1. Un profilo di Fortini
Per Romano Luperini in La lotta mentale. Per un profilo di Franco Fortini il poeta fiorentino elabora una concezione della poesia radicalmente critica e dialettica che si distanzia sia dall’ermetismo sia dal neorealismo, rifiutando tanto l’idea di una poesia come esperienza assoluta e religiosa quanto quella di una letteratura ridotta a strumento di propaganda ideologica. La sua posizione nasce da un paradosso fondativo, ovvero l’incontro tra due influenze apparentemente inconciliabili, quella di Giacomo Noventa, poeta e pensatore cattolico di impronta reazionaria e giobertiana e quella di Karl Marx, la cui dialettica incarna, per la borghesia, lo “spavento” della storia. Da Noventa Fortini eredita la polemica contro la poesia moderna e l’idea che l’arte non possa esaurire la funzione dell’intellettuale, essendo soltanto una tra le molte attività del pensiero, senza alcun privilegio ontologico. Da Marx, invece, deriva la consapevolezza che la forma poetica stessa è un prodotto storico, legato alle classi dominanti e che dunque il poeta che si schiera dalla parte degli oppressi deve maneggiarla con estrema cautela, in una continua autocritica. Questa duplice eredità si traduce in una poetica che rifiuta ogni mitizzazione della letteratura e ogni ingenua fiducia nel suo potere rivoluzionario immediato. Fortini respinge la sacralizzazione ermetica della parola poetica che identifica vita e poesia in un’unità mistica e al tempo stesso contesta la tendenza neorealista a subordinare la letteratura a un messaggio politico diretto. La poesia non è né un “incitamento” né un “rimedio” in Fortini ma al massimo una “testimonianza precisa e inascoltata”, come scrive in Neve e faine. Essa non cambia il mondo, eppure ha un valore conoscitivo e critico purché sia consapevole dei propri limiti e delle proprie contraddizioni. La sua riflessione si avvicina, per certi versi, a quella di György Lukács, con l’idea di un’arte che si misuri con le massime dimensioni della storia umana e a quella di Bertolt Brecht, con la tecnica dello straniamento che rompe l’illusione realistica e costringe il lettore a una presa di coscienza critica. Tuttavia, mentre Noventa vedeva nel dialetto un rifugio di autenticità, una “lingua della madre” incontaminata dalla corruzione borghese, Fortini sceglie deliberatamente una lingua alta, classicheggiante, quasi “morta”, “Più morta di un inno sacro / la sublime lingua borghese è la mia lingua”, proprio per evidenziarne la natura storica e contraddittoria. La sua poesia non cerca una purezza originaria, anzi, mira a far risuonare lo stridore tra passato e presente, tra forma e contenuto, in una tensione che allude, ellitticamente, a un futuro possibile. La scrittura di Fortini è dunque un esercizio di estrema disciplina formale che rifiuta il lirismo soggettivo e le sperimentazioni avanguardistiche. La metrica assume la forma di una struttura razionale, autocosciente, che pensa se stessa e respinge la funzione melodica del verso e il gesto puramente distruttivo. Questo rigore nasce da una precisa scelta politica: se la forma è un prodotto della cultura dominante, il poeta che vuole opporsi a quel sistema non può accettarla passivamente ma deve lavorarla in modo che riveli le sue fratture interne. Dietro questa apparente aridità controllata, si nasconde una profonda tensione emotiva e utopica. Uno dei motivi centrali della poesia di Fortini è quello della veglia, intesa come attesa, vigilanza, resistenza intellettuale e morale. In Di Maiano e in Questo muro la veglia è associata all’inverno, al gelo, alla neve, tutte immagini ricorrenti che simboleggiano una condizione di sospensione, di autocontrollo e di repressione delle pulsioni vitali. A questa costellazione si oppone però quella della rosa, simbolo del desiderio e della rivoluzione, e della rondine, emblema di una liberazione futura. In La poesia delle rose l’inconscio affiora solo per essere immediatamente ricondotto alla disciplina della ragione: “Fuggite, allegorie. / Dovevi saperlo, saresti tornato / a scegliere il gelo, il volere e la spina”. Eppure, persino nella scelta del rigore, rimane la domanda: “Ma come domani saprò riconoscere / le rose uccise, le vive?”. Questa dialettica tra repressione e speranza raggiunge il suo apice in La gronda, uno dei testi più intensi di Fortini. Una casa corrotta dal tempo, simbolo di un ordine sociale ormai decrepito, è descritta in attesa del crollo definitivo che avverrà non per una ribellione violenta ma per il semplice posarsi di una rondine sulla gronda: “Penso con qualche
