovani non hanno altra scelta se non sottomettersi alle esigenze del sistema o affrontare una vita di povertà, dipendenza e insicurezza economica. La loro critica, non a caso, si concentra sulla struttura del lavoro. Nell’economia americana il lavoro è diventato un fatto della vita al quale gli individui devono in gran parte sottomettersi e sul quale non hanno alcun controllo. Come il tempo atmosferico, il lavoro “accade” alle persone. Un’alternativa liberata, partecipativa, democratica e creativa può difficilmente essere immaginata, tanto meno sperimentata. Il lavoro sotto il capitalismo è un’attività alienata. Per riprodurre le relazioni sociali di produzione, il sistema educativo deve cercare di insegnare alle persone a essere adeguatamente subordinate e renderle sufficientemente frammentate nella coscienza da impedire loro di unirsi per plasmare la propria esistenza materiale. Le forme di coscienza e comportamento favorite dal sistema educativo devono esse stesse essere alienate, nel senso che non si conformano né alle esigenze della tecnologia nella lotta con la natura, né alle capacità di sviluppo intrinseche degli individui ma piuttosto alle esigenze della classe capitalista. Sono le prerogative del capitale e gli imperativi del profitto, non le capacità umane e le realtà tecniche, che rendono l’istruzione americana ciò che è. Il principio di corrispondenza tra sistema educativo e organizzazione del lavoro rappresenta un meccanismo sofisticato e profondamente radicato che opera su molteplici livelli per garantire la riproduzione dell’ordine sociale capitalistico. Questa corrispondenza costituisce una vera e propria omologia strutturale che permea l’intera esperienza formativa, plasmando ciò che gli studenti apprendono e soprattutto come apprendono e come vengono preparati a relazionarsi con il mondo del lavoro. Nelle aule scolastiche, la gerarchia amministrativa che va dai presidi agli insegnanti fino agli studenti replica esattamente la catena di comando tipica dell’organizzazione aziendale, insegnando implicitamente ai giovani ad accettare e interiorizzare rapporti di autorità verticali. L’alienazione che gli studenti sperimentano rispetto ai contenuti del curriculum, spesso percepiti come imposti e scollegati dai loro interessi, anticipa l’alienazione che proveranno come lavoratori di fronte a compiti di cui non controllano né il processo né il prodotto finale. Il sistema di valutazione basato su voti e premi esterni, piuttosto che sul coinvolgimento intrinseco nell’apprendimento, riproduce esattamente la logica degli incentivi materiali tipica del mondo del lavoro, dove la motivazione deriva dalla retribuzione più che dal contenuto del lavoro stesso. Questa corrispondenza si manifesta con particolare evidenza nella differenziazione tra i vari livelli del sistema educativo. Le scuole superiori, specialmente quelle tecniche e professionali, con il loro rigido controllo disciplinare, le regole minuziose e la limitata autonomia concessa agli studenti, preparano esplicitamente alla realtà delle mansioni operaie e impiegatizie di basso livello, dove la capacità di seguire ordini e rispettare procedure standardizzate è essenziale. All’estremo opposto, i college d’élite, con la loro enfasi sull’autonomia, il pensiero critico e l’internalizzazione degli obiettivi istituzionali, formano i futuri dirigenti e professionisti che dovranno operare con ampia discrezionalità e assumersi responsabilità complesse. La ricerca di Jeanne Binstock sui college americani ha rivelato come queste istituzioni si differenzino sistematicamente nei loro approcci educativi in base alla classe sociale degli studenti che accolgono. I community college e le istituzioni meno prestigiose, frequentate prevalentemente da studenti di origine operaia, adottano un modello di “controllo comportamentale” che enfatizza l’obbedienza alle regole, la puntualità e l’adattamento passivo alle strutture esistenti. Al contrario, le università d’élite promuovono un “controllo motivazionale” che valorizza l’iniziativa personale, la capacità di autogestione e l’identificazione con gli obiettivi istituzionali, tutte qualità richieste per le posizioni dirigenziali.

Gli studi di Richard Edwards e Peter Meyer hanno dimostrato che questa corrispondenza si estende fino ai tratti della personalità che vengono premiati nei due ambiti. Nelle scuole, gli studenti che ottengono i voti migliori non sono necessariamente i più intelligenti o creativi ma quelli che dimostrano maggiore conformità, affidabilità e capacità di adattarsi alle aspettative degli insegnanti, esattamente le stesse caratteristiche che, secondo le ricerche di Edwards, determinano le valutazioni positive dei supervisori nel mondo del lavoro. In particolare, i tratti come la creatività e l’indipendenza di pensiero, pur essendo formalmente celebrati dalla retorica educativa, risultano spesso penalizzati nei fatti perché potenzialmente destabilizzanti per l’ordine costituito. La famiglia completa questo sistema di riproduzione sociale attraverso dinamiche più sottili ma altrettanto efficaci. Come dimostrato dagli studi di Melvin Kohn, le pratiche educative dei genitori variano sistematicamente in base alla loro posizione nel mondo del lavoro. I genitori che occupano posizioni subordinate tendono a enfatizzare valori come l’obbedienza e il rispetto delle regole mentre quelli in posizioni dirigenziali incoraggiano maggiormente l’autonomia e lo spirito d’iniziativa nei figli. Queste differenze riflettono un adattamento pragmatico alle effettive richieste che i figli dovranno affrontare nel loro probabile futuro lavorativo. Il sistema finanziario che sostiene l’istruzione amplifica ulteriormente queste differenze. Le scuole dei quartieri poveri, con classi sovraffollate, insegnanti stressati e risorse limitate, non possono che replicare un modello autoritario e standardizzato mentre le scuole private d’élite possono permettersi rapporti docente-studente più personalizzati, programmi flessibili e un’atmosfera che incoraggia la partecipazione attiva e lo sviluppo di capacità critiche. Questa disparità di risorse trasforma la corrispondenza teorica in una profezia che si autoavvera, garantendo che i figli delle classi privilegiate abbiano accesso agli strumenti per mantenere il loro status mentre quelli delle classi subalterne vengano preparati a occupare le posizioni subordinate che i loro genitori già ricoprono. L’efficacia di questo sistema di corrispondenza spiega perché, nonostante la retorica meritocratica, l’istruzione abbia fallito nel ridurre le disuguaglianze sociali. Le scuole non operano come ascensori sociali neutrali bensì come sofisticati apparati di selezione e canalizzazione che, sotto la maschera dell’oggettività e della neutralità tecnica, riproducono e legittimano le gerarchie esistenti. La corrispondenza tra relazioni educative e relazioni produttive garantisce che ogni generazione venga preparata a considerare naturale e inevitabile il proprio posto nella divisione sociale del lavoro, perpetuando così il sistema capitalistico nel suo complesso.

3. Dinamiche evolutive dell’educazione nel capitalismo americano

Il sistema educativo americano, sin dalle sue origini, è stato modellato dalle contraddizioni profonde della società capitalistica in cui è nato e si è sviluppato. La sua evoluzione storica rappresenta un processo complesso e conflittuale in cui interessi di classe contrapposti hanno lottato per definire il ruolo, la struttura e la funzione della scuola nella società. Nella prima metà dell’Ottocento, mentre la rivoluzione industriale trasformava radicalmente il panorama economico e sociale degli Stati Uniti, l’istruzione pubblica emerse come risposta a una serie di esigenze contraddittorie. La nascente borghesia industriale necessitava di una forza lavoro disciplinata, alfabetizzata e adattabile ai ritmi della produzione capitalistica mentre i lavoratori e le comunità locali vedevano nell’istruzione pubblica uno strumento potenziale di emancipazione e mobilità sociale. Questa tensione dialettica tra controllo sociale e aspirazioni democratiche avrebbe caratterizzato l’intera storia della scuola americana. Le prime forme di scolarizzazione nelle colonie americane, le cosiddette dame schools e writing schools, riflettevano ancora un’organizzazione sociale preindustriale, dove l’istruzione era frammentata, decentralizzata e strettamente legata alle strutture comunitarie. Con l’espansione del capitalismo mercantile prima e industriale poi, questo modello entrò in crisi. L’urbanizzazione, la proletarizzazione di massa e la crescente divisione del lavoro resero sempre più evidente l’inadeguatezza dei tradizionali sistemi di trasmissione delle conoscenze. La figura di Horace Mann e il movimento per la common school negli anni 1830-40 rappresentarono il tentativo di rispondere a queste trasformazioni epocali. Mann, segretario del neonato Massachusetts Board of Education, promosse una visione della scuola pubblica come “grande equalizzatore” sociale e al tempo stesso come strumento per prevenire i conflitti di classe e creare cittadini fedeli allo Stato. Le sue riforme, che includevano la standardizzazione dei curricula, la formazione degli insegnanti e l’introduzione di metodi pedagogici più autoritari, riflettevano questa doppia natura dell’istruzione pubblica: apparentemente democratica però sostanzialmente funzionale alle esigenze dell’ordine capitalista emergente. L’implementazione di queste riforme incontrò notevoli resistenze. Nelle città industriali come Lowell e Beverly, i lavoratori spesso vedevano la nuova scuola pubblica con sospetto, percependo correttamente che dietro la retorica egualitaria si celava un progetto di controllo sociale. Il caso emblematico di Beverly, dove nel 1860 gli operai delle calzature votarono per chiudere la nuova scuola superiore considerandola un privilegio per le classi agiate, dimostra come l’espansione dell’istruzione pubblica fosse un terreno di lotta politica, non un processo pacifico e inevitabile. Parallelamente la struttura stessa delle scuole cominciò a riflettere sempre più chiaramente l’organizzazione del lavoro industriale. L’introduzione di classi divise per età, orari rigidi, sistemi di valutazione standardizzati e una disciplina ferrea non era casuale perché riproduceva nelle aule la stessa logica gerarchica e temporale delle fabbriche. Questo principio di corrispondenza tra scuola e lavoro divenne una caratteristica strutturale del sistema educativo americano, garantendo che la scuola insegnasse competenze tecniche e soprattutto interiorizzasse nei giovani le norme sociali e psicologiche necessarie al funzionamento del capitalismo industriale. La seconda grande fase di trasformazione avvenne tra il 1890 e il 1930, quando il movimento dell’Educazione Progressista cercò di adattare la scuola alle esigenze del capitalismo delle corporations. Figure come John Dewey elaborarono teorie pedagogiche che enfatizzavano l’adattamento sociale, il lavoro di gruppo e l’apprendimento esperienziale, sempre all’interno di un quadro che non metteva in discussione le fondamenta della società di classe. Le scuole superiori si diversificarono in percorsi professionali, commerciali e accademici, riflettendo e rafforzando la stratificazione sociale. Nel corso del Novecento, nonostante le lotte per i diritti civili e le riforme egualitarie, il sistema educativo americano ha continuato a funzionare come meccanismo di riproduzione delle disuguaglianze. Le differenze di finanziamento tra distretti ricchi e poveri, il tracking (suddivisione in percorsi differenziati), i test standardizzati e l’influenza crescente delle corporation nell’istruzione hanno mantenuto e spesso accentuato le disparità di classe, razza e genere. Questa analisi storica rivela come la scuola americana sia stata sempre un campo di battaglia tra forze sociali contrapposte. Da un lato, ha effettivamente fornito a milioni di persone strumenti di emancipazione e mobilità sociale. Dall’altro, ha sistematicamente funzionato come apparato ideologico dello Stato capitalista, naturalizzando le gerarchie sociali e preparando i giovani ad accettare il loro posto in una società profondamente diseguale. Comprendere questa dialettica è essenziale per chiunque voglia lottare per una scuola veramente democratica e liberatoria. L’evoluzione del sistema educativo nella città manifatturiera di Lowell rappresenta una pagina fondamentale per comprendere come l’istruzione pubblica americana si sia strutturata in simbiosi con le esigenze del nascente capitalismo industriale. Quando nel 1821 i rappresentanti della Boston Manufacturing Company iniziarono ad acquisire terreni lungo il fiume Merrimack, l’insediamento rurale di East Chelmsford (presto ribattezzato Lowell) contava appena 200 abitanti e un sistema educativo tipico delle comunità preindustriali del New England. Le cosiddette writing schools e dame schools offrivano un’istruzione rudimentale, frammentata e stagionale, con una frequenza discontinua e un curriculum limitato all’alfabetizzazione di base. La trasformazione fu rapida e radicale: entro il 1840 Lowell sarebbe diventata la terza città del Massachusetts, un colosso tessile con oltre 30.000 abitanti e un sistema scolastico all’avanguardia. I primi anni dell’esperimento industriale di Lowell furono caratterizzati da un paternalismo illuminato. Le giovani donne reclutate dalle campagne del New England trovavano nelle fabbriche occupazione e alloggi decorosi, biblioteche e occasioni di arricchimento culturale. Questo modello, ispirato alle utopie sociali di Robert Owen, si basava sull’idea che l’industrializzazione potesse conciliarsi con il miglioramento delle condizioni di vita. La crescente concorrenza nel settore tessile e la crisi economica del 1837 innescarono un progressivo deterioramento delle condizioni lavorative. Tra il 1835 e il 1855, mentre i prezzi dei prodotti tessili crollavano del 30-50%, la produttività per operaio aumentò di circa il 50% senza significativi miglioramenti tecnologici, grazie all’intensificazione dei ritmi e alla riduzione dei salari a cottimo. Fu