gioia / che un giorno, e non importa / se non ci sarò io, basterà che una rondine / si posi un attimo lì perché tutto nel vuoto precipiti / irreparabilmente, quella volando via”. La rivoluzione è un evento quasi naturale che sgretolerà un sistema già marcio. Allo stesso modo, in Qui libri, l’immagine di una coppia che si bacia sotto la pioggia a Leningrado irrompe nella claustrofobia dello studio, dove i libri diventano simbolo di un sapere sterile, contrapposto alla vitalità del gesto amoroso. Questa tensione tra controllo e desiderio, tra passato e futuro, ha anche una radice biografica. Fortini, nato Franco Lattes, rinnega il cognome paterno e costruisce un’identità intellettuale rigorosa, quasi austera, modellata su figure come Noventa, visto come un maestro di moralità ottocentesca. Durante gli anni della formazione si scontrò con l’egemonia dell’ermetismo, corrente che pure influenzò i suoi esordi, come si nota in Foglio di via, dove si avvertono echi di Ungaretti e Montale. Fortini si distaccò presto da quell’ambiente, avvicinandosi invece a Giacomo Noventa e alla sua Riforma letteraria, in cui trovava una critica radicale all’idealismo e alla chiusura della cultura italiana. La sua sensibilità fu sempre segnata da una duplice matrice: l’eredità ebraica, con il suo senso di responsabilità universale, e una forte tensione etico-religiosa che lo portò persino alla conversione al protestantesimo valdese. La sua attività letteraria si sviluppò in molteplici direzioni. Come narratore, pubblicò Agonia di Natale (poi riedito come Giovanni e le mani nel 1972) e Sere in Valdossola, opere in cui emergono già temi centrali della sua riflessione: la crisi dell’individuo, il rapporto tra storia e destino personale, la ricerca di una moralità non astratta ma calata nella concretezza della lotta politica. Come saggista, diede contributi fondamentali al dibattito culturale del secondo dopoguerra, con opere come Dieci inverni, Verifica dei poteri, testo cardine per la Nuova Sinistra italiana, e Questioni di frontiera, in cui analizzò con lucidità i meccanismi di integrazione degli intellettuali nel sistema capitalistico. La sua critica letteraria, raccolta in volumi come Saggi italiani e I poeti del Novecento, si caratterizzò per un approccio marxista ma mai dogmatico, aperto alle suggestioni della Scuola di Francoforte, del surrealismo e persino di una certa tradizione religiosa. La sua poesia, pur non essendo mai disgiunta dal resto della sua produzione, seguì un percorso autonomo e fortemente sperimentale. Abbiamo già detto che in Foglio di via si notano influenze contrastanti con l’ermetismo affiancato dall’impronta neorealista e persino un certo populismo di derivazione jahieriana, come nel Canto degli ultimi partigiani, dove il ritmo incalzante e le ripetizioni evocano una coralità epico-politica dice Luperini. Negli anni del Politecnico, la collaborazione con Vittorini e l’incontro con la poesia di Eluard e Brecht lo spinsero verso un linguaggio più diretto, impegnato, ma sempre sorvegliato sul piano formale. Con Poesia ed errore, Fortini approdò a una poesia volutamente aspra, anti-lirica, in cui il titolo stesso suggerisce l’ambiguità costitutiva dell’atto poetico: la poesia è insieme errore (deviazione, contraddizione) e consapevolezza di questo errore. In versi come quelli di Dico a te emerge una radicale sfiducia nella capacità della poesia di incidere sulla realtà, eppure proprio in questa negazione si afferma la sua necessità. Fortini rifiutava ogni estetismo consolatorio, ogni “grazia” poetica che nascondesse la durezza del reale e la sua adesione al realismo era di marca lukacsiana: non mera descrizione del dato immediato ma sforzo di cogliere la totalità storica. In parallelo, la sua poesia, specialmente in Una volta per sempre e L’ospite ingrato, si fece ancora più icastica, quasi epigrafica, con versi brevissimi, privi di congiunzioni, scanditi come sentenze irrevocabili. In L’ora delle basse opere, ad