in questo contesto che l’istruzione assunse un ruolo strategico per la classe imprenditoriale. Come scrisse nel 1841 Homer Bartlett, agente delle Massachusetts Cotton Mills, i proprietari delle fabbriche svilupparono un profondo interesse pecuniario per l’educazione e la moralità dei loro dipendenti, convinti che una forza lavoro istruita sarebbe stata più produttiva e anche più docile e meno incline al conflitto sociale. George Boutwell, futuro segretario del Board of Education del Massachusetts, rilevò durante una visita nel 1859 come gli industriali considerassero la scuola perfettamente adatta a preparare i bambini al lavoro nelle fabbriche, soprattutto per la sua capacità di insegnare disciplina e prevenire agitazioni operaie. La riforma del sistema scolastico di Lowell seguì un percorso che sarebbe diventato paradigmatico per l’intera nazione industrializzata. Il primo passo fondamentale fu la centralizzazione del controllo: le scuole distrettuali, fino ad allora gestite autonomamente dalle comunità locali, vennero progressivamente sottoposte a un consiglio scolastico cittadino dominato da industriali e professionisti. Un’analisi della composizione di questo consiglio nei primi trent’anni di attività rivela che l’85% dei membri proveniva da queste due classi mentre meno del 5% erano lavoratori. Questo cambiamento amministrativo permise di allineare le politiche educative alle esigenze del sistema produttivo. Sul piano organizzativo la scuola si adeguò progressivamente al modello fabbrica. Theodore Edson, sovrintendente scolastico di Lowell, introdusse un innovativo orologio che suddivideva la giornata in 32 periodi di 10 minuti ciascuno, creando una scansione temporale analoga ai turni di lavoro negli stabilimenti tessili. Le classi, un tempo miste per età e livello, vennero rigidamente divise secondo criteri anagrafici e di competenza, anticipando la catena di montaggio nell’organizzazione degli spazi e dei tempi di apprendimento. Come osservò il consiglio scolastico nel 1852, il principio della divisione del lavoro vale per le scuole come per l’industria meccanica. Il curriculum formale si ampliò oltre la tradizionale triade “leggere, scrivere, far di conto”, includendo materie come geografia, lingue straniere e persino agrimensura. Come dimostrano i testi d’ingresso al liceo di Lowell del 1850, che richiedevano la conoscenza di dettagli esotici come la capitale dell’Abissinia o il golfo di Sidra, queste discipline erano scelte più per il loro valore disciplinante che per un’effettiva utilità pratica. Anche attività apparentemente funzionali come il cucito venivano promosse principalmente per i loro effetti morali.”Le abitudini laboriose che il cucito tende a formare”, scrisse il comitato scolastico di Boston, “e la conseguente elevata influenza morale che esercita sulla società potrebbero giustificarne un’introduzione più estesa in tutte le scuole”. La vera rivoluzione pedagogica, però, riguardò il cosiddetto curricolo nascosto. Mentre le competenze cognitive acquisite a scuola risultavano largamente irrilevanti per la maggior parte dei lavori industriali (come dimostrò uno studio sui registri di produttività delle operaie di Lowell che non mostravano alcuna correlazione tra alfabetizzazione e rendimento lavorativo), le scuole si specializzarono nell’inculcare quelle virtù borghesi essenziali per la stabilità sociale e produttiva: puntualità, ordine, rispetto per l’autorità, autocontrollo. Il Springfield School Committee nel 1854 fu esplicito: “lo scopo dell’educazione non si esaurisce con la semplice istruzione intellettuale. Ha obiettivi di uguale se non maggiore importanza. Il carattere e le abitudini devono essere formati per la vita”. Questa trasformazione non avvenne senza resistenze. Le comunità rurali delle periferie si opposero alla centralizzazione e all’aumento delle tasse scolastiche. Nel 1832 una rivolta popolare durante l’assemblea cittadina annuale portò addirittura alla destituzione dell’intero consiglio scolastico. La comunità irlandese, consapevole del ruolo assimilazionista delle scuole pubbliche, organizzò boicottaggi e persino tentativi di incendio degli edifici scolastici nel quartiere irlandese. Nonostante queste opposizioni, alla vigilia della Guerra Civile Lowell aveva ormai consolidato un sistema educativo moderno: frequenza obbligatoria controllata da agenti, un anno scolastico prolungato, classi divise per età e un curriculum che privilegiava nettamente la formazione del carattere rispetto all’istruzione intellettuale. Questo modello trovò la sua teorizzazione più compiuta nell’opera di Horace Mann, segretario del Massachusetts Board of Education dal 1837 al 1848. Sostenuto da industriali come Edmund Dwight (che finanziò personalmente parte del suo stipendio), Mann concepiva l’istruzione come la ruota di bilanciamento della macchina sociale, in grado di prevenire i conflitti di classe senza intaccare le basi del sistema capitalistico. Le sue riforme, dalla standardizzazione dei programmi alla creazione di scuole magistrali, dalla sostituzione dei maestri maschi con insegnanti femminili (più economiche e considerate più adatte a un’educazione moralizzatrice), miravano a creare una disciplina interiorizzata piuttosto che un’obbedienza imposta con la forza. I dati statistici rivelano che l’impatto principale delle riforme non fu quantitativo (la percentuale di giovani sotto i 20 anni che frequentavano la scuola in Massachusetts diminuì leggermente tra il 1837 e il 1860) ma qualitativo. La vera rivoluzione consistette nel passaggio da un’istruzione come diritto comunitaristico a un’istruzione come strumento di socializzazione industriale, dove l’accento era posto sulle abitudini e i valori interiorizzati. Come osservò acutamente un contemporaneo, le scuole dovevano insegnare ai poveri “a guardare alle disuguaglianze sociali senza invidia”. L’esperienza di Lowell dimostrò che il sistema scolastico “moderno” sorto a metà Ottocento aveva come scopo formare cittadini e lavoratori funzionali alle esigenze del capitalismo industriale. Questo modello, perfezionato tra i telai del Massachusetts, sarebbe stato esportato in tutto il paese, diventando il prototipo di quel sistema educativo che ancora oggi, nonostante le trasformazioni sociali ed economiche, continua a svolgere una duplice funzione: promettere mobilità sociale mentre riproduce le strutture di classe. La diffusione dei sistemi scolastici pubblici negli Stati Uniti durante il periodo antebellum rappresenta, quindi, un fenomeno complesso che può essere compreso appieno solo esaminando le intricate relazioni tra trasformazioni economiche, dinamiche sociali e strategie politiche. Come dimostra il caso del Massachusetts, infatti, l’ascesa del capitalismo industriale costituì una forza trainante fondamentale per le riforme educative. Un’analisi più ampia a livello nazionale rivela modelli differenziati di sviluppo scolastico, fortemente condizionati dalle specifiche strutture economiche regionali e dalle relazioni di classe dicono Bowles e Gintis.

Gli studi quantitativi condotti da Alexander Field sul Massachusetts a metà Ottocento offrono prove convincenti del legame tra industrializzazione e riforma scolastica. Utilizzando sofisticate analisi di regressione multipla sui dati comunali, Field ha dimostrato che l’impulso alle riforme educative non proveniva dall’urbanizzazione in sé, né dall’introduzione di macchinari ad alta intensità di capitale, bensì dall’affermarsi della fabbrica come unità produttiva dominante. In particolare, i consigli scolastici mostravano maggiore propensione all’espansione educativa nei comuni caratterizzati da: un’alta percentuale di lavoratori impiegati in grandi stabilimenti, bassi livelli di capitale per lavoratore, condizioni abitative affollate (misurate dal numero di abitanti per abitazione) e una consistente presenza irlandese. Questi risultati quantitativi rivelano anche le tensioni sociali sottostanti al processo di riforma. I consigli scolastici, espressione delle élite locali, determinavano la durata dell’anno scolastico ma l’effettiva frequenza dipendeva da un complesso intreccio di fattori sociali ed economici. Significativamente, nonostante la correlazione positiva tra presenza irlandese e sforzi di espansione scolastica, la frequenza effettiva non risultava più alta nelle comunità con forti minoranze irlandesi. Questo dato conferma l’interpretazione secondo cui l’afflusso migratorio stimolava le autorità a potenziare il sistema scolastico come strumento di controllo sociale, trovando però spesso la resistenza delle comunità immigrate. Le ricerche di Kaestle e Vanovskis sullo Stato di New York nel 1845 mostrano modelli analoghi: una forte correlazione negativa tra frequenza scolastica e percentuale di popolazione straniera, nonché con i livelli di povertà. A Boston, nel 1849, il 90% dei 1.066 casi di abbandono scolastico riguardava figli di genitori immigrati. Lo studio di Thernstrom su Newburyport, Massachusetts, rivela come i lavoratori nativi tendessero a mandare i figli a scuola mentre gli irlandesi preferissero impiegare i propri figli nel lavoro per accumulare risorse e acquistare proprietà. Sarebbe riduttivo interpretare queste resistenze come semplice opposizione all’istruzione. Le comunità immigrate, in particolare gli irlandesi, non rifiutavano l’educazione in sé ma piuttosto un sistema scolastico pubblico controllato da élite protestanti e nativiste. A New York e altrove, gli irlandesi lottarono strenuamente per creare proprie scuole parrocchiali. Le classi dirigenti, dal canto loro, non cercavano di scolarizzare tutti i figli degli immigrati e si concentravano soprattutto sulle fasce proletarie urbane potenzialmente più pericolose per l’ordine sociale. Il Massachusetts rappresentava un caso estremo di trasformazione industriale mentre gli stati vicini (Connecticut, New York, Pennsylvania) mostrarono dinamiche simili laddove si affermavano rapporti di produzione salariati. La diffusione dell’istruzione pubblica a livello nazionale seguì traiettorie disomogenee. Contrariamente a quanto si potrebbe pensare, gli stati più urbanizzati e ricchi non furono necessariamente all’avanguardia. Come dimostra Albert Fishlow, nella seconda metà dell’Ottocento la frequenza scolastica non mostrava correlazioni significative con il reddito pro capite o il grado di urbanizzazione. Nel Sud antebellum la resistenza all’istruzione pubblica fu particolarmente forte negli stati con economie schiaviste e scarsa presenza di lavoratori salariati. Le analisi statistiche di Bowles e Gintis (condotte insieme a Janice Weiss) rivelano una chiara correlazione positiva tra frequenza scolastica e percentuale di forza lavoro impiegata in manifatture e negativa con il peso della schiavitù nell’economia statale. Dopo la Guerra Civile, l’abolizione della schiavitù e la Ricostruzione portarono a un’espansione scolastica, ancora una volta legata allo sviluppo del lavoro manifatturiero. In questo processo un ruolo cruciale fu svolto dalle fondazioni educative nordiste come il Peabody Fund e il Slater Fund, seguite a inizio Novecento dal massiccio intervento filantropico di magnati come John D. Rockefeller attraverso il General Education Board. Con budget superiori a quelli di molti stati del Sud, queste organizzazioni promossero un sistema scolastico duale che riproduceva le gerarchie razziali, pur contribuendo a ridurre l’arretratezza educativa della regione. Nelle aree agricole dell’Ovest l’espansione dell’istruzione pubblica non fu, come talvolta si sostiene, il frutto di una classe contadina indipendente, bensì della proletarizzazione delle campagne. Lo studio di Medoff e Buchele mostra una correlazione positiva tra spesa educativa e meccanizzazione/uso di lavoro salariato in agricoltura, senza alcun legame significativo con reddito pro capite o urbanizzazione. Particolarmente interessante è il dato sugli stati che furono epicentro della rivolta populista (Minnesota, Dakota, Nebraska, Kansas, Carolina del Nord, Alabama), dove gli investimenti educativi risultarono significativamente inferiori. Ciò riflette la diversa prospettiva dei populisti che identificavano nella struttura economica, non nella carenza di istruzione, la radice di disuguaglianze e povertà. Come osservò lo storico Lawrence Cremin, fu proprio dopo il declino del populismo politico che le riforme educative guadagnarono nuovo slancio. Ironia della storia, il timore di una rinascita populista spinse molte grandi organizzazioni capitalistiche, dalla General Education Board alle compagnie ferroviarie, a sostenere massicciamente l’educazione agricola e i programmi di extension work come alternativa “sicura” alle rivendicazioni radicali dei movimenti contadini. In questo modo l’istruzione divenne, spesso contro le intenzioni dei suoi promotori, uno strumento per prevenire trasformazioni economiche più profonde, assolvendo a quella funzione di “ruota di bilanciamento del sistema sociale” che Horace Mann aveva preconizzato decenni prima. Il periodo compreso tra il 1890 e il 1930 rappresentò una delle più radicali e significative trasformazioni nella storia dell’istruzione americana, un vero e proprio spartiacque che ridefinì il ruolo della scuola nella società industriale moderna. Questo quarantennio, che abbraccia l’ascesa dell’Era Progressista fino alle soglie della Grande Depressione, fu il riflesso istituzionale di profondi sconvolgimenti economici, sociali e culturali che stavano rimodellando il volto degli Stati Uniti. Le radici del movimento educativo progressista affondavano nel terreno fertile delle tensioni sociali che caratterizzavano la fine del XIX secolo. Come il movimento per le common school di metà Ottocento era emerso in risposta alle turbolenze dell’era jacksoniana, così ora l’educazione progressista prendeva forma nel fuoco delle grandi lotte operaie, dagli scioperi di Homestead del 1892 a quello di Pullman del 1894, e della crescente conflittualità sociale generata dall’industrializzazione selvaggia. L’afflusso senza precedenti di immigrati dall’Europa meridionale e orientale (tra il 1880 e il 1920 giunsero oltre 23 milioni di persone) stava trasformando la demografia americana, facendo emergere la necessità di assimilarli alla società americana e ai valori della classe media protestante, mentre la chiusura della frontiera nel 1890 segnava la fine di un’epoca e di un mito fondativo della nazione. La filosofia educativa di John Dewey rappresentava sia una risposta a queste sfide che una visione utopica di trasformazione sociale. La sua concezione della scuola come embrione di comunità democratica, con il suo apprendimento basato sull’esperienza concreta, l’integrazione tra scuola e vita comunitaria e l’educazione come strumento di crescita individuale e collettiva, costituiva una radicale alternativa alla rigida istruzione nozionistica del