esempio, il linguaggio si fa crudo, allucinato, con immagini di violenza e degradazione che rivelano l’orrore nascosto dietro la facciata del miracolo economico. Negli anni ’70, con Questo muro, Fortini sembra riavvicinarsi a un tono più meditativo, quasi elegiaco, senza però rinunciare alla durezza della contraddizione. Il titolo stesso allude alla barriera tra parola e realtà, tra significato e significante, e alla possibilità di oltrepassarla. La poesia diventa più attenta al particolare, al frammento di vita quotidiana, come in Il presente, dove passato e futuro si condensano in un istante di pura attualità storica. La forma si fa più elaborata, a tratti manieristica, ma è proprio attraverso questo “artificio” che Fortini cerca una nuova immediatezza. La sua ultima fase poetica e saggistica fu invece caratterizzata da un’estrema consapevolezza delle aporie del mestiere intellettuale. Contrario tanto all’autonomia assoluta dell’arte quanto alla sua riduzione a puro strumento politico, Fortini insistette sulla contraddizione come unica via per non tradire la realtà. La sua eredità più profonda sta forse nell’aver mostrato che la poesia, pur nella sua marginalità, può ancora essere un luogo di resistenza, purché non cessi di interrogarsi sul proprio statuto e sulla propria funzione. Come scrisse in un verso memorabile: “credo alla verità di alcune mie poche poesie perché ogni loro verso porta il segno della contraddizione”.
2. Fortini e Pasolini
Luperini offre nel suo libro anche una riflessione approfondita sul contrasto tra Franco Fortini e Pier Paolo Pasolini, due intellettuali che, pur partendo da una comune matrice culturale e da affinità generazionali, sviluppano posizioni radicalmente opposte riguardo al ruolo della letteratura, dell’impegno politico e del rapporto con la realtà. La differenza fondamentale tra i due emerge già dai titoli delle loro opere: Una obbedienza di Fortini si contrappone alla disobbedienza pasoliniana, sintetizzando due atteggiamenti antitetici. Fortini incarna una poetica dell’inibizione, del controllo formale, del distanziamento critico, mentre Pasolini rappresenta l’esibizione, lo sperimentalismo linguistico, la visceralità esistenziale. Fortini, influenzato da modelli classici come Goethe (di cui è anche traduttore), rifiuta ogni eccesso vitalistico e ogni intemperanza espressiva. La sua lingua è volutamente “morta”, una “sublime lingua borghese” che, attraverso la sua stessa rigidità, mette in crisi la tradizione letteraria dominante. La sua obbedienza non è acquiescenza bensì un modo per mantenere una lucidità critica, per costruire un discorso che, partendo dal passato, possa parlare al futuro. La sua poesia e la sua saggistica sono attraversate da simboli di repressione e purezza che riflettono una tensione morale e politica verso un cambiamento radicale sempre mediato dalla razionalità. La sua influenza si è esercitata soprattutto sui poeti della “linea lombarda” (Risi, Giudici, Raboni) degli anni ‘60 e ‘70 e sui militanti del ’68 che ne hanno fatto un punto di riferimento per la critica al capitalismo avanzato e all’eurocentrismo. Pasolini, al contrario, fa della disobbedienza e dello scandalo i cardini della sua poetica. La sua adesione al neosperimentalismo, il suo plurilinguismo (che mescola dialetto, gergo popolare e lingua alta), la sua ricerca di una purezza immediata, nel Friuli contadino, nel sottoproletariato romano, nel Terzo Mondo, lo allontanano da ogni classicismo. La sua opera è un continuo atto di provocazione, un teatro della crudeltà in cui il privato e il pubblico si confondono, in cui la letteratura diventa testimonianza diretta di un disagio irriducibile. Mentre Fortini cerca di parlare al futuro attraverso un linguaggio controllato, Pasolini urla il suo malessere nel presente, rifiutando ogni mediazione. La sua influenza è stata più vasta ma anche più ambigua, segnando profondamente il romanzo italiano (da Morante a Camon) e ispirando anche la poesia “selvaggia” degli anni ‘70 che in lui ha visto un modello di ribellione esistenziale. Nonostante le differenze, i due autori condividono alcune fondamentali componenti psicologiche e culturali: un forte narcisismo, un moralismo spesso risentito, un interesse per le questioni religiose e una propensione per