periodo vittoriano però, come dimostra l’analisi storica, tra l’idealismo deweyano e la sua applicazione concreta si sarebbe creato un abisso sempre più profondo, rivelando le insanabili contraddizioni del progressismo educativo. La crescita quantitativa del sistema scolastico in questo periodo fu impressionante. Se nel 1890 solo una minima frazione dei giovani americani, meno del 4%, riusciva a conseguire un diploma superiore, nel 1930 questa percentuale era salita al 29%. Ancora più significativo era il cambiamento nel rapporto tra scuola e lavoro giovanile: mentre nel 1890 c’erano quasi sette volte più giovani tra i 14 e i 19 anni al lavoro che a scuola, quarant’anni dopo la situazione si era capovolta, con quasi il doppio degli adolescenti tra i banchi rispetto a quelli nelle fabbriche. Questa rivoluzione silenziosa rispondeva a precise esigenze del sistema produttivo in trasformazione. Dietro questa espansione si muoveva una complessa coalizione di forze che univa intellettuali progressisti, filantropi delle grandi fondazioni capitaliste (Carnegie, Rockefeller), riformatori sociali e una nascente classe di amministratori scolastici professionalizzati. Figure come Ellwood Cubberly, il “manager dell’istruzione” per eccellenza, incarnavano questa sintesi tra idealismo pedagogico ed efficienza manageriale, applicando alla scuola i principi dell’organizzazione scientifica del lavoro che Frederick Winslow Taylor andava diffondendo nelle fabbriche. Non a caso, la celebre affermazione di Taylor davanti al Congresso nel 1912 sulla netta separazione tra chi concepisce il lavoro e chi lo esegue potrebbe benissimo descrivere la filosofia alla base della riforma del sistema scolastico. Le innovazioni pedagogiche apparentemente progressiste nascondevano in realtà un sistema sempre più stratificato. Il tracking (la separazione in percorsi differenziati), i test standardizzati, l’istruzione vocazionale e tutta la panoplia delle nuove attività extracurricolari (club, giornalini scolastici, consigli studenteschi) servivano in ultima analisi a formare e selezionare la forza lavoro per i diversi livelli della gerarchia industriale. Come notano gli storici, la scuola progressista finì per riprodurre al suo interno le stesse divisioni di classe della società capitalistica, pur presentandosi come un sistema unificato e democratico. La riforma dell’amministrazione scolastica rappresentò un altro capitolo cruciale di questa trasformazione. Sotto la spinta di gruppi di pressione legati al mondo degli affari, i sistemi scolastici urbani subirono un processo di centralizzazione e burocratizzazione senza precedenti. I consigli scolastici locali, tradizionalmente espressione delle comunità di quartiere, furono sostituiti da organismi centralizzati dominati da professionisti e rappresentanti dell’élite economica. I dati sono eloquenti: a Philadelphia, dopo le riforme, la rappresentanza delle classi lavoratrici nei consigli scolastici crollò dal 28% al 5% mentre a Pittsburgh gruppi come la Voters’ League dichiaravano apertamente che operai e piccoli commercianti non possedevano l’educazione e la preparazione commerciale necessarie per amministrare il sistema scolastico. Questa trasformazione, presentata come una riforma per “depoliticizzare” l’istruzione e renderla più “efficiente”, di fatto la sottraeva al controllo democratico delle comunità locali per consegnarla a una nuova classe di burocrati e tecnocrati dell’educazione. Il modello della scuola-fabbrica, con il suo rigido orario, la divisione in classi d’età, i test standardizzati e la gerarchia disciplinare, rifletteva sempre più l’organizzazione del lavoro nelle grandi corporation industriali. Il risultato fu un sistema educativo profondamente contraddittorio. Durante il primo Novecento negli USA si assiste anche all’emergere e alla successiva istituzionalizzazione del sistema di test standardizzati. I test psicometrici, presentati come strumenti “oggettivi” per misurare intelligenza e capacità, sono stati utilizzati per giustificare e rafforzare le disuguaglianze sociali preesistenti, servendo tanto la ristrutturazione del sistema scolastico in senso gerarchico quanto gli interessi ideologici ed economici del capitalismo statunitense. La diffusione dei test di intelligenza (IQ) e dei test di rendimento scolastico fu promossa massicciamente dopo la Prima guerra mondiale, quando l’ideologia dell’efficienza, mutuata dal mondo industriale, penetrò il sistema educativo. I test furono presentati come mezzi scientifici per identificare le “abilità naturali” degli studenti e indirizzarli verso i percorsi educativi più adatti ma in realtà servirono a confermare e riprodurre l’ordine sociale esistente. Già negli anni ‘20, organizzazioni sindacali come la Chicago Federation of Labor denunciavano la sovrapposizione tra presunti “livelli mentali” e la stratificazione sociale e razziale, rilevando come i test riproducessero fedelmente le diseguaglianze di classe, etnia e genere, piuttosto che misurare una qualche abilità innata. La selezione degli studenti, lungi dall’essere un processo neutro, era fortemente condizionata dalla loro origine socioeconomica e culturale. Il razzismo scientifico e l’eugenetica giocarono un ruolo cruciale nella legittimazione teorica della selezione scolastica. Figure eminenti come Edward Thorndike, Lewis Terman e Henry Goddard, fortemente influenzate dall’evoluzionismo darwiniano, da Mendel e dalla statistica di Francis Galton e Karl Pearson, contribuirono a diffondere l’idea che intelligenza, moralità e valore sociale fossero ereditarie e misurabili scientificamente. Le loro ricerche contribuirono a radicare nell’immaginario collettivo l’associazione tra bassa intelligenza e marginalità sociale. Ad esempio, veniva riportato che la maggioranza delle prostitute, delle madri non sposate e dei detenuti, specialmente neri, fossero “feeble-minded” (ritardati mentali). I test venivano anche impiegati per giustificare la discriminazione degli immigrati europei del Sud e dell’Est Europa. Goddard “dimostrò” che l’83% degli ebrei, l’80% degli ungheresi, il 79% degli italiani e l’87% dei russi erano “mentalmente insufficienti”, secondo test presunti “culture-free” somministrati al momento dello sbarco. Queste conclusioni alimentarono il movimento per la restrizione dell’immigrazione e, ancora più significativamente, furono applicate all’interno delle scuole per indirizzare gli studenti verso percorsi educativi differenziati. L’adozione diffusa dei test fu sostenuta con entusiasmo dalle grandi fondazioni capitaliste, in particolare dalla Carnegie Corporation e dalla Rockefeller Foundation, che finanziarono generosamente i principali promotori del movimento dei test. Terman ricevette circa 250.000 dollari per lo studio dei “bambini dotati” mentre Thorndike fu finanziato con almeno 325.000 dollari. Le stesse fondazioni investirono milioni di dollari nella creazione e nel consolidamento delle infrastrutture per i test educativi, sostenendo la nascita di enti come il College Entrance Examination Board, il Cooperative Test Service, l’Educational Records Bureau e infine l’Educational Testing Service (ETS), fondato nel 1948 con un’operazione coordinata dalla Carnegie Foundation. Questi enti avrebbero dominato la scena dei test standardizzati negli Stati Uniti per decenni. Il tracciamento degli studenti (tracking), cioè la loro assegnazione a percorsi curriculari differenziati sulla base dei risultati dei test, divenne una pratica sistematica e profondamente discriminatoria. In una rilevazione del 1932, tre quarti dei sistemi scolastici cittadini già utilizzavano test di intelligenza per determinare l’assegnazione degli studenti a determinati corsi. Lewis Terman articolò con chiarezza la corrispondenza tra il punteggio IQ e la destinazione lavorativa futura: al di