posizioni politiche estreme. Entrambi, inoltre, sviluppano una poetica della crudeltà, anche se con motivazioni opposte. In Fortini essa nasce da un’autorepressione masochistica, in Pasolini da una volontà di esibire lo scandalo, di renderlo oggettivo. Ebbero anche un diverso rapporto con i movimenti politici del loro tempo. Fortini è stato l’intellettuale del ’68. La sua austerità, la sua critica radicale al progressismo borghese, la sua utopia rigorosa ne hanno fatto un faro per una generazione di militanti. Pasolini, invece, inizialmente ostile al ’68 (che considerava un movimento piccolo-borghese e per questo motivo oggi è ripreso a piene mani da tutti i reazionari di destra, veri o mascherati da rossobruni, per attaccare la sinistra), è diventato un simbolo per il ’77, grazie alla sua capacità di incarnare il dissenso in forme nuove, spesso mediatiche. I suoi scritti “corsari” sul Corriere della Sera, la sua figura di intellettuale “disorganico” (né organico al PCI né completamente assimilabile alla Nuova Sinistra), la sua ricerca di una testimonianza diretta e scandalosa lo hanno reso un modello per i giovani degli anni ‘70 che in lui hanno visto un precursore della letteratura “selvaggia”, fusa con la vita e con la protesta. Per Luperini il successo di Pasolini presso le nuove generazioni contiene un’ambiguità di fondo. La sua visceralità, il suo anticonformismo, la sua capacità di usare i mass media per veicolare il dissenso lo avvicinano da un lato alla beat generation americana, dall’altro a una certa tradizione decadente che confonde arte e vita. Se Fortini rimane un isolato custode della purezza rivoluzionaria, Pasolini incarna le contraddizioni di un intellettuale che, pur rifiutando il sistema, ne utilizza i meccanismi, finendo per essere al tempo stesso inside e outside.
3. L’analisi di alcune opere
Pubblicata nel 1981, Una obbedienza rappresenta una delle raccolte più intense e complesse di Franco Fortini, distante sette anni dalla precedente Questo muro ma in dialogo stretto con essa, tanto che alcune delle diciotto liriche che la compongono furono scritte nello stesso periodo delle sezioni conclusive di quel libro, come Il falso vecchio e Di maniera e dal vero. Il titolo stesso, con la sua grafia volutamente priva di apostrofo (“una obbedienza” anziché “un’obbedienza”), impone una pronuncia dura, quasi spezzata, che riflette il tono rigoroso e disciplinato dell’intera opera. Questa scelta non è solo formale perché l’obbedienza a cui Fortini allude è insieme una virtù morale, un atto di auto-repressione e un movimento di sublimazione, un concetto che rimanda tanto alla sfera religiosa quanto a quella etico-politica, centrale nella sua poetica. La raccolta è divisa in tre sezioni, delle quali l’ultima, anch’essa intitolata Una obbedienza, costituisce il nucleo più denso e significativo. Qui, in particolare, emergono due poesie cruciali, Il nido e Leggendo una poesia, che ruotano attorno a due grandi temi intrecciati: la morte e la poesia, esplorati con una tensione metafisica e una lucidità quasi dolorosa. Il nido, uno dei vertici della produzione fortiniana, è strutturato in sei strofe di cinque versi ciascuna, alternate tra tono narrativo-riflessivo (in tondo) e sentenze astratte e gnomoniche (in corsivo). Le prime descrivono una scena notturna in cui l’io poetico, insonne, veglia mentre dall’altra parte del muro dormono ignari uccellini nel loro nido; le seconde elevano la riflessione a un piano universale, con un tono perentorio che sembra voler fissare verità eterne. La metrica, basata su endecasillabi allungati e con accenti insolitamente marcati, crea un ritmo ossessivo, quasi una musicalità mentale, dove la precisione formale riflette uno sforzo di controllo razionale sul caos emotivo. Il tema dominante è quello della morte e della distruzione, evocata attraverso parole ricorrenti come “strage”, “sangue”, “discariche” (quest’ultima presente in più poesie della raccolta) ma anche attraverso l’immagine degli uccellini ignari, simbolo di una fragilità destinata a soccombere. Di fronte a questa consapevolezza, il poeta oppone la veglia, la lettura, il sapere, atti di resistenza che culminano in una forma fanciulla di coscienza, un’illuminazione che gli permette di trascendere la disintegrazione e ritrovare, almeno momentaneamente, un’unità interiore. Il nido stesso, come grembo protettivo, diventa un’immagine ambivalente: luogo di inconsapevole vulnerabilità e metafora di un ritorno a uno stato primordiale di integrità. Se Il nido affronta soprattutto il tema della morte, Leggendo una poesia approfondisce il rapporto tra poesia e contraddizione. Qui Fortini esplicita il paradosso alla base della sua scrittura. La poesia nasce da un trauma originario, una scissione interiore (“Mi è stato fatto non so quando un male”), e si fonda sull’accettazione di una fondamentale stoltezza (“Una ingiustizia strana e indecifrabile / mi ha reso stolto e forte per sempre”). La forza creativa scaturisce proprio da questa ferita, da questa incapacità di appartenere pienamente al mondo (“Mai sono dove credo”), e la poesia diventa così un atto insieme di autoaccusa e autodifesa, di falsità e autenticità. Questi due testi non sono isolati visto che l’intera raccolta è percorsa da una visione tragica della realtà, dove il presente e il futuro appaiono come un teatro della crudeltà. In In morte di Pasolini, per esempio, Fortini respinge con durezza l’identificazione con il collega poeta, visto come emblema di una lacerazione esibita e non risolta (“Nulla ti fu mai vero. Non sei mai stato”), mentre in Recitativo secondo i morti sono ridotti a brutte materie, privi di qualsiasi redenzione. Eppure, anche in questo orizzonte di violenza e degrado (“discarica” è una parola ossessivamente ripetuta), Fortini non rinuncia a cercare una possibile salvezza nell’arte. La poesia, pur nella sua contraddizione, diventa uno strumento di conoscenza e resistenza, un modo per “intendere” il mondo anche quando esso si rivela incomprensibile.
Lo stile riflette questa tensione. Fortini adotta un linguaggio astratto e una retorica elevata, con frequenti inversioni sintattiche (anastrofi, iperbati) e un uso metonimico dell’astratto per il concreto (“la frenesia della madre”, “la illusione ha deserto le scene”) ma sotto questa superficie controllata, si avverte una voce fragile e disperata che tradisce l’angoscia di fronte all’orrore del reale. La metrica stessa, con i suoi ritmi spezzati e gli accenti insoliti, sembra lottare per mantenere un equilibrio sempre precario. Una obbedienza, possiamo concludere, che è un’opera profondamente moderna, dice Luperini, nonostante le apparenze classiciste. Fortini non evade nel passato e affronta con straziante lucidità la crisi del soggetto e la disintegrazione del mondo contemporaneo. La sua poesia non offre consolazioni facili: è anzi un atto di orgoglio disperato, un tentativo di tenere insieme, attraverso la forma, ciò che nella realtà si è irrimediabilmente frantumato. Se il “muro” (altro motivo ricorrente) separa il poeta dal mondo e il poeta da se stesso, la scrittura diventa l’unico spazio in cui quella divisione può essere, almeno temporaneamente, superata. Per quanto riguarda, invece, il senso e l’impianto del volumetto Memorie per dopo domani di Franco Fortini, pubblicato nel 1984 e curato da Carlo Fini, è letto da Luperini come un intervento che assume valenza eminentemente politica e polemica già dal titolo che propone un nesso imprescindibile tra memoria e futuro: l’atto del ricordare non è un rifugio nostalgico ma una condizione necessaria per progettare il domani. In una società unidimensionale, per riprendere la categoria marcusiana, che rifiuta la profondità storica e abolisce simbolicamente la morte come evento e come idea, il passato viene cancellato per impedire la possibilità stessa di un avvenire radicalmente diverso dal presente. Il lavoro di Fortini si propone come opposizione etica e intellettuale alla logica tautologica dello sviluppo senza rottura, al tempo statico del capitalismo avanzato. Il volume raccoglie tre testi, rispettivamente del 1945, del 1967 e del 1980, che si collocano in momenti cruciali della storia italiana e mondiale e sono uniti dalla medesima tensione verso una prassi politica e culturale non rassegnata. I primi due scritti, più immediatamente politici, manifestano una potente integrazione tra la riflessione intellettuale e l’azione. Il primo è una commemorazione dell’8 settembre 1943, pubblicata sull’Avanti! al termine della guerra, e il secondo è un celebre comizio per il Vietnam, pronunciato da Fortini nel 1967, poi apparso sulla rivista Che fare. Entrambi i testi esibiscono uno stile che riesce a fondere retorica alta, coscienza formale e impegno militante. La loro forza non risiede solo nel contenuto ma proprio nella forma. Fortini sa coniugare la solennità della parola letteraria con l’urgenza della militanza politica, mantenendo sempre uno stridore, una frizione viva tra il soggetto e il mondo, tra la potenza del possibile e la resistenza opaca della realtà. Lo stile è un veicolo necessario di rottura e verità. Il secondo testo, in particolare, è ricordato con intensità emotiva da Luperini perché la sua ricezione da parte del pubblico studentesco, inasprita dai fischi agli altri oratori e culminata in un ascolto silenzioso e teso del discorso fortiniano, testimonia che in quella parola letteraria abitava più futuro che nei programmi politici ufficiali. È proprio qui che Fortini denuncia, già nel 1971, l’errore profondo di gran parte delle Nuove Sinistre: l’adorazione dell’immediatezza e il rifiuto della forma come veicolo di mediazione e di senso. Questo atteggiamento ha contribuito in maniera decisiva alla crisi del Sessantotto perché ha reciso il legame tra prassi e pensiero, tra azione e memoria, tra trasformazione e linguaggio. Il terzo scritto, del 1980, rappresenta una torsione del discorso. Qui Fortini si mostra più disilluso e riconosce il venir meno della fiducia nella capacità della poesia, come parola formalizzata, di agire efficacemente contro il male del mondo, contro quella che una volta chiamava la “trionfale organizzazione delle carogne”. Tuttavia, sebbene affermi che ora occorrono altre armi, non necessariamente poetiche ma pur sempre parole-armi, questa dichiarazione non è una rinuncia alla politica, bensì una constatazione dolorosa della sconfitta, dello svuotamento delle promesse rivoluzionarie degli anni ’60 e ’70. Il Vietnam, la Cina di Mao, Cuba: simboli che un tempo indicavano direzioni alternative sono stati travolti da processi di omologazione, trasformati in contraddizioni brutali o svuotati di senso. E anche i giovani che ascoltavano Fortini in piazza sono oggi parte, forse, della stessa indistinzione. Eppure, nonostante tutto, il titolo del volume, Memorie per dopo domani, continua a costituire una proposta politica. È un’esortazione a non separare letteratura e politica, a non cedere alla tentazione della fuga individuale nella forma ma nemmeno a sacrificare la forma sull’altare di una prassi cieca. Il sottotitolo, Tre scritti 1945-1967-1980, e l’introduzione, Per tre momenti, segnalano la persistenza di un’idea di storia come percorso che richiede discernimento e che si struttura nel tempo, nella memoria e nella parola. Fortini, così, non rinuncia al compito di pensare un destino, nonostante le macerie, le disillusioni e i fallimenti. La scrittura stessa resta un campo di lotta, non più onnipotente ma nemmeno neutrale, e la memoria si conferma come la prima risorsa per continuare a pensare e forse costruire un “dopo domani”. Per quanto riguarda il libro Paesaggio con serpente, rappresenta un momento centrale nella produzione poetica di Franco Fortini, in cui si condensano le tensioni formali e ideologiche che hanno sempre caratterizzato il suo lavoro. Il titolo stesso, con la sua immagine duplice, funziona come una metafora della poetica fortiniana. Il paesaggio è simbolo di ordine, fissità classica, armonia compositiva mentre il serpente è elemento di rottura, minaccia dinamica, caos che irrompe nella perfezione formale. Questa dialettica tra stabilità e movimento, tra purezza e contaminazione, si riflette anche nello stile che alterna strutture metriche rigide (come il sonetto) a soluzioni prosastiche, passando attraverso echi sabiani e frammenti quasi teatrali. Al centro della raccolta c’è la figura del serpente che Fortini affronta con un approccio quasi esorcistico, come dimostra la citazione latina in dedica: “cantando rumpitur anguis”. Il canto, in Fortini, non è mai pura espressione lirica ma un atto magico, un tentativo di dominare il caos attraverso la ripetizione rituale, come avviene in Nota su Poussin, dove il suono ossessivo della “-u” (ripetuta in posizioni forti per ben 18 volte) diventa un incantesimo per tenere a bada l’orrore rappresentato dal serpente. Questo esorcismo, però, non è mai risolutivo: l’idillio classico, evocato attraverso riferimenti pittorici (Poussin) e letterari (Gongora, Milton), si frantuma sotto l’urto della storia e della violenza contemporanea. Il paesaggio perfetto, sospeso in un tempo mitico, viene violato da elementi dissonanti, come un claxon, uno sparo, che segnalano l’impossibilità di una vera riconciliazione tra arte e realtà. Questa frattura si riflette anche nella struttura del libro, dove poesie di carattere naturale e contemplativo (I lampi della magnolia, Fine d’ottobre) si alternano a testi di impegno politico e storico (Stammheim, Settembre 1968, Editto contro i cantastorie). Fortini rifiuta una semplice opposizione tra lirismo e impegno, infatti la sua poesia cerca piuttosto un punto di intersezione tra i due piani, un luogo utopico in cui natura e storia possano incontrarsi. In Primavera occidentale, ad esempio, la stagione naturale diventa allegoria di un possibile riscatto politico (“La parola è questa: esiste la primavera, / la perfezione congiunta all’imperfetto”), mentre in Incontri nel bosco il riferimento dantesco (l’incontro con Matelda nel Purgatorio) viene trasfigurato in un’immagine quotidiana e quasi onirica, dove una bambina con un cestino di mirtilli sostituisce la figura mitica, in un gioco di corrispondenze che sfugge al simbolismo tradizionale. Proprio il rifiuto del simbolismo è uno dei tratti distintivi di questa raccolta. Fortini critica la tendenza a cercare soprasensi nella natura, come dimostra il verso “inutilmente il reale è simbolico”. Le foglie dei platani sono solo foglie, i lampi della magnolia sono semplicemente lampi, e il “ronzio fine di èlitre” non allude a nulla se non al rumore meccanico degli insetti. La sua poesia preferisce un’allegoria di tipo politico e storico, in cui gli elementi naturali non rimandano a un significato metafisico ma a una possibilità concreta di trasformazione. Questo approccio lo avvicina a Walter Benjamin e alla sua teoria dell’allegoria come frammento dialettico, in cui passato e futuro si incontrano in una costellazione carica di speranza e rancore. Proprio il rancore è un altro tema cruciale del libro. Esso non è sterile risentimento ma forza che tiene viva la resistenza all’omologazione. In poesie come Da Shakespeare e Il seme, la morte stessa è vissuta con rabbia, come un ultimo atto di sfida contro la “brutta materia” del mondo. Questo stesso rancore diventa motore della scrittura, come se solo attraverso di esso la poesia potesse salvaguardare una possibilità di verità. In Leggendo una poesia, Fortini descrive un mondo in cui “c’è tale un urlio / che non permette di parlare / e nemmeno di tacere umanamente”. In questo caos, la poesia si configura come un’arma ambigua, “di secca ruggine”, ma pur sempre un’arma. La conclusione del libro è aperta, sospesa tra affermazione e negazione. La domanda “cantando rumpitur anguis?” rimane senza risposta definitiva: il canto può sconfiggere il serpente ma rischia anche di diventare complicità con il passato, come avviene nell’Editto contro i cantastorie, dove la poesia consolatoria viene rifiutata perché “fa dolce la vecchia vita”. Fortini sa che la poesia è un’eredità ambivalente, intrisa di cultura e barbarie, eppure non vi rinuncia perché in essa vede l’unica possibilità di preservare un futuro diverso. Come scrive in Molto chiare…, le cose sono visibili ma lo sguardo non vede ancora una storia: “però l’estate non è tutto”. In questa negazione c’è già il germe di un’altra possibilità, di un paesaggio che, forse, un giorno avrà un senso. Passiamo ora, sempre con Luperini, ad analizzare la raccolta Insistenze, collocandola nel contesto più ampio della produzione poetica e saggistica di Fortini, in particolare attraverso il confronto con i versi di Paesaggio con serpente. In quella poesia Fortini esprime una crisi profonda, quasi un annichilimento dell’identità dello scrivente, ovvero lo sguardo che non riconosce più una storia, l’ostinazione a scrivere in una lingua che sembra ormai estranea, l’interrogativo angoscioso sul valore stesso di quell’atto. Gli articoli raccolti in Insistenze, pubblicati tra il 1976 e il 1984 su testate come Il Manifesto e Il Corriere della Sera, si pongono come una risposta a quel grido di smarrimento, quasi un dovere etico e intellettuale (“Una risposta a queste domande è dovuta”). Ma se la poesia è il regno del dubbio e dell’incertezza, la prosa diventa il campo di una reazione ostinata, a tratti ferocemente polemica, contro il vuoto percepito nel mondo e dentro di sé. La scrittura in prosa di Fortini assume qui un ritmo martellante, un’aggressività fredda e implacabile, che non può essere compresa se non alla luce dello spaesamento evocato nei versi. Di fronte al crollo delle grandi narrazioni storiche e politiche, Fortini reagisce con un duplice movimento. Resiste, aggrappandosi alla memoria e alla tradizione, e si innalza, trasformando la solitudine in una condizione necessaria per la sua voce. È un paradosso tipico del suo percorso. Infatti più il contesto gli diventa ostile, più la sua scrittura acquista forza. L’isolamento, il dissenso, persino il vuoto circostante diventano il carburante della sua polemica che si fa sempre più tagliente e intransigente. Il titolo stesso del libro, Insistenze, gioca su un doppio livello. Mentre rimanda all’ostinazione dell’autore nel continuare a scrivere nonostante tutto, l’aggiunta di una “e” allude alla minaccia del nulla, alla crisi d’identità che rischia di annullare lo scrittore (“Non sa più chi sia / l’ostinato…”). Questa tensione tra crisi e reazione si traduce in uno stile peculiare, dove l’aggressività non è mai gratuita perché assume quasi un carattere etico. Fortini “incalza” i suoi bersagli con una violenza verbale che ricorda la ferocia dantesca (“così ’l sovran li denti a l’altro pose”). La sua prosa rifiuta la chiarezza rassicurante, preferendo una complessità dialettica, spesso sgradevole, che si alimenta di riferimenti colti e dissonanti. Un esempio emblematico è l’accostamento tra un’immagine televisiva contemporanea (i soldati americani che trascinano i cadaveri dei ribelli di Grenada) e un passo dell’Iliade in cui Achille sfoga la sua ira su Ettore. Non si tratta di un esercizio di erudizione fine a sé stessa, essendo un gesto radicale che unisce pessimismo storico e sublimazione etica, mostrando come la violenza sia una costante trasversale alle epoche. In questo Fortini si distanzia nettamente da un altro grande polemista come Pasolini. Pur condividendo il terreno della prosa giornalistica a sfondo etico-politico, i due autori divergono profondamente nel metodo. Pasolini cerca l’immediatezza, il coinvolgimento viscerale con il presente mentre Fortini opta per una mediazione riflessiva, spesso difficile, che attinge a una tradizione “alta” e scomoda. I suoi maestri, Marx, Lenin, Adorno, Lukács, sono volutamente fuori moda, scelti come bastioni contro il conformismo culturale. Altri autori un tempo amati, come Proust o Benjamin, vengono invece ripudiati perché strumentalizzati dai suoi avversari. La parte più originale di Insistenze è quella in cui Fortini si confronta con i “limiti oscuri” del presente: l’irrazionale, l’inconscio, le nuove ideologie giovanili, la retorica del suicidio. Qui, più che altrove, emerge il suo pessimismo biologico e storico ma anche la volontà di “guardare in faccia” queste ombre senza cedervi. Fortini rifiuta ogni romanticismo dell’inconscio. In una società dominata dal consumo e dallo spettacolo, persino la memoria involontaria è ormai un prodotto dei meccanismi di mercato. Con sarcasmo, smaschera il moratorium giovanile, l’eterna sospensione dell’età adulta, come un’illusione funzionale al capitalismo che ha interesse a mantenere le nuove generazioni in uno stato di perpetua immaturità. Insistenze consacra Fortini come l’erede più rigoroso della cultura del Sessantotto, capace di preservarne lo spirito critico senza cedere alle mode intellettuali. Certi passaggi del libro potrebbero essere discussi, ad esempio, il nesso talvolta forzato tra rivoluzione sociale ed ecologia della letteratura, ma la sua voce resta inaggirabile. In un’epoca di omologazione culturale, dove tutto viene livellato e reso equivalente, Fortini rappresenta l’incarnazione stessa del dissenso, una “perentoria tenerezza della pietas” che rifiuta ogni compromesso. La sua grandezza sta proprio in questo: nell’essere un ostinato testimone del conflitto, in tempi che preferirebbero dimenticarlo.