sotto di 70 era previsto solo lavoro non qualificato, tra 70 e 80 il lavoro semi-qualificato, tra 80 e 100 quello qualificato mentre punteggi superiori erano richiesti per le professioni e la leadership economica. Il tracciamento, dunque, era progettato non per sviluppare le potenzialità di ogni individuo ma per inserirlo nella gerarchia produttiva esistente, perpetuandone la posizione sociale. Anche le differenze di genere vennero codificate scientificamente. Thorndike teorizzava che i maschi possedessero un naturale “istinto di lotta e competizione” mentre le femmine erano caratterizzate da un istinto “irrazionale” alla cura e alla dipendenza. Ne derivava che i curricoli scolastici dovessero essere differenziati: i ragazzi dovevano essere educati alla competizione e alla leadership mentre le ragazze dovevano essere incoraggiate alla dedizione, alla sottomissione e alla cura altrui. Tali presupposti sessisti, giustificati da una pseudo-scienza evolutiva, si traducevano in percorsi educativi rigidi che indirizzavano le ragazze verso ruoli subalterni, sia nel lavoro che nella vita domestica. Per quanto riguarda l’istruzione superiore americana, dalla fine dell’Ottocento agli anni ‘70 del Novecento, la sua evoluzione rappresenta un processo storico di radicale riconfigurazione in cui l’università, da istituzione elitaria e culturalmente autonoma, si è progressivamente trasformata in un apparato funzionale alle esigenze del capitalismo avanzato. Questo mutamento epocale va letto attraverso la lente delle contraddizioni insite nello sviluppo capitalistico che hanno plasmato il sistema educativo secondo logiche spesso in tensione tra democratizzazione dell’accesso e riproduzione delle gerarchie sociali. Nella fase iniziale, corrispondente grosso modo all’ultimo trentennio dell’Ottocento, i college americani mantenevano ancora caratteristiche di enclave culturali riservate prevalentemente alla formazione delle classi dirigenti e delle professioni liberali. Con un tasso di scolarizzazione superiore fermo all’1,7% della popolazione in età universitaria nel 1870, queste istituzioni svolgevano un ruolo marginale nella riproduzione della forza lavoro, configurandosi piuttosto come luoghi di conservazione e trasmissione del sapere umanistico e di legittimazione delle élite tradizionali. La svolta cruciale si colloca nel periodo tra le due guerre mondiali, quando una serie concatenata di fattori, l’espansione del capitalismo manageriale, la crescente domanda di competenze tecniche e amministrative, le pressioni sociali per una maggiore democratizzazione dell’accesso, avviarono un processo di massificazione che avrebbe completamente ridefinito la fisionomia del sistema. Questo sviluppo raggiunse il suo apice nel trentennio successivo alla seconda guerra mondiale, quando la percentuale di giovani iscritti all’università passò da meno di un quinto a circa la metà della corrispondente fascia d’età. Dietro questa apparente democratizzazione si celava però una profonda riorganizzazione strutturale del sistema che rispondeva a precise esigenze del modo di produzione capitalistico. L’esplosione della domanda di lavoro intellettuale da parte delle grandi corporation e dell’apparato statale in espansione richiedeva un ampliamento quantitativo senza precedenti dell’istruzione superiore ma c’era anche la necessità di mantenere intatte le gerarchie sociali in un contesto di accesso allargato che imponeva sofisticati meccanismi di selezione e differenziazione interna. La proletarizzazione del lavoro intellettuale rappresenta forse l’aspetto più emblematico di questa trasformazione. Così come nel tardo Ottocento il sistema fabbrica aveva dissolto l’autonomia degli artigiani spezzettando il processo produttivo, allo stesso modo il lavoro intellettuale subì un processo di frammentazione e razionalizzazione che ne erose progressivamente l’autonomia. Nella scuola, questo si tradusse nella progressiva sottrazione del controllo sul processo educativo agli insegnanti a favore di una crescente burocrazia amministrativa, con l’introduzione di metodi di “gestione scientifica” che standardizzavano contenuti e valutazioni. Parallelamente, in ambito medico si assisteva al declino della figura del medico generico a favore di grandi complessi ospedalieri organizzati secondo criteri di divisione del lavoro sempre più spinta. La risposta del sistema universitario a queste trasformazioni socio-economiche fu duplice e apparentemente contraddittoria. Si procedette a un’imponente espansione quantitativa, particolarmente attraverso lo sviluppo dei community college, le cui iscrizioni aumentarono di otto volte tra il 1947 e il 1972, e si rafforzò una rigida stratificazione interna al sistema che riproduceva fedelmente le gerarchie sociali esistenti. I dati del 1971 mostrano come gli studenti provenienti da famiglie con redditi superiori ai 20.000 dollari fossero sovrarappresentati nelle università private (41,8%) e quasi assenti nei community college (10,6%). In California, solo il 7% degli iscritti ai community college proveniva da tali famiglie, contro il 18% dell’Università della California. Questa architettura istituzionale trovava la sua piena legittimazione in un sofisticato apparato ideologico che trasformava le disuguaglianze sociali in differenze di attitudini e meriti individuali. Il sistema dei community college sviluppò in particolare raffinati meccanismi di “cooling out” (raffreddamento delle aspettative), descritti efficacemente dal sociologo Burton Clark, che orientavano gradualmente gli studenti verso percorsi terminali e professionalizzanti, presentando l’insuccesso accademico come un semplice “riorientamento” verso traguardi più consoni alle proprie capacità. La realtà mostrava però un quadro ben diverso: meno della metà degli iscritti riusciva a conseguire il titolo biennale e solo una frazione minima accedeva poi a percorsi universitari quadriennali. La vocazione professionalizzante di questi istituti era del resto esplicita e apertamente dichiarata. Come osservava Arthur Cohen dell’ERIC Clearing House, quando i manager aziendali annunciavano un bisogno di lavoratori specializzati, gli amministratori dei college si affrettavano a sviluppare nuovi curricula tecnici. Le stesse relazioni educative all’interno dei community college riproducevano fedelmente l’organizzazione del lavoro nelle grandi aziende: programmi rigidamente strutturati, carichi didattici elevati, classi numerose e metodi standardizzati di insegnamento che anticipavano la disciplina della fabbrica o dell’ufficio. Questa trasformazione non avvenne senza profonde contraddizioni che riproponevano a livello superiore le antinomie classiche del capitalismo. Come aveva intuito Marx, lo sviluppo delle forze produttive sotto il capitalismo contiene in sé il paradosso di dover sviluppare le capacità umane pur mantenendole subordinate ai rapporti di produzione esistenti. La Commissione Carnegie per l’Educazione Superiore, guidata dall’ex rettore dell’Università della California Clark Kerr, cercò di fornire una risposta organica a queste contraddizioni attraverso un programma di riforme che combinava frammentazione culturale, stratificazione istituzionale e contenimento dell’espansione quantitativa. La frammentazione doveva essere ottenuta moltiplicando i percorsi formativi (dalla formazione sul lavoro alle scuole private); la stratificazione preservando le istituzioni d’élite mentre si espandevano i circuiti professionalizzanti; il contenimento serviva a limitare la sovrapproduzione di forza lavoro intellettuale. Questa riorganizzazione complessiva del sistema rifletteva le trasformazioni più generali della struttura occupazionale americana, caratterizzate dal declino dei lavoratori autonomi (scesi dal 40% a meno del 10% della forza lavoro in un secolo) e dall’ascesa di nuove categorie di tecnici, supervisori e impiegati. In questo contesto l’istruzione superiore è divenuta un apparato chiave per la riproduzione della struttura di classe, combinando l’insegnamento di competenze tecniche specifiche con la trasmissione di valori e atteggiamenti funzionali all’ordine sociale esistente. Queste trasformazioni hanno generato una serie di tensioni che trovano la loro espressione più evidente nel movimento studentesco degli anni ‘60 e ‘70 contro la guerra in Vietnam e nelle occupazioni universitarie. Le rivolte iniziate nel 1964 a Berkeley, con il Free Speech Movement, si diffusero rapidamente in tutto il paese, raggiungendo il loro apice nel maggio 1970 dopo l’invasione della Cambogia e la strage della Kent State University, quando un quinto delle 2.500 istituzioni universitarie americane era paralizzato da scioperi o occupazioni. Queste proteste esprimevano anche un malessere profondo verso le trasformazioni della struttura di classe nella società americana e la crescente subordinazione dell’istruzione superiore alle logiche del capitale. Tre fattori principali hanno alimentato questa ondata di protesta e di dissenso:

In primo luogo la crisi delle aspettative generata dal divario crescente tra le promesse del sistema educativo e la realtà del mercato del lavoro. Mentre le università continuavano a propagandare l’ideologia meritocratica e a promettere mobilità sociale e lavori gratificanti, la realtà che attendeva i laureati era sempre più spesso costituita da impieghi alienanti nel middle management delle corporations, caratterizzati da una crescente frammentazione delle competenze e perdita di autonomia. I dati raccolti dal sociologo Daniel Yankelovich mostrano come tra il 1968 e il 1971 la percentuale di studenti disposti a farsi “comandare” sul lavoro sia crollata dal 50% al 33%, rivelando una crescente insofferenza verso le gerarchie aziendali. In secondo luogo il processo di proletarizzazione del lavoro intellettuale che ha investito professioni un tempo caratterizzate da una relativa autonomia. In terzo luogo la crescente consapevolezza dell’irrazionalità e dello spreco insiti nel sistema produttivo capitalistico avanzato. La guerra in Vietnam, ma anche lo sviluppo di settori come la pubblicità e l’obsolescenza programmata, hanno reso sempre più evidente come molti prodotti del lavoro intellettuale servissero a perpetuare logiche di profitto e di dominio. Questa presa di coscienza ha minato alla base la motivazione di molti giovani a partecipare a un sistema percepito come fondamentalmente distorto e alienante. Di fronte a queste contraddizioni il movimento studentesco ha sviluppato quella che gli autori definiscono una “coscienza retrograda”, un nostalgico attaccamento all’ideale del professionista indipendente e dell’imprenditore individuale, figure ormai marginali nel capitalismo delle corporations avanzato.

4. Conclusioni teoriche

L’analisi dello sviluppo dei sistemi educativi primari, secondari e superiori negli Stati Uniti nell’arco dell’ultimo secolo e mezzo rivela una stretta corrispondenza tra le trasformazioni dei rapporti sociali di produzione e l’evoluzione delle strutture scolastiche. Questo parallelismo storico va ben oltre una semplice corrispondenza strutturale in un dato momento: dimostra come i cambiamenti nell’organizzazione sociale della produzione abbiano sistematicamente preceduto e plasmato le trasformazioni del sistema educativo. Tale sequenza temporale costituisce un forte argomento a favore dell’ipotesi che la struttura economica rappresenti un determinante fondamentale dell’organizzazione scolastica. La constatazione di questo parallelismo evolutivo non basta a spiegare i meccanismi concreti attraverso cui i cambiamenti educativi sono stati realizzati. Per comprendere appieno la dinamica di trasformazione del sistema scolastico è necessario esaminare criticamente le principali interpretazioni storiografiche e i processi politici che hanno guidato questo sviluppo. Le tradizionali spiegazioni del cambiamento educativo possono essere raggruppate in tre filoni principali. La prima, che potremmo definire dell'”imperativo democratico”, rappresentata da storici come R. Freeman Butts, vede nell’evoluzione scolastica americana una progressiva realizzazione dei valori di libertà e uguaglianza. Secondo questa visione il sistema educativo si sarebbe sviluppato come risposta alle esigenze di una società democratica, con lo Stato che assume il controllo delle scuole pubbliche per garantire un’istruzione comune a tutti i cittadini. Questa interpretazione idealizzata non riesce a spiegare la persistente natura autoritaria e gerarchica delle relazioni educative, né la sistematica subordinazione delle esigenze individuali agli imperativi del controllo sociale. La seconda prospettiva, quella della “domanda popolare”, sostenuta da autori come Ellwood Cubberly e Frank Tracy Carleton, attribuisce l’espansione dell’istruzione principalmente alle pressioni delle classi lavoratrici e dei movimenti popolari. Sebbene sia indubbio che le organizzazioni operaie abbiano avanzato richieste per un’istruzione più accessibile, questa interpretazione presenta diverse debolezze. In primo luogo, le rivendicazioni educative rappresentavano solo una parte minoritaria delle richieste del movimento operaio che concentrava piuttosto la sua attenzione su riforme agrarie, sicurezza del lavoro e cooperative. In secondo luogo, quando le richieste popolari in materia di istruzione entrarono in conflitto con gli interessi delle élite economiche, come nel caso del controllo sull’istruzione professionale all’inizio del Novecento, furono regolarmente sconfitte. Infine, l’opposizione all’espansione scolastica da parte di ampi settori della popolazione rurale e urbana mette in discussione l’idea di un consenso popolare unanime. La terza interpretazione, quella “tecnologica”, vede nell’evoluzione del sistema educativo principalmente una risposta alle crescenti esigenze di competenze della economia industriale. Questa prospettiva non regge a un esame attento dei dati storici. L’alfabetizzazione era già molto diffusa (circa il 90% tra i bianchi adulti) prima della riforma delle common school a metà Ottocento e non vi sono prove che i lavoratori istruiti fossero tecnicamente più produttivi dei loro colleghi meno scolarizzati. Inoltre, questa visione non riesce a spiegare perché il sistema educativo abbia assunto le specifiche forme organizzative che conosciamo, caratterizzate da rigide gerarchie e meccanismi di selezione di classe. Una lettura più convincente emerge dalla storiografia revisionista sviluppatasi nei decenni precedenti a questo libro, rappresentata da studiosi come Michael Katz, Clarence Karier e David Tyack. Attraverso un’attenta analisi dei documenti originali, rapporti scolastici, corrispondenza privata dei riformatori, archivi delle fondazioni, questi autori hanno delineato un quadro radicalmente diverso: l’espansione dell’istruzione di massa sarebbe stata principalmente uno strumento di controllo sociale sulle classi popolari in un contesto di crescente eterogeneità culturale e instabilità politica ed economica. L’interpretazione di Bowles e Gintis, pur riconoscendo il contributo dei revisionisti, propone una sintesi più dialettica. Il sistema educativo americano è infatti il prodotto di un complesso intreccio tra le esigenze del capitale, le lotte delle classi subalterne e le dinamiche istituzionali specifiche. Da un lato, le élite economiche hanno promosso l’espansione scolastica come mezzo per disciplinare la forza lavoro, ridurre i conflitti sociali e riprodurre le gerarchie di classe. Dall’altro, le pressioni popolari hanno effettivamente contribuito ad ampliare l’accesso all’istruzione, anche se raramente sono riuscite a determinarne la struttura e i contenuti.

Questa dialettica si manifesta chiaramente nell’evoluzione storica: nel periodo anteguerra, mentre i lavoratori chiedevano un’istruzione universale e controllo locale, ciò che ottennero fu invece una riorganizzazione centralizzata dei sistemi scolastici e una progressiva professionalizzazione dell’insegnamento. Allo stesso modo, l’espansione delle iscrizioni nel periodo postbellico, pur rispondendo in parte alle pressioni popolari, si realizzò attraverso forme, come i community college, che riproducevano le disuguaglianze sociali piuttosto che attenuarle. I meccanismi concreti del cambiamento educativo rivelano dunque una dinamica di conflitto e mediazione tra interessi contrastanti. Le riforme scolastiche sono state tipicamente promosse da coalizioni di professionisti dell’educazione, filantropi e rappresentanti del mondo degli affari, spesso con il sostegno di settori delle classi medie. Le resistenze popolari sono state superate attraverso una combinazione di coercizione (come le leggi sulla frequenza obbligatoria) e persuasione ideologica che presentava la scolarizzazione come via di mobilità sociale mentre in realtà riproduceva le strutture di classe esistenti. Questa analisi storica ha profonde implicazioni per comprendere le contraddizioni del sistema educativo e le possibilità di trasformazione radicale. Se l’istruzione si è sviluppata come risposta alle esigenze strutturali del capitalismo, la sua crisi odierna riflette le più ampie contraddizioni di questo sistema economico. Una strategia per un cambiamento autenticamente emancipatorio deve quindi partire dal riconoscimento di questa radicata interdipendenza tra scuola e rapporti sociali di produzione, cercando al tempo stesso di far leva sulle contraddizioni insite in questo rapporto per promuovere un’alternativa educativa fondata su principi di autentica democrazia e uguaglianza.

L’accumulazione capitalistica emerge come forza motrice dietro la trasformazione del sistema educativo americano, in un rapporto dialettico con al centro l’espansione delle forze produttive e la costante ridefinizione dei rapporti sociali di produzione. Il processo di accumulazione capitalistica presenta due aspetti fondamentali: l’aumento della produttività del lavoro attraverso l’innovazione tecnologica e l’estensione del controllo capitalistico sulla forza lavoro mediante la progressiva proletarizzazione di strati sempre più ampi della popolazione. Questa dinamica mentre garantisce l’espansione del sistema ne mina la stabilità attraverso la creazione di un crescente proletariato urbano e di un esercito industriale di riserva, alimentando così le contraddizioni insite nel modo di produzione capitalistico. Storicamente queste contraddizioni si sono manifestate in diverse forme di conflitto di classe, dagli scioperi di massa del tardo Ottocento alle occupazioni delle fabbriche negli anni ’30, dalle rivolte urbane degli anni ’60 alle lotte studentesche. L’élite capitalistica ha spesso saputo canalizzare queste tensioni attraverso riforme sociali, strategie divisive e un apparato ideologico che occulta le vere fonti dello sfruttamento. In questo contesto l’espansione dell’istruzione di massa ha svolto un ruolo cruciale come meccanismo di stabilizzazione temporanea del sistema. La scuola si è progressivamente trasformata in un terreno privilegiato dove si combattono i conflitti sociali, spostando sul piano educativo contraddizioni che nascono nella sfera produttiva. Questo spostamento attenua la minaccia diretta al sistema capitalistico e rende l’istruzione un campo di battaglia sempre più cruciale. Come osservava Kenneth Clark, la scuola diventa l’arena di una guerra di classe socio-economica e razziale combattuta però sotto la maschera della retorica egalitaria. L’intervento statale nel sistema educativo rappresenta una risposta alle contraddizioni generate dallo sviluppo capitalistico. Se nel primo capitalismo la famiglia assolveva contemporaneamente alle funzioni di produzione e riproduzione sociale, l’avvento della grande industria e del lavoro salariato ha richiesto nuove istituzioni capaci di conciliare accumulazione e riproduzione dei rapporti sociali. La scuola è emersa come istituzione chiave in questo processo, chiamata a potenziare la forza lavoro mentre simultaneamente riproduce le condizioni ideologiche per la trasformazione del lavoro in profitto. I principali periodi di riforma educativa, il movimento delle common school anteguerra, l’educazione progressista all’inizio del Novecento, le trasformazioni del secondo dopoguerra, coincidono sistematicamente con momenti di profonda crisi sociale e con l’integrazione di nuove fasce di lavoratori nel sistema salariale capitalistico. Ogni riforma ha risposto alle esigenze specifiche del capitale in diversi periodi storici: disciplina per la nascente classe operaia industriale, internalizzazione delle norme burocratiche per i dipendenti delle grandi corporation, gestione della forza lavoro femminile e minoritaria nel periodo postbellico.

Il processo di riforma educativa si sviluppa attraverso due dinamiche parallele: un aggiustamento pluralista decentrato e momenti di conflitto politico esplicito. Nella fase ordinaria, milioni di decisioni individuali, scelte scolastiche, referendum sui finanziamenti, delibere dei consigli scolastici, riconducono gradualmente il sistema educativo in corrispondenza con i mutati rapporti di produzione. Questo processo, apparentemente democratico e spontaneo, opera però entro un quadro economico determinato altrove, dalla logica del profitto e dal potere d’investimento della classe capitalista. Nei momenti di crisi acuta, quando il divario tra sistema educativo e rapporti di produzione diventa insostenibile, il processo di riforma assume invece i caratteri di uno scontro politico aperto. In queste fasi, l’élite capitalistica mobilita tutto il suo arsenale di potere, controllo sulle risorse finanziarie, influenza sui media, egemonia culturale, per definire l’agenda delle riforme necessarie. Le fondazioni filantropiche, in particolare, svolgono un ruolo cruciale nel delimitare il campo del possibile, escludendo alternative radicali che metterebbero in discussione i fondamenti stessi del sistema. Di fronte a questa egemonia le lotte popolari per l’istruzione hanno spesso assunto un carattere difensivo e parzialmente regressivo, cercando di preservare conquiste passate piuttosto che avanzare progetti alternativi. Dai movimenti contadini dell’Ottocento alle proteste studentesche degli anni ’60, la mancanza di un’alternativa politica organica al capitalismo ha condannato queste lotte a essere reattive più che propositive, frammentarie più che sistemiche. Questa analisi ci porta a riconoscere che il vero nodo della questione educativa non sta nelle riforme parziali del sistema esistente ma nella costruzione di un’alternativa politica capace di connettere le lotte per un’istruzione emancipativa con un progetto più ampio di trasformazione dei rapporti sociali di produzione. Solo un movimento che unisca lavoratori, studenti e insegnanti in una visione comune di società alternativa può spezzare il circolo vizioso per cui ogni conquista educativa finisce per essere riassorbita nella logica del